martedì 11 dicembre 2012

Segre e Cacciari su Petrarca e Dante


Petrarca, «avaro» fra i Tre Grandi

Critico di Dante e sprezzante verso la lingua di Boccaccio

di Cesare Segre Corriere 11.12.12


I nostri tre massimi scrittori del Trecento, e massimi in assoluto, furono presto indicati, araldicamente, come «le Tre Corone». Primo fu Dante (1265-1321); seguirono Petrarca (1304-1374) e Boccaccio (1313-1375). I due ultimi, che non poterono conoscere il primo, si frequentarono e furono amici. Ma Dante, pur ormai nel mondo dei più, riuscì ad accendere tra loro un certo, persistente, dissenso. Ammiratore e imitatore di Dante, Boccaccio si era consacrato generosamente alla conoscenza della sua opera, scrivendo un Trattatello in laude di Dante e delle Esposizioni sopra la Comedia, organizzando le prime «lecturae Dantis», trascrivendo materialmente suoi codici, salvando dalla dispersione scritti, come lettere ed egloghe, e memorie.
Tutto al contrario, Petrarca cita pochissime volte, quasi con avarizia, il nome di Dante. Agli amici, come Boccaccio e Francesco Nelli, che sollecitano da lui un giudizio, risponde sempre con reticenze e ambiguità, anche se non riesce a nascondere una certa considerazione. Soprattutto, trasforma il giudizio in una constatazione, ovvia, che lui e Dante appartengono a una diversa fase culturale. Mai si lascia sfuggire una lode esplicita. La critica più chiara è il rimprovero a Dante di avere scritto la Commedia in volgare, e perciò di essere rimasto al di sotto delle sue possibilità. La situazione cambia se si esamina l'influsso esercitato da Dante sulle opere di Petrarca. Che, se le reminiscenze di Dante sono consistenti nel Canzoniere, diventano decisive nei Trionfi, sino a riecheggiare alcune scene della Commedia. Accusato di invidiare Dante, Petrarca si difese energicamente. Ma forse, per comprendere meglio il suo atteggiamento, giova partire da altre considerazioni.
Petrarca tradusse in latino l'ultima novella del Decameron, quella di Griselda. Un grande onore, che moltiplicò il successo internazionale delle cento novelle. Ma con che spirito la tradusse? La lettera con cui Petrarca spiegava a Boccaccio l'inconsueta iniziativa dice che una copia del Decameron era giunta quasi per caso nelle sue mani, e che lui «le ha dato un'occhiata» (traduzioni di L.C. Rossi), non avendo tempo per «un'attenta lettura». L'opera, dice Petrarca, probabilmente con una smorfia, è scritta in volgare (come la Commedia), dunque è «destinata al volgo e in prosa». «Inconsistente l'argomento», insiste, e purtroppo ci sono anche «eccessi di licenziosità». E così via. Più una stroncatura che una lode, a parte il giudizio sulla novella di Griselda: il racconto, dice, lo ha «avvinto al punto da volerla memorizzare», e commosse sino alle lacrime un suo amico autorevole. Insomma, la novella che ha tradotto è molto superiore alle altre; e questo vale anche per lo stile elevato, il tono eroico. E dato che Petrarca, traducendo, accentua altezza di stile e tono eroico, nasce e si fa strada il sospetto che abbia voluto insegnare a Boccaccio come avrebbe dovuto scrivere anche lui (a partire dalla scelta linguistica: ovviamente il latino).
