Istruito e integrato: l'altro volto del fanatico
martedì 26 giugno 2012
L'altra faccia della teoria del totalitarismo: la storiografia in chiave psicopatologica
Questo testo si colloca in una lunga tradizione, che rimonta a Edmund Burke e poi a Tocqueville e Constant e legge le tendenze rivoluzionarie come follia. Ovviamente, i folli fanatici sono solo gli avversari del liberalismo. E sono anche tutti uguali, cioè totalitari. Sergio Romano richiama a maggiore razionalità [SGA].
Gérald Bronner: Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici, il Mulino, pagine 238, € 19
Risvolto
Nel senso comune le derive estremiste sono attribuite
ad anomalie psichiche (i fanatici sono dei folli con personalità
disturbate), oppure all’indigenza sociale, affettiva e intellettuale (i
fanatici hanno un’esperienza povera e riduttiva del mondo). La realtà è
assai diversa: il pensiero estremo è tipico di persone istruite,
cresciute in ambienti sociali risparmiati dalla miseria. Per chiarire il
paradosso, Bronner passa in rassegna un’inquietante galleria di figure
emblematiche del fanatismo, dai collezionisti compulsivi ai jihadisti di
Al-Qaeda, passando per i fissati degli Ufo. Una cartografia del
territorio mentale estremista che spiega come si possa giungere a
sostenere un’idea, non importa quanto assurda e lontana dalla realtà,
fino alle estreme conseguenze.
Gérald Bronner è docente nell’Università di
Strasburgo e membro dell’Institut Universitaire de France. Con questo
libro ha vinto il Premio europeo Amalfi per la sociologia e le scienze
sociali.
Istruito e integrato: l'altro volto del fanatico
Ira, Raf, Br: gli estremisti sembrano persone normali
di Paolo Mieli
Corriere 26.6.12 da Segnalazioni
Viaggi
nella psiche dei profeti armati. S’intitola Il pensiero estremo. Come
si diventa fanatici (il Mulino, pagine 238, € 19) il saggio dedicato da
Gérald Bronner alle origini dei movimenti oltranzisti. Sulle radici
culturali del terrorismo è di grande utilità il libro di Michael Confino
Il
catechismo del rivoluzionario (Adelphi). Alexis de Tocqueville illustra
le ragioni del 1789 nel classico L'antico regime e la Rivoluzione
(Rizzoli). Elie Barnavi si sofferma sul fanatismo a fondo confessionale
in Religioni assassine (Bompiani).
A non pochi piace pensare che
l'estremismo sia la conseguenza della debolezza psicologica di alcuni
individui, attribuibile «a dispiaceri personali, inadeguatezze sociali,
scarsa istruzione, disumanità o psicopatia». Anche a detta degli
analisti più avveduti, chi compie una scelta estrema lo fa «per colmare
il vuoto della propria vita affettiva» e il terrorismo, di matrice sia
religiosa sia politica, è alimentato «dalla marginalità sociale o dalla
scarsa istruzione».
Niente di più sbagliato. Nella maggior parte dei
casi, «gli individui che aderiscono a questo tipo di pensiero estremo
non sono pazzi, né stupidi o disadattati». Del resto il nostro
sentimento di indignazione non sarebbe compatibile con la sensazione di
irrazionalità. Se questi individui «agissero spinti da una forma di
follia stabile o temporanea, dalla disperazione o da altre cause che li
trasformano in automi della barbarie, non potrebbero essere ritenuti
moralmente (e, in una certa misura, nemmeno giuridicamente) responsabili
dei loro gesti». L'irragionevolezza «può suscitare un sentimento di
orrore ma non di indignazione». Concetti e parole tra virgolette che
sono a fondamento di un bel saggio di Gérald Bronner, Il pensiero
estremo. Come si diventa fanatici, edito dal Mulino.
