lunedì 25 giugno 2012
Questione meridionale come questione nazionale
La scure dell'Europa carolingia che può spaccare in due l'Italia
Ora il ritardo del Sud minaccia anche il Nord: l'unità è a rischio
di Paolo Macry
Corriere 25.6.12 da Segnalazioni
Giorni
fa, il «Financial Times» — l'autorevole «Financial Times», come usa
dire — ha soffiato sul fuoco dell'orgoglio padano, affossando al tempo
stesso la residua autostima dei meridionali. Per alcuni leader
continentali, ha spiegato il columnist Tony Barber, la taglia ideale
dell'Unione Europea non è il grande impero romano, ma quell'impero di
Carlo Magno che non andava oltre la Francia, i Paesi del Benelux, la
Germania e l'Italia del Nord. Alle nostre orecchie, le parole di Barber
evocano una disunità che ci riporterebbe indietro di centocinquant'anni,
prefigurando un Nord felicemente mitteleuropeo, ma anche un Sud fragile
nelle strutture economiche, troppo poco produttivo per il suo livello
di vita, afflitto da debolezze politiche e civili, ininfluente sul piano
internazionale. Una sorta di seconda Grecia.
Sono ipotesi remote, si
dirà, mai seriamente prese in considerazione dal senso comune e dalla
politica, neppure nelle stagioni più radicali della Lega di Bossi. E
tuttavia esse mettono il dito sulla più antica delle nostre piaghe, il
dualismo. Dopo tutto, c'era voluto Garibaldi per imporre uno Stato
nazionale dalla Sicilia alle Alpi, forzando le radicate diffidenze di
altri padri della patria, come Cavour, nei confronti del Sud della
penisola. L'Italia unita nasceva nel segno di una forte diversità
territoriale, che ne avrebbe condizionato pesantemente la storia. E se è
vero che il Paese ha potuto convivere con la questione meridionale per
un secolo e mezzo, ottenendo nel frattempo straordinari successi
economici, civili e geopolitici, resta il fatto che quel confine interno
appariva vistoso già nel 1861 e vistoso rimane all'inizio del Terzo
Millennio. Salvo che oggi la grande frattura deve fare i conti con una
crisi epocale del Paese. O forse è il Paese a dover fare i conti,
finalmente, con la grande frattura.
Al tema del dualismo Carlo
Trigilia dedica ora un volume stringato e lucido, che già dal titolo
(Non c'è Nord senza Sud, Il Mulino) sembra prendere nettamente le
distanze da ogni prospettiva antiunitaria. Tanto più nelle attuali
circostanze, scrive l'autore, «non è possibile immaginare una vera
svolta in direzione di una crescita solida dell'Italia se non verrà
sciolto il nodo del Mezzogiorno». Parole che sembrerebbero riproporre la
classica richiesta alla politica nazionale di farsi carico con maggiore
generosità dei problemi del Sud.
Ma Trigilia non ha alcuna
attitudine rivendicativa ed è lontano anni luce dall'idea di un
Mezzogiorno in credito nei confronti del Paese. Il quadro che le sue
pagine disegnano del Sud ricorda, semmai, la consapevolezza autocritica
del migliore meridionalismo. Le stesse policies dedicate a quei
territori nel corso del tempo gli appaiono, malgrado l'enorme impegno
finanziario, prive di effetti decisivi, se non controproducenti. La
strategia dell'industrializzazione, negli anni Sessanta e Settanta del
Novecento, edifica sterili cattedrali nel deserto e ostacola la nascita
di una piccola impresa locale. I provvedimenti a sostegno dei redditi
familiari, negli anni Ottanta, migliorano il tenore di vita della
società locale, ma ne accentuano una devastante dipendenza dalla
politica e ne stroncano la produttività. E così via.
Il Sud di
Trigilia, pur con tutta l'empatia dell'autore, finisce per essere un
grande circuito vizioso, dove la mancanza di crescita economica è
surrogata dalla mediazione politica e dove la debolezza dei meccanismi
selettivi del mercato (ivi compreso quello elettorale) produce servizi
inefficienti, spreco di denaro pubblico, sopravvivenza artificiosa di
élite locali spesso mediocri. Per parte sua, la politica nazionale
sembra accettare di buon grado certi vizi meridionali e, anzi, li
promuove. Se il Sud viene foraggiato con crescente generosità lungo
tutti i decenni repubblicani (ma anche prima, direbbe uno storico), è
perché si presenta come «un esercito elettorale di riserva», il quale
riesce utilissimo alla stabilità politica del Paese e delle sue classi
dirigenti. Lo scambio tra centro e periferia — risorse statali contro
consenso — appare inossidabile nel tempo e di reciproca soddisfazione.
