martedì 26 giugno 2012
Industria dell'indignazione a lavoro a tempo pieno. Jonathan Littel e Repubblica continuano a diffondere notizie non verificabili e a manipolare l'opinione pubblica in favore della guerra alla Siria
Tra i martiri di Homs
di Jonathan Littel
Repubblica 26.6.12 da Segnalazioni
HOMS
QUESTO è un documento, non un testo rielaborato. È la trascrizione, più
fedele possibile, di due taccuini di appunti che ho preso durante un
viaggio clandestino in Siria, nel gennaio di quest’anno. Inizialmente
dovevano servire come base per gli articoli che ho scritto al ritorno.
Ma a poco a poco, nei lunghi periodi di attesa e di inattività, nei
tempi morti creati dalla traduzione durante le conversazioni, e a causa
di una certa frenesia che tende a voler trasformare subito il vissuto in
scrittura, quegli appunti si sono dilatati. È ciò che rende possibile
la loro pubblicazione. A giustificarla, invece, è ben altro: sono il
rendiconto di un momento breve e già scomparso, quasi senza testimoni
esterni, degli ultimi giorni della rivolta di una parte della città di
Homs contro il regime di Bashar al-Assad, poco prima che fosse soffocata
in un bagno di sangue, ancora in corso mentre sto scrivendo. Solo dopo
aver scritto questi appunti, e dopo aver lasciato la Siria, a Homs le
cose hanno cominciato a precipitare per davvero. Pensavo che ciò che
avevo visto fosse abbastanza violento, e credevo di sapere cosa
significasse questa parola. Ma mi sbagliavo. Perché il peggio era appena
iniziato, e quindi oggi mi vergogno rileggendo certi passi, per esempio
quelli in cui riferisco le nostre stupide liti con gli attivisti di
Baba Amr, liti che ci sono state e che avevano un motivo (ecco perché
non censuro quei passi), ma che assumono tutt’altro significato alla
luce di ciò che sarebbe accaduto, e del comportamento successivo degli
interessati (Jeddi e Abu Hanin, per citarne solo due), a cui molti
giornalisti occidentali devono la vita.
Riassumo: la sera del 3
febbraio, all’indomani della mia partenza, molte granate si sono
abbattute sul quartiere di al-Khaldiye, proprio vicino alla piazza degli
Uomini liberi. Cadevano a intervalli, e tutte hanno colpito più o meno
lo stesso punto, il che non può essere una coincidenza. Conseguenza: le
persone che si erano precipitate a soccorrere le vittime della o delle
prime granate sono state a loro volta uccise o gravemente ferite. I
telefoni funzionavano ancora e ho chiamato Mani, che era rimasto a Baba
Amr. Avrei voluto conoscere la sorte di tanta gente — Abu Adnan, Abu
Bakr, Najah (sono sopravvissuti, per lo meno a quell’episodio), il
barbiere della piazza, il pasticcere Abu Yasser, il meccanico e i suoi
amici, i due venditori di kebab — ma gli ho chiesto di informarsi su una
sola persona: Mahmud, il bambino di dieci anni che danzava durante le
manifestazioni e lanciava gli slogan stando sulle spalle degli adulti.
Mani non è mai riuscito a farmi sapere niente. Molti altri erano già
morti, allora. Sabato 4 l’esercito ha intensificato il bombardamento su
Baba Amr, e il 6 o il 7, non ne sono del tutto sicuro, la rete
telefonica è stata definitivamente disattivata. In quel momento Mani si
trovava in centro città e, con la direzione di Le Monde, abbiamo un po’
perso le sue tracce finché anche lui non se n’è andato da Homs, l’11
febbraio. Quasi tutti i contatti che potevamo avere con gli attivisti si
sono interrotti in quel momento, tranne con i due gruppi che
disponevano di un sistema satellitare Bgan, ovvero gli attivisti di
al-Khaldiye e di Baba Amr.
Tutti i giorni, su YouTube, compaiono
video, uno più immondo dell’altro, commentati, fino alla sua partenza
per il Libano, dal siriano-britannico Danny Dayem, e poi molto spesso da
un giovane medico — o piuttosto, probabilmente, uno studente di
medicina, non sono sicuro — che avevo incrociato varie volte ma che non
compare in questi taccuini, il dottor Mohammed al-Mohammed. Una cosa era
evidente: il bombardamento del quartiere si intensificava di giorno in
giorno (si sapeva poco degli altri quartieri, ma non sembrava che fosse
meglio), e il numero delle vittime civili aumentava.