Ma prima di
addentrarci in questo campo d'indagine, occorre fare una premessa. Non
ci siamo ancora del tutto liberati dalla concezione della storia
dell'umanità come una serie di passaggi da uno stato infantile a uno
adulto. In base a questa prospettiva, nell'Ottocento si riteneva che
l'Europa si trovasse nello stadio più avanzato della storia, mentre i
popoli del Terzo Mondo erano rimasti nella condizione infantile.
All'inizio del Novecento Lucien Lévy-Bruhl si spinse a ipotizzare una
differente evoluzione sociale tra i popoli occidentali e quelli
«primitivi» ai quali lui attribuiva un «pensiero prelogico». Edward B.
Tylor, il primo antropologo a cui l'Università di Oxford assegnò una
specifica cattedra (nel 1896), concepiva la storia dell'umanità come
«uno sviluppo della mente umana verso uno stadio di complessità e
razionalità crescenti». Sosteneva che «le credenze, i miti, e tutto ciò
che allontanava il pensiero dalla razionalità oggettiva costituiscono
retaggi del passato, utili all'antropologo impegnato a studiare le
configurazioni arcaiche della cognizione, ma condannati a scomparire
dalle società moderne». Sbagliava.
Nel 1986 Françoise Bouchayer ha
fatto un'interessante indagine sul campo a Loch Ness e ha scoperto che a
credere all'esistenza del mostro erano soprattutto individui diplomati.
D'altra parte non si può non notare come basso status sociale e scarsa
istruzione non fossero affatto caratteristiche della maggior parte dei
militanti dell'Ira, delle Brigate rosse, della banda Baader Meinhof,
dell'Armata rossa giapponese. E Mohammed Atta, il principale
responsabile dell'attentato dell'11 settembre 2001 alle Twin Towers,
era, come è noto, laureato, per giunta con una tesi sulla
riqualificazione architettonica dei quartieri antichi. Parimenti
istruito era stato Sergej Necaev il rivoluzionario russo che — come ha
ben ricostruito Michael Confino nel libro Il catechismo del
rivoluzionario. Bakunin e l'affare Necaev (Adelphi) — trascinò nel
fanatismo parte considerevole di due generazioni di giovani russi alla
fine dell'Ottocento.
Alexis de Tocqueville — nel 1856, in L'antico
regime e la Rivoluzione (Rizzoli) — notò che la presa della Bastiglia
era stata preceduta da un ventennio di benessere. Paradossalmente «a
mano a mano che si sviluppa in Francia la prosperità, gli spiriti
sembrano più inquieti, il malcontento pubblico si inasprisce; l'odio
contro tutte le antiche istituzioni aumenta, la nazione si avvia
palesemente verso una rivoluzione». Spiega poi Tocqueville: «Vent'anni
prima non si sperava nulla dall'avvenire, adesso non si teme nulla;
l'immaginazione, impadronendosi in anticipo di quella felicità prossima e
inaudita, rende indifferente ai beni che si hanno e spinge a precipizio
verso le cose nuove».
Dopo un incoraggiante periodo di prosperità,
nota adesso Bronner, alcune categorie di individui cominciarono a
nutrire anticipazioni troppo ottimistiche, come se la loro visione del
futuro fosse una tangente rispetto alla china in discesa del presente.
Quando le previsioni si rivelarono sbagliate, questi individui si
sentirono defraudati da ciò che ritenevano spettasse loro di diritto.
Perché, nei loro sogni ad occhi aperti, si erano già concessi quei beni
ai quali ora avrebbero dovuto rinunciare. Il malcontento si diffuse in
particolare in gruppi generalmente poco «rivoluzionari» (come
redditieri, commercianti, industriali), penalizzati dalla cattiva
gestione dello Stato. Il loro intenso desiderio di arricchirsi,
alimentato dalla recente prosperità, era destinato ad essere frustrato
dai debiti non pagati dello Stato (e da quelli che loro stessi avevano
contratto). Il desiderio di riforme, in particolare delle istituzioni
finanziarie, nasceva da tale irritazione generalizzata. A questo punto
Tocqueville si domanda: «Come sarebbe stato possibile sfuggire a una
catastrofe?». In nessun modo, quando si ha «da una parte una nazione
all'interno della quale il desiderio di far fortuna cresce ogni giorno» e
«dall'altra un governo che eccita continuamente questa passione nuova e
continuamente la turba, l'attizza e la delude, affrettando così la
propria rovina».