Il
punto, tuttavia, è in quale misura un simile modello sia compatibile
con le circostanze eccezionali della crisi odierna. Tradizionalmente, e
fino a pochi anni fa, il dibattito verteva sulle risorse e sui modi per
portare il Sud ai livelli del resto del Paese. Tuttora, istituti come la
Svimez e presidenti regionali come Nichi Vendola o Raffaele Lombardo
appaiono convinti che il problema sia un impegno finanziario per il
Mezzogiorno ritenuto insufficiente. Ma il dato significativo è che oggi
acquistano sempre maggior peso valutazioni di segno opposto, le quali
tendono piuttosto a vedere il Sud come un potente elemento di freno per
le aree più avanzate (e dunque per la crescita del Paese). Al proposito,
Luca Ricolfi ha parlato di un vero e proprio «sacco del Nord»,
quantificando in alcune decine di miliardi l'anno i trasferimenti che,
sotto forma di prelievo fiscale e di spesa pubblica, vanno dalle regioni
settentrionali a quelle meridionali. Il territorio da salvare, osserva
Ricolfi polemicamente, è il Nord, non il Sud.
Si tratta di un cambio
radicale, nell'analisi del dualismo: dal problema del ritardo
meridionale al problema del depauperamento settentrionale. Ne è
consapevole Trigilia, che prende le distanze dalla tesi dello
sfruttamento del Nord, perché sottovaluterebbe il ruolo svolto
storicamente dal Sud nella crescita del Settentrione, ma soprattutto
dissente dal rivendicazionismo del ceto politico meridionale. Conti alla
mano, il Mezzogiorno ha goduto per decenni di trasferimenti netti molto
cospicui e non è perciò ragionevole imputare i suoi problemi alle
attuali minori entrate: il punto non è la quantità delle risorse, ma il
loro cattivo utilizzo. In fondo, tra 1996 e 2009, le imprese meridionali
sono state ricoperte d'oro: oltre cento miliardi, tra incentivi e
crediti d'imposta. Per non parlare dei fondi strutturali europei, che,
tra 2000 e 2013, ammontano ad altri novanta miliardi (e vengono spesi
soltanto in piccola parte).
Mai come ai giorni nostri il Mezzogiorno
non è — o non è soltanto — un problema di coesione solidaristica. Sono
troppe le criticità del modello italiano che nascono a Sud, perché la
riforma del Paese non dipenda in primo luogo dalla riforma del Sud.
Recuperare efficienza al sistema, accrescerne la produttività, ridurre
la pressione fiscale, sconfiggere le mafie significa né più e né meno
che agire sui territori dove inefficienza, spesa improduttiva, evasione
fiscale e criminalità sono soprattutto diffuse. Se «non c'è Nord senza
Sud», è perché il Paese e le sue aree più avanzate non avrebbero alcun
futuro ove mai il Mezzogiorno restasse quello che è.
Naturalmente, il
brusco passaggio dalla vittimizzazione alla colpevolizzazione del Sud
promette di avere conseguenze politiche. Anche uno studioso come
Trigilia, che non ha mai mostrato tendenze statalistiche, riconosce che
la soluzione della questione meridionale non può essere gestita
all'interno di quei territori, ma va presa in consegna dalle istituzioni
centrali. È questa la leva che permetterà di sollevare il macigno del
dualismo. Vent'anni fa, Trigilia aveva creduto che il «keynesismo
perverso» delle politiche per il Sud potesse venir superato dalla nuova
leva dei sindaci ad elezione diretta, che per qualche tempo suscitarono
un forte consenso popolare. Ma quella stagione si è rivelata mediocre e
talvolta fallimentare, come lo stesso sociologo ammette, sicché oggi la
sua ricetta appare diametralmente opposta: non più fiducia agli enti
locali, ma richiesta di uno Stato centrale forte e capace di tenere
sotto controllo proprio quei poteri locali che spesso hanno dato cattiva
prova di sé.
Anche questa, tuttavia, sembra una strada in salita.
Finché il Sud verrà utilizzato come serbatoio di consensi dalla
politica, è poco realistico pensare che sia la politica a metterlo in
riga, rischiando di perderne i voti. Gli stessi recenti tentativi di
imbrigliare l'allegra finanza meridionale nascono dalla grave situazione
erariale e non da un cambio di strategia di governo e Parlamento.
Necessità, più che virtù.
Ma intanto, come spiegava il «Financial
Times», c'è chi comincia a fare i conti senza il Sud. Complice la crisi,
diventa sempre più chiaro che l'Italia non andrà molto lontano,
restando per metà Germania e per metà Grecia. L'ombra di un impero
carolingio, che si ferma alla Linea Gotica, va presa sul serio.
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