giovedì 24 maggio 2012
Tra "antipolitica" e ricerca del keynesismo continentale
Astensionismo
di Carlo Galli Repubblica 24.5.12 da dirittiglobali
di Nadia Urbinati Repubblica 24.5.12
Un nuovo patto
di Nadia Urbinati
Repubblica 24.5.12 da Segnalazioni
C´è
ancora spazio per una politica progettuale in Occidente? Dopo la
stagione riformatrice guidata dalla terna Clinton-Prodi-Blair sarà la
volta di Obama-Hollande-Monti? L´analogia tra i due tempi del riformismo
occidentale ha fatto timidamente capolino in alcuni blog stranieri in
coincidenza con il recente summit di Chicago che ha, da un lato,
rilanciato il ruolo internazionale del nostro paese e, dall´altro,
decretato la sconfitta dell´austerità senza espansione. Il bisogno di
immaginare una nuova strada dove sicurezza sociale e libertà riprendano a
marciare insieme non è solo dell´Europa. Gli Usa non ne hanno meno
bisogno. Senza giri di parole, soprattutto dopo la vittoria di Hollande e
le sconfitte elettorali del partito della Merkel, un nuovo New Deal
sembra meno utopistico oggi di quanto non lo fosse qualche mese o poche
settimane fa. L´opinione pubblica è sempre più convinta che i governi
debbano riprendere in mano la progettualità sociale ed economica e
soprattutto togliere alla agenzie private di rating il potere arbitrario
della reputazione (e della sfiducia). I governi sembrano meno
entusiasti dell´opinione dei loro paesi ma non è chi non veda che è nel
loro interesse riaffermare l´orgoglio della politica democratica come
fece il governo federale americano quando negli anni ´30 e ´40 lanciò
una campagna poco tenera contro i "grandi papaveri della finanza".
Il
bisogno di un nuovo New Deal pare far breccia anche in Europa,
costringendo governi poco immaginativi a rivedere la loro tradizionale
percezione della politica europea come non-politica o, al massimo,
politica-cerotto. Di fronte al bivio di perire o riprendere il filo
interrotto della costituzione politica, è probabile che la necessità
riesca a fare ciò che la volontà è stata fin qui incapace di fare: dare
corpo al progetto di un´Europa politica democratica. Al progetto
federale. Dove ispirarsi se non agli anni Trenta in America, dove la
distruzione fu come oggi causata non da una guerra ma dalla mancanza di
regole e di governo dell´economia. Allora, la depressione causò migliaia
di suicidi e una disoccupazione che in due anni passò dal 6% al 25%.
L´emergenza fu domata con la politica non dell´eccezione ma della
progettualità sociale. Nacque così la democrazia che è a noi familiare.
New
Deal vuol dire "nuovo patto" fra il governo e i cittadini. Quando venne
messo in cantiere, in due fasi, tra il 1933 e il 1938, non c´era ancora
la guerra ma la distruzione del sogno americano era già iniziata da
qualche anno. Franklin Delano Roosevelt fece comprendere ai suoi
concittadini che c´era un solo modo per rispondere all´emergenza:
diventando più, non meno, democratici. In Europa, già sotto il tallone
dei totalitarismi, a comprendere per primi questa sfida furono i
liberal-socialisti italiani. In articoli illuminanti di Carlo Rosselli e
di alcuni collaboratori dei "Quaderni di Giustizia e Libertà" venivano
nei primi anni ´30 messi nero su bianco i criteri che, dopo la guerra,
avrebbero consentito ai paesi europei di ricostruirsi su basi
democratiche: primo fra tutti la responsabilità del governo di garantire
la sicurezza sociale e la libertà.
Tre libertà furono messe in campo
da quei visionari: quella politica, quella civile e quella economica.
Per far sì che queste tre libertà operassero insieme essi compresero che
occorreva garantire tre sicurezze: l´azione del governo, la
responsabilità dei cittadini, le garanzie economiche o del lavoro. Il
problema che si era posto il presidente Roosevelt era di fare interagire
queste tre libertà e queste tre sicurezze, usando le istituzioni non
come guardiani inattivi. La strategia fu una sinergia federativa,
politica e sociale.
L´esito del New Deal, un programma non tanto di
incentivi all´occupazion ma di creazione di lavoro (per infrastrutture
soprattutto, ma non solo) da parte del governo, fu l´opposto di quel che
i suoi nemici liberisti temevano: uno stato democratico. E in effetti,
Roosevelt dovette convincere i suoi concittadini che egli non aveva
alcuna intenzione di diventare un dittatore, che guidare uno Stato
non-interventista non era la stessa cosa che dar vita al fascismo. E
così pure Rosselli, che proprio in quegli anni chiarì la differenza tra
stato democratico che interviene nell´economia e dittatura o
totalitarismo.
Di qua e di là dell´Oceano (benché in diversissime
condizioni) venne messo in quegli anni in piedi l´architrave di una
concezione bipolare del liberalismo: uno non-interventista e
indifferente alla democrazia, e uno sociale e naturale alleato della
democrazia. La differenza tra i due stava proprio nel modo di
interpretare la libertà. E la domanda che pose Roosevelt era molto ben
posta: siamo sicuri perché siamo liberi o siamo liberi perché siamo
sicuri? Che cosa deve fare un governo democratico perché la sicurezza
della libertà dei suoi cittadini sia vissuta, non solo sancita?
Nella
repubblica federale americana l´esito della grande depressione fu
l´irrobustimento della democrazia e il rafforzamento della solidarietà:
la realizzazione di quella "più perfetta unione" enunciata nella
Dichiarazione di Indipendenza. L´esito fu la reinterpretazione del
liberalismo come "libertà dalla paura" non dello Stato, ma, ora che lo
Stato democratico era costituzionale, dell´irresponsabilità di alcuni a
scapito dell´interesse generale. Salvare la democrazia dal collasso del
capitalismo senza regole fu la scommessa vinta dal primo New Deal,
l´architrave della nostra democrazia. È ragionevole pensare che la
rinascita della legittimità democratica in Europa richieda un nuovo New
Deal.
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