Lo spazio della frustrazione collettiva, osserva
Bronner, è definito dallo scarto tra ciò che riteniamo possibile e
desiderabile, da un lato, e l'effettiva realizzazione di tali
prospettive, dall'altro. Se questo spazio è eccessivo, la situazione
rischia di farsi esplosiva. Nel 1962 James C. Davies, studiando la
rivoluzione russa del 1917, giunse alla conclusione che «un movimento di
protesta sociale ha più probabilità di verificarsi se è preceduto da
una crisi economica, a sua volta conseguente a un lungo periodo di
crescita e di prosperità». In seguito a lunghi periodi di crescita
economica, «le aspirazioni della popolazione si orientano verso l'alto,
le azioni, gli investimenti e i desideri sono ispirati dalle modalità di
anticipazione dell'avvenire; se una crisi improvvisa manda all'aria
tutti i progetti, gli individui, costretti a ridimensionare o ad
annullare le loro elevate aspirazioni, sperimentano un'intensa
frustrazione». E, dice Davies, l'aggregazione delle frustrazioni può
scatenare una rivoluzione. Ma, specifica Bronner, tale struttura della
frustrazione collettiva è solo una delle possibili forme che può
assumere la distinzione tra livelli d'aspirazione (cioè le credenze
collegate al futuro) e il livello di soddisfazione reale (risultato del
confronto della credenza con la realtà). Andando più in là di Davies,
Ted Gurr ha proposto di aggiungere altre due strutture: «Nella prima il
livello di aspirazione resta costante quando cala quello di
soddisfazione, nella seconda il livello di soddisfazione reale resta
stabile anche quando aumenta quello di aspirazione».
Già alla fine
dell'Ottocento, in Sociologia del suicidio (Newton Compton), Émile
Durkheim aveva messo in risalto come in ogni Paese «il tasso di suicidi
non aumenta solo, come prevedibile, nei periodi di crisi economica, ma
anche nelle fasi di prosperità (è accaduto ad esempio in Italia e in
Prussia negli ultimi anni del XIX secolo)». Il fattore di generazione
dei suicidi, spiegava Durkheim, non è tanto la miseria quanto il brusco
cambiamento sociale; «ogni rottura di equilibrio, anche se apportatrice
di un maggiore benessere e di un aumento della vitalità generale, spinge
alla morte volontaria». Le crisi, a prescindere dalla loro natura
negativa o positiva, impediscono provvisoriamente alla società di
esercitare la sua azione di regolazione dei desideri. «Un qualunque
essere vivente», sono sempre parole di Durkheim, «non può essere felice e
non può nemmeno vivere se i suoi bisogni non hanno un rapporto
sufficiente con i mezzi di cui dispone». Nei periodi di brusca
prosperità, le aspirazioni non regolate degli individui tendono a
collocarsi ad un livello inaccessibile, alimentando la frustrazione.
Già,
la frustrazione. Gli jihadisti di tutto il mondo — ha scritto Elie
Barnavi in Religioni assassine (Bompiani) — al di là delle differenze
che intercorrono tra loro, ritengono tutti di essere stati umiliati
dall'Occidente e sono ossessionati dall'idea di prendersi una rivincita.
Le origini dei soprusi percepiti sono molteplici: la colonizzazione, la
schiavitù, la dominazione economica e culturale e tutta una serie di
fatti d'attualità ritenuti collegati ad una «famiglia immaginaria» (nel
loro caso quella dei musulmani oppressi). E, dal momento che non è
difficile individuare nel mondo dei musulmani oppressi dagli
occidentali, l'estremista ritiene legittimo che un qualsiasi musulmano
possa, a sua volta, colpire gli occidentali.