Come per Dante, anche nel giudizio sul Decameron si fa sentire la diversità di gusto: Petrarca preferisce un pubblico, e uno stile, più aristocratico, detesta l'uso della prosa e l'attenzione a racconti popolareschi, fantasie senza rapporti con la realtà. Petrarca aveva in mente gli storici e i moralisti latini, che erano i suoi veri modelli. Ma le sue critiche non potevano essere espresse con toni meno sprezzanti, trattandosi, con Boccaccio, di un amico? La fierezza di appartenere alla nuova civiltà umanistica e di partecipare alla riscoperta del pensiero classico non poteva essere sfumata dall'affetto?
Un libriccino di Francisco Rico, Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), Padova-Roma, Antenore, pagine 160, 12, ci porta nel pieno della leggenda sull'amicizia Petrarca-Boccaccio. Rico, grande ispanista e studioso del Don Chisciotte, è anche uno dei più brillanti specialisti di Petrarca. Comincia demolendo alcuni particolari della leggenda dovuti a errori d'interpretazione: l'ospitalità offerta a Firenze (1350) da Boccaccio a Petrarca è una metafora erroneamente intesa alla lettera dagli interpreti; un'epistola di Petrarca, che dimostrerebbe l'antichità dell'affetto verso Boccaccio, sarebbe stata retrodatata ad hoc dall'autore. Petrarca, dice Rico, «vedeva Boccaccio a volte come un servitore e a volte come un fratello. Un fratello minore e meno dotato, che s'istruisce e incoraggia ma il cui talento non si apprezza». Un tipo di rapporto evidente nei prestiti e negli scambi di manoscritti, per i quali Boccaccio è estremamente liberale, e Petrarca avarissimo. Il risultato è che spesso Boccaccio ignora opere di Petrarca, e quest'ultimo trascura quelle del collega. Il lavoro di Rico è ancora in corso, ma certo questo cambio di prospettiva riserva altre sorprese.
Da brani di lettere riportati da Rico appare che la devozione di Boccaccio è indefettibile; sappiamo che Petrarca gli appariva talora negli incubi, terrorizzandolo. Eppure, al bisogno, Boccaccio seppe anche criticare prese di posizione politiche del maestro, come quando Petrarca accettò l'ospitalità di Giovanni Visconti, a Milano, nel 1353. L'espansionismo lombardo metteva in pericolo la situazione dei fiorentini, smentiva le idee espresse precedentemente da Francesco, faceva sospettare vantaggi economici consistenti. Sotto il velo di un racconto bucolico, Boccaccio si esprime con severa schiettezza. Generoso, Boccaccio, ma non succube. La lettera è ora ripubblicata da Ugo Dotti, Lettere a Petrarca (Torino, Aragno, pp. 237-51).
Ma alla fine, come sono andate le cose nella nostra prospettiva di posteri? Boccaccio ha puntato giustamente sulla Commedia, che continuiamo a considerare un capolavoro senza rivali. E ha lanciato strofe e generi letterari (il poema in ottave). Ha dunque influenzato profondamente da un lato la novellistica, che, iniziata con lui, è tuttora vivissima, dall'altro l'epica cavalleresca, sino ad Ariosto e Tasso. Gli spagnoli in particolare hanno amato e imitato il suo romanzo d'amore in prosa, la Fiammetta.
Per contro, le scelte del Petrarca (prescindendo naturalmente dall'azione complessiva dell'Umanesimo e della nuova filologia sul piano mondiale) sono state in gran parte travolte dal tempo: le sue opere latine sono lette solo dai pochissimi specialisti, l'Africa è quasi dimenticata. Certo, c'è il sublime Canzoniere. Ma è proprio scritto in volgare... Quanto, poi, al giudizio sui comportamenti (che naturalmente non tocca la valutazione artistica), non possiamo fare a meno di contrapporre, secondo quanto suggerisce Rico, la generosità calda e fattiva di Boccaccio alla chiusura superciliosa di Petrarca.



