mercoledì 27 giugno 2012
Dopo due guerre mondiali perdute, la Germania è riuscita a mettersi alla testa del Grande Spazio europeo
Germania e Italia. Noi e loro 2.1
Dalla selva di Teutoburgo alle guerre moderne Quello slancio nazionalistico che resiste nei secoli
di Luciano Canfora
Corriere 27.6.12 da Segnalazioni
Nella
«Selva di Teutoburgo», nell'anno 9 dell'era volgare, l'esercito romano
al comando di Publio Quintilio Varo, attaccato a sorpresa durante la
marcia dai quartieri estivi a quelli invernali, fu distrutto dalle
truppe germaniche guidate dal principe Arminio, capo della tribù dei
Cherusci. Il sito esatto della battaglia è tuttora controverso. Arminio
«liberator haud dubie Germaniae» secondo la celebre definizione di
Tacito, era stato condotto a Roma sin dall'8 a.C. e lì educato e
addestrato nell'ambito di quella scuola militare «di eccellenza» che era
l'esercito romano. Dal 4 al 6 d.C. fu tribunus militum e durante la
campagna di Tiberio contro i Germani combattè nei ranghi dell'esercito
romano. Per i suoi meriti in quelle campagne ebbe la cittadinanza romana
e il rango equestre.
L'ostilità di Arminio contro i Romani venne
maturando quando Quintilio Varo promosse una romanizzazione forzata (nel
campo del diritto innanzitutto) nell'ampia area germanica in quel
periodo sotto controllo romano. Il passaggio dall'altra parte fu dunque,
nel caso di Arminio, un gesto che dal punto di vista di Roma era un
tradimento, dal punto di vista di una (ipotizzata) coscienza nazionale
germanica un atto di guerriglia e di liberazione nazionale.
Il
passaggio attraverso il tirocinio nei ranghi romani da parte di leader
divenuti simbolo della lotta contro Roma non era un fenomeno nuovo.
Anche Vercingetorige, al tempo della sofferta conquista cesariana della
Gallia, aveva compiuto lo stesso cammino. E forse anche Spartaco, al
tempo suo, era stato nelle truppe ausiliarie romane, prima di disertare e
divenire in quanto fugitivus schiavo-gladiatore e infine guida sagace
della più temibile sollevazione di schiavi del mondo antico.
Francia e
Germania quasi contemporaneamente, in momenti di particolare slancio
nazionalistico, hanno innalzato monumenti rispettivamente a
Vercingetorige e Arminio. Il monumento a Vercingetorige fu voluto da
Napoleone III; quello per Arminio, alto 26 metri (Hermannsdenkmal), in
stile «peplum», fu eretto a Detmold nella regione westfalica tra il 1841
e il 1875. Era la risposta tedesca non solo a Roma, ma anche alla
Francia del Secondo impero.
Per completezza ricordiamo che in
occasione della rivoluzione del 1830 un monumento se lo meritò anche
Spartaco a Parigi: dapprima esposto nel giardino delle Tuileries e poi
ritirato nel Louvre. Era il risultato innanzitutto di un vero e proprio
sussulto rivoluzionario, dopo gli anni cupi di Carlo X; ma non è
improbabile che una tale statua di tipo canoviano abbia a che fare anche
con il risentimento contro Roma dominatrice, visto che Spartaco aveva
fatto tremare la repubblica imperiale nel cuore stesso dell'Italia.
Per
Mommsen, Teutoburgo aveva segnato una tappa epocale nel processo di
riunificazione tedesca, e costituiva l'antecedente più glorioso della
riunificazione bismarckiana della Germania. Suo genero Wilamowitz, in un
importante «discorso di guerra» pronunciato in Bruxelles occupata dai
tedeschi (nel giorno di Pasqua del 1918), si spinse a teorizzare che
«gli Stati antichi sono senza eccezione Stati nazionali», mentre gli
Stati moderni «sono diventati nazionali non senza l'influenza di modelli
antichi». E precisava: «Il sentimento nazionale tedesco è emerso con
intensità solo dopo la riscoperta di Tacito e quando venne alla luce la
figura eroica di Arminio, il liberator haud dubie patriae suae».
Ci
si può seriamente interrogare sulla legittimità dell'uso della nozione
di «Stato nazionale» in relazione alla realtà germanica del 9 d.C. Ma,
se si considera che anche Engels considerava una battaglia di libertà la
lotta dei Germani, e di Arminio, contro l'introduzione del diritto
romano in terra germanica (reo di introdurre la proprietà privata), si
può ben concludere che il mito di Arminio è un mito davvero pantedesco,
condiviso dal liberale Mommsen, dallo Junker-conservatore Wilamowitz e
dal socialista Engels (e, nel dodicennio nazista, dall'«Ahnenerbe» di
Himmler, adoratore della Germania di Tacito).
Le parole di Engels
fanno impressione anche per certe inflessioni razziali: «Varo aveva
fatto male i suoi conti. I Germani non erano i Sirii! Imponendo loro la
civiltà romana, egli mostrò alle tribù confinanti, costrette a
confederarsi, che razza di giogo insopportabile li minacciava e li
costrinse a quella unificazione che essi fino a quel momento non erano
mai stati capaci di trovare» (Storia e Lingua dei Germani, 1881-1882).
Naturalmente
Teutoburgo ha una importanza storica enorme: non tanto perché anticipi
un processo di unificazione nazionale che in realtà si produsse molto
dopo e attraverso una storia molto accidentata e non sempre esaltante.
Fu, quella battaglia, il segnale chiaro e inequivoco — allo stesso modo
che Carre sessantadue anni prima all'altro capo dell'impero — dei limiti
oggettivi, e non valicabili se non con grande rischio, della
possibilità di espansione romana. Nello scontro tra potenze la regola
aurea è di comprendere quei limiti e di non trascenderli.
È la
ragione per cui, ad esempio, Stalin riteneva azzardato creare un
avamposto del proprio impero addirittura fin sull'Elba e avrebbe
preferito che, a guerra finita, si costituisse una Germania riunificata e
neutrale. Non passò, allora, quel progetto (più moderato di quello di
De Gaulle che proponeva la frantumazione del Reich sconfitto in quattro
Stati). Il mezzo secolo successivo ha portato la Germania a quella
egemonia sull'Europa che a torto il Führer aveva perseguito con le armi,
e che oggi è fondata sulla moneta. Finché la ruota della storia non si
rimetterà daccapo in moto, con buona pace di Frau Merkel.
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