Eppure le costruzioni e
le rivendicazioni dei terroristi appaiono assurde anche a uno sguardo
superficiale. Certo, spiega Bronner, «perché le credenze estreme ci
vengono di solito presentate nella loro forma costituita, mentre per
comprenderle avremmo bisogno di osservarne il processo di costituzione;
l'adesione a queste credenze è caratterizzata da una meccanica
progressiva, quasi invisibile per l'osservatore». I gruppi estremisti
sanno bene che se la loro dottrina fosse conosciuta subito e in forma
integrale, essa scoraggerebbe molti potenziali affiliati; perciò si
preoccupano di introdurre in maniera progressiva un sistema di credenze
che, se si giudicassero tutte assieme, il senso comune liquiderebbe come
assurde. Devono dunque spingere l'adepto ad accogliere per gradi tale
sistema di credenze. «Talvolta la verità stessa della dottrina è tenuta
(temporaneamente) nascosta; questa astuta manipolazione consente di
eludere le resistenze suscitate in qualunque persona da proposizioni
stravaganti».
Perciò una tappa fondamentale è quella della
conversione. La conversione «è il risultato di una sottile combinazione
di esperienze personali e prove esterne che gradualmente costruiscono
una credenza spettacolare, del tutto scollegata dal senso comune». A
ciascuna tappa del processo, «l'iniziato si confronta con argomenti
nuovi che, per essere accolti, richiedono un impegno lievemente
superiore rispetto al livello precedente; una volta innescato questo
meccanismo cognitivo incrementale, diventa molto difficile decostruire
le credenze del discepolo ricorrendo ad argomentazioni contraddittorie».
Poi, scrive Bronner, una delle modalità di ingresso nel fanatismo, ben
documentata dagli esperti, è collegata all'impressione di penetrare nel
tempio della purezza, dove si espiano tutti i peccati commessi e si
riscattano le umiliazioni precedenti a questa rinascita.
Di qui un
percorso di formazione che ben si ravvisa nell'estremismo musulmano. Si
propone una particolare rilettura della storia del mondo che conduce
l'iniziato alla conclusione che l'azione violenta non solo è necessaria,
ma anche eticamente giusta. Viene descritta un'età dell'oro, ai tempi
del Profeta e dei primi califfi, un'epoca di equilibrio e di serenità,
durante la quale gli esseri umani vivevano in armonia con Dio e
imponevano il rispetto della sua volontà. L'empietà degli infedeli ha
infranto questo equilibrio perfetto, inaugurando un'epoca di decadenza.
Ha notato Hannah Arendt nella sua opera Le origini del totalitarismo
(Einaudi) che «i movimenti totalitari evocano un mondo menzognero di
coerenza che meglio della realtà risponde ai bisogni della mente umana e
in cui, mercé l'immaginazione, le masse sradicate possono sentirsi a
proprio agio ed evitare gli incessanti colpi che la vita e le esperienze
reali infliggono agli uomini e alle loro aspettative». Si è avuta poi,
secondo questa ricostruzione storica, l'era dell'umiliazione e della
frustrazione. Walter Runciman, in Ineguaglianza e coscienza sociale
(Einaudi), ha dimostrato che «il sentimento di frustrazione è più acuto
quando l'individuo attribuisce il suo fallimento percepito (cioè la
differenza tra le sue aspirazioni e la loro effettiva realizzazione) non
a ostacoli posti a lui come persona, ma a una discriminazione della
comunità di appartenenza». Sarebbe «per favorire la rovina dei
musulmani» che il mondo occidentale avrebbe fatto occupare parte delle
sue terre al «malefico popolo di Israele». Non si sfugge
all'umiliazione.