Il bello del Volgare

Perché Dante diventa il profeta di una lingua viva
Una nuova edizione del “De vulgari eloquentia”
Così il poeta decise che era necessario abbandonare il latino

di Massimo Cacciari Repubblica 11.12.12

Una straordinaria edizione del De vulgari eloquentia, a cura di E. Fenzi, inaugura la nuova edizione commentata delle opere di Dante, promossa dal Centro Pio Rajna. Impresa che si annuncia da questo primo volume davvero monumentale. Il De vulgari non è soltanto commentato, sulla scorta in particolare delle fondamentali ricerche di Pier Vincenzo Mengaldo, con una vastità di erudizione e profondità critica, che non ha precedenti, ma, oltre a un importante saggio di F. Bruni sulla Geografia dantesca in riferimento alle aree linguistiche considerate nel trattato, ci sono offerti in appendice tutti i testi poetici francesi, provenzali, italiani citati da Dante e il primo volgarizzamento del De vulgari ad opera del Trissino, stampato a Vicenza nel 1529, che sottraeva l’opera ad un oblio secolare.
Opera, a mio avviso, così rivoluzionaria, da non poter essere lasciata “pascolo” della sola erudizione storico-filologica. Verità mai prima “tentate” affronta Dante anche qui. Anche qui egli è “profeta”. E la prima, fondamentale di queste verità è che solo l’uomo parla. Nessun altro animale, né angelo. Gli animali usano segni, sì, fanno-segni, ma sensibili soltanto. E gli angeli comunicano immediatamente riflettendosi tutti nello “specchio” del Divino sovraessenziale.
Ma la lingua è segno sensibile e razionale, congiunge in sé spirito e natura. E ciò ne costituisce l’intatta nobiltà, simbolica nell’accezione più pregnante. L’istinto è unico per ogni specie animale. E neppure le specie angeliche si distinguono, se non per il posto che occupano nella celeste Gerarchia. Nell’uomo, invece, la ragione «diversificetur in singulis », si manifesta diversamente nelle diverse persone. Ognuno di noi come ha una propria, individuale anima, così manifesta quasi una propria ragione. E non è affatto un “male” – anzi dobbiamo godere di ciò. Ma insieme anche comprendere le difficoltà e responsabilità che ne nascono. Comunicare tra umani sarà sempre esposto al pericolo del fra-intendersi. È necessario esserne consapevoli ed elaborare perciò una sapiente eloquenza, un linguaggio per quanto possibile ordinato e capace di esprimere col massimo rigore le idee, sempre destinate per manifestarsi ad incarnarsi in segni sensibili.
Ecco allora l’imperiosa necessità di costruire un volgare illustre – un volgare con cui potersi esprimere nelle accademie e nelle corti, nei tribunali e nella grande politica. Un volgare cardine del nostro comunicarci, che si innalzi sulle miserie municipali – non perché Dante abbia cessato di amare Firenze, anzi: la ama da esule ancora di più – ma proprio da esule ha imparato che le città vivono solo se universali, solo se la loro lingua è così potente da comunicare a tutto il mondo.
Ma non basta il latino? Certo, è nobile la grammatica, certo essa garantisce un ordine perfetto. Ma non solo essa non può essere da tutti compresa – e il nuovo intellettuale, Dante, da tuttiessere compreso. Il vero problema è che mai potrò esprimere in latino i drammi dei tempi nuovi, mai potrò rappresentare in latino la vita di queste città, il loro conflitto con Chiesa e Impero, la scandalosa decadenza della Chiesa, la catastrofe dell’idea imperiale. Le idee e i conflitti di questa età debbono trovare il proprio linguaggio, così come il nuovo ordine di Augusto l’aveva trovato in Virgilio. Altrettanto nobili entrambi. Ma solo il primo oggi vivente. Inutile allora il latino? Nient’affatto – il latino è l’esempio insuperabile della sintesi di sapienza e eloquenza. Il latino insegna a volerla e perseguirla nel volgare.
Ma non diventerà così anche il volgare una lingua artificiale? Impossibile – esso affonda nella matrice, esso è radicato, prima di ogni parola, nella nostra infanzia. Insieme al dono stesso della libertà, Dio infonde nella nostra anima quella forma locutionis, che ci rende capaci di assumere, senza nessuna regola, qualsiasi lingua con cui la madre ci chiami. (So bene che il Fenzi intende diversamente l’espressione “forma locutionis”, come riferita alla sola prima lingua parlata da Adamo, che per Dante, come per tutta la tradizione precedente, non poteva che essere l’ebraico). Non artificiale deve essere il volgare, ma così potente da esprimere ogni idea, da comunicare ogni contenuto. Da essere poesia, insomma, nel senso primo di poiesis, capacità fabbrile, forza tettonica.
Poetica dovrà essere perciò la fondazione della lingua da tutti parlata e da tutti in qualche modo intesa – poetica, meglio, quella sua ri-fondazione, che la renderà atta a creare vere comunità di parlanti. Poeti saranno i fabbri migliori del parlare materno.
Ma non diviene instancabilmente questo parlare? Come dargli una forma? E non è questo suo continuo fluire immagine dello stesso animale uomo «instabilissimum atque variabilissimum »? Come “curare” le infinite varietà delle lingue, e le varietà interne ad ogni singola lingua? Ma proprio la universale vicissitudine delle cose rende necessario cercare il Comune, costruire forme di intesa e comunicazione, che a tutti possano appartenere proprio perché a nessuno appartengono. Nessuna astrattezza in tale compito – il Comune va perseguito attraversando la concretezza vissuta delle forme di vita che i diversi idiomi rappresentano. Nessun sedentario lavoro “a tavolino”, ma caccia appassionata da città a città, anzi: da quartiere a quartiere, e cioè da vita a vita, per scovare quelle forme che appaiano le più salde, quelle dotate di più “storia”, quelle capaci di rendere più forte e convincente il nostro dire. E anche più bello, più sonante, più armonioso. Straordinario impasto di coscienza storica, sperimentalismo, ricerca di “grande forma”. E di amore per il parlare materno. In epoche in cui la lingua viene ridotta a puro mezzo per scambiarsi qualche informazione, in cui la sua forza simbolica viene strapazzata, in cui i municipalismi più plebei minacciano di dissiparne l’energia comunicativa universale, e sembra che a questi si debba rispondere soltanto con il rigore dei linguaggi formali-artificiali delle “scienze esatte”, l’appello di Dante in onore del volgare, sì, ma perché si faccia illustre, suona ancora in tutta la sua carica innovativa. Loquor ergo sum, parlo e perciò sono – ma per poterlo affermare la mia locutio deve saper tendere a quella sapienza, eloquenza e bellezza le cui tracce e i cui indizi il Vate indaga senza riposo, e con i quali costruisce la somma architettura della Commedia.

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