Chi non ha
troppi problemi ad addormentarsi si prenda la briga di guardare alcuni
di quei video, lo invito a farlo. In effetti Baba Ami ha una
particolarità, che avevo notato ma a cui al momento non avevo attribuito
tutta l’importanza che merita: è stato costruito frettolosamente e in
modo semiabusivo da persone respinte ai margini di Homs e con pochi
mezzi, che quindi ritenevano superfluo scavare una cantina costruendo il
loro piccolo edificio. Una cantina è utilissima per sistemarci vecchi
mobili o immagazzinare patate e cipolle, ma si può farne a meno quando
non si buttano mai via i mobili e la scorta di patate e cipolle sta
facilmente in cucina. È tutt’altra storia quando un esercito moderno,
equipaggiato con carri armati d’assalto, razzi di tipo Grad, e mortai di
calibri diversi sino ai 240 mm, arma mai usata in un conflitto
contemporaneo a parte la Cecenia, bombarda il tuo quartiere strada per
strada, casa per casa, in modo metodico e sistematico, per ventisette
giorni.
L’offensiva delle forze di Bashar al-Assad era cominciata,
guardacaso,all’indomanidelvoto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni
unite su una risoluzione, peraltro piuttosto fiacca, ispirata al piano
di pace della Lega araba, a cui Russia e Cina hanno risolutamente
opposto il loro veto. Poco interessate a ripetere l’avventura libica,
anche quando appariva chiaro che il massacro tanto temuto a Bengasi si
stava effettivamente svolgendo a Homs, la diplomazia americana e quella
europea si invischiavano in discussioni interminabili, piuttosto
ridicole, su «corridoi umanitari » o proposte dello stesso tenore. I
loro colleghi arabi, qatari o sauditi cominciavano a mormorare che si
sarebbe potuto prospettare un intervento più energico, in particolare
mediante trasferimento di armi all’Esl, ma nessuno li ascoltava. È a
questo punto che, alquanto esasperato, nell’ultimo dei miei articoli per
Le Monde ho proposto di tacere e abbandonare i siriani al loro destino.
Purtroppo è ciò che è stato fatto.
L’epopea dei giornalisti
occidentali uccisi o feriti a Baba Amr ha acceso i riflettori su ciò che
accadeva laggiù, e al tempo stesso ne ha paradossalmente distolto
l’attenzione. Da una parte non si poteva più dire di non sapere cosa
stesse succedendo; dall’altra si potevano riempire i telegiornali e le
colonne dei quotidiani di omaggi (più che meritati) a Marie Colvin e
Rémi Ochlik, uccisi il 22 febbraio in un bombardamento mirato, con
razzi, della casa dell’«Ufficio stampa», e poi concentrare tutta
l’attenzione delle diplomazie e dei media sul salvataggio dei
giornalisti feriti nello stesso attacco, Édith Bouvier e Paul Conroy,
nonché degli altri due che avevano scelto di rimanere con loro invece di
fuggire attraverso il tunnel, Javier Espinosa e William Daniels. Non
trovo le parole per parlare del loro coraggio e dell’incubo che hanno
vissuto finché non sono riusciti, uno dopo l’altro, a raggiungere il
Libano, una settimana dopo. Ma constato anche che, salvo rare eccezioni,
nessun media occidentale ha parlato degli attivisti e giornalisti
siriani che si trovavano con loro, tranne alla fine, quando tredici
«militanti» non identificati sono rimasti uccisi durante il
trasferimento in fretta e furia dei feriti.
Ho scarse notizie dei siriani che, in pochi giorni, sono diventati nostri amici. La maggior parte
degli
attivisti dell’informazione e del personale medico di Baba Amr (tra cui
Abu Hanin e Mohammed al-Mohammed) sono riusciti a fuggire con i resti
dell’Esl appena prima della caduta definitiva del quartiere, venerdì 2
marzo, a eccezione di Jeddi, che ha scelto di rimanere: il I° aprile
Jeddi, il cui vero nome è Ali Othman, è stato arrestato ad Aleppo, e da
allora starebbe subendo le peggiori torture. Gli attivisti di
al-Safsafi, al-Khaldiye e al-Bayada — Omar Telaoui, Abu Bilal, Abu Bakr,
Abu Brahim — sono ancora in vita, stando ai contatti che Mani è
riuscito ad avere, anche se la loro situazione resta difficilissima.
Fadi, Alaa, Abu Yazan, Ahmad e gli altri combattenti dell’Esl che
compaiono in questo taccuino devono essere morti o peggio, o forse no,
ma con ogni probabilità non lo saprò mai. Di molti tra quanti ho citato
qui con il nome proprio, un’iniziale o uno pseudonimo che si erano
scelti per lanciarsi in questa avventura, certo non rimarrà nulla al di
là di questi appunti, e del loro ricordo nella mente di chi li ha
conosciuti e amati: tutti quei giovani di Homs, sorridenti e pieni di
vita e di coraggio, e per i quali la morte, o una ferita atroce, o la
rovina, la degradazione e la tortura erano poca cosa rispetto
all’inaudita felicità di essersi scrollati di dosso la cappa di piombo
che pesava da quarant’anni sulle spalle dei loro padri.
Titolo
originale Carnets de Homs. 16 janvier — 2 février 2012 © 2012 © 2012
Éditions Gallimard, Paris per la prima edizione © 2012 Giulio Einaudi
editore s. p. a., Torino
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