Uno degli ideologi dei Fratelli musulmani, Sayyid
Qutb, già all'inizio degli anni Cinquanta, reduce da un viaggio negli
Stati Uniti, ne parlò come di un Paese da distruggere. Capì che
difficilmente ai giovani lì espatriati sarebbe stato riconosciuto lo
stesso status sociale che avevano nel Paese d'origine, benché il loro
livello di istruzione fosse spesso superiore alla media nazionale del
Paese di adozione. La sensazione di declassamento e di frustrazione che
ne derivava era la conseguenza dello scarto tra ciò a cui pensavano di
aver diritto, le speranze nutrite prima della partenza, e ciò che
avevano ottenuto nella realtà. Alexis de Tocqueville per primo ha notato
come il pensiero estremo possa essere considerato un'espressione
particolarmente rappresentativa della modernità. «Le società
democratiche causano, per loro natura, un tasso di frustrazione
superiore a quello prodotto da tutti gli altri sistemi sociali». Questo
proprio «in ragione dei principi su cui si fondano: ricompensa del
merito e rivendicazione dell'uguaglianza».
Reduce dal celebre viaggio
in America, Tocqueville scrisse di quello «strano malessere psicologico
dei cittadini» che pure per le condizioni materiali di vita —
soprattutto se messe a confronto con quelle degli europei — avrebbero
avuto poco di cui lamentarsi. «Quando sono abolite tutte le prerogative
di nascita e di fortuna, quando tutte le professioni sono aperte a tutti
e uno può arrivare con le sue sole forze all'apice di esse», scriveva,
«davanti all'ambizione degli uomini sembra aprirsi un campo immenso e
facile, ed essi immaginano volentieri di essere chiamati a grandi
destini». Ma è una concezione «fallace», che «l'esperienza corregge ogni
giorno». Quando «la diseguaglianza è la legge comune di una società,
finisce che le diverse, anche grandi, disuguaglianze non colpiscono
l'occhio; quando tutto è all'incirca allo stesso livello, l'occhio è
ferito anche dalle più piccole». Ecco le cause cui va attribuita la
singolare «malinconia» che «mostrano spesso gli abitanti dei Paesi
democratici» dove pure è il regno dell'abbondanza, e «il disgusto per la
vita che a volte li colpisce nel pieno di un'esistenza agiata e
tranquilla».
La vita dei cittadini convinti di meritare molto più di
ciò che hanno e che coltivano ambizioni sempre più grandiose, prosegue
Bronner, produce una sentimento che «rischia di convertirsi in un
disprezzo del mondo materiale, che alimenta la credenza consolatoria
nell'esistenza di un mondo superiore, lontano dalle illusioni terrene».
Gli estremisti, nota ancora Bronner, «presentano spesso un livello di
istruzione superiore alla media», che inevitabilmente si associa alle
loro aspirazioni elevate. Scrive poi l'autore che in tutti i casi che ha
studiato «la frustrazione e il desiderio di affermazione costituiscono
un mix esplosivo (…). Una delle grandi passioni inedite dei nostri tempi
democratici è l'appetito per la notorietà, talvolta privilegiata
persino rispetto alla riuscita economica».
Lo studioso parla poi di
quello che definisce «l'oligopolio cognitivo che imprigiona l'individuo
nel radicalismo». Che significa? A volte il processo di radicalizzazione
può risultare invisibile, perché l'estremista e il gruppo al quale
appartiene sanno bene che alcune attività, soprattutto quelle
terroristiche, non si conciliano con la trasparenza. Altre volte
«l'individuo ostenta visibilmente i segni della radicalizzazione perché
fiero della sua nuova identità e per tentare di convincere il suo
entourage a seguire la stessa strada». Qui tutti, a cominciare dai
familiari, sono portati a commettere l'errore di provare ad allontanare
l'estremista dalla sua credenza, provando a fargli capire l'insensatezza
della sua scelta e denigrando coloro che ne hanno compiuto una simile. E
invece si dovrebbe percorrere un'altra via.
Le nostre idee
preconcette spiegano, almeno in parte, l'invisibilità sociale dei
processi che conducono ad aderire a una qualche forma di estremismo. Ma a
un certo punto inevitabilmente siamo portati a porci una domanda: come è
possibile aderire in maniera incondizionata a un sistema di idee che
incoraggia a commettere atti criminali, ignorando valori umani e
interessi materiali? Possiamo ipotizzare che il senso dei valori o degli
interessi personali scompaia dalla mente dell'estremista? Qui Bronner
ricorre a quello che definisce il «paradosso della incommensurabilità
mentale» riferendosi a «una realtà un po' oscura della nostra vita
psichica, la cui portata va oltre il pensiero estremo». Il paradosso è
ciò che ci permette di comprendere come mai sia quasi impossibile far
cambiare idea a un estremista, salvo che, quando lui decide che è venuto
il momento di cambiarla quell'idea, le sue credenze, che apparivano
fino a un minuto prima inattaccabili, si sgretolano in un batter
d'occhio. Segno questo che non è un principio logico che le teneva
insieme, bensì una decisione che con il merito di esse aveva poco a che
vedere.
Quasi sempre il tema centrale (anche se occultato) del
pensiero radicale è quello della morte. In alcuni casi ci si limita ad
attendere il proprio destino. Come gli avventisti millenaristi convinti —
sulla base dei calcoli del loro guru, William Miller, un colonnello del
New England che cercava di interpretare le profezie bibliche — che la
fine del mondo sarebbe giunta tra il 1843 e il 1844. La data venne
rinviata per ben quattro volte, ma dopo l'ennesima proroga la sera del
22 ottobre i millenaristi finirono per rinunciare a credere nella fine
dell'umanità: «Le nostre speranze e le nostre aspettative sono andate in
fumo», scrisse uno degli adepti, «e ci ha preso una tristezza che non
avevo mai conosciuto prima; sembrava che la perdita di tutti gli amici
terreni non potesse avere paragone… piangevamo in continuazione, fino
all'alba». Altre volte alcuni militanti della setta presero essi stessi
l'iniziativa di accelerare l'Armageddon proprio per non essere
risucchiati dalla sindrome di Miller testé descritta: è il caso dei
giapponesi Aum, che nel 1995 cercarono di provocare una catastrofe
chimica nella città di Tokyo. Oppure come fecero quella sessantina di
membri dell'Ordine del Tempio solare che, tra il 1994 e il 1995 negli
Stati Uniti, decisero (come avrebbero fatto in tempi successivi altri
loro simili) di togliersi la vita.
Tra gli estremisti «si incontrano
ovviamente squilibrati ed è senza dubbio ipotizzabile che molti
individui entrino a far parte di gruppi radicali perché psicologicamente
fragili o facilmente manipolabili». Ma le spiegazioni di questo genere
contrastano con quanto chiaramente osservato da tutti i ricercatori che
hanno tentato di tratteggiare la figura dell'estremista tipo. Gli adepti
studiati a metà anni Ottanta da David Stupple, ad esempio, risultavano
«socialmente ben integrati, moralmente e cognitivamente equilibrati».
Maurice Duval si è interessato a una setta chiamata Aumismo (era stata
fondata nel 1969 da Gilbert Bourdin a Castellane, nelle Alpi dell'Alta
Provenza) e ha trovato che i partecipanti leggevano regolarmente i
giornali, iscrivevano i figli a scuole pubbliche e private,
partecipavano a dibattiti e avevano un livello culturale superiore alla
media nazionale. Un'ulteriore conferma dell'assunto di questo libro di
Gérald Bronner: il mondo del pensiero estremo e delle pratiche estreme è
in tutto e per tutto (o quasi) l'opposto di quel che appare. Ed è anche
per questo che ogni volta che sembra sia stato disintegrato per sempre,
si ripresenta intatto, anzi rafforzato e comunque puntuale ad ogni
tornante della storia.
ROMANO SERGIO, CORRIERE DELLA SERA del 26/6/2012 a pag. 45
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