giovedì 24 gennaio 2013
Antichi sincretismi religiosi
Il mercato comune delle divinità
In un convegno a Roma la storia degli “scambi” degli dèi
di Maurizio Bettini Repubblica 23.1.13
Il
viaggiatore che nei primi secoli della nostra era si fosse recato nel
santuario di Augusta Treverorum, l’antica Treviri, avrebbe incontrato
una divinità dal nome curioso:
«Vertumnus sive Pisintus», Vertumno
ossia Pisinto. Chi era costui? Vertumnus era una divinità venerata nel
cuore più antico di Roma, un dio specialista nella metamorfosi. «La mia
natura si adatta a qualsiasi sembianza », gli faceva dire il poeta
Properzio, «mutami in ciò che vuoi, sarò elegante!» Ma che ci faceva un
dio così romano nell’odierno Land della Renania-Palatinato? E chi era
questo Pisintus che costituiva adesso l’altra faccia della sua identità?
Un dio gallico, con cui il romano Vertumnus era stato identificato per
significare la fusione fra popolazione locale e coloni romani, come ci
ha efficacemente spiegato John Scheid: quasi che oltre alla lingua e ai
costumi, le due popolazioni avessero miscelato fra loro anche le proprie
divinità.
Nell’antichità, infatti, il fenomeno di identificare o
far corrispondere fra loro un dio “nostro” e un dio “altrui” era
comunissimo. Questa costituisce anzi una delle maggiori differenze che
intercorrono fra le religioni classiche, che erano politeistiche, e
quelle monoteistiche. Nel mondo ebraico, cristiano o islamico non è
possibile identificare il proprio dio con quello degli altri. Il dio
altrui può solo essere o un falso dio o un demone — solo il “mio” dio è
quello vero. «Non avrai altro dio all’infuori di me», recitavano del
resto le tavole della legge, il dio dei monoteismi è un dio esclusivo.
Da qui le tante persecuzioni e guerre di religione che hanno
insanguinato non solo i paesi del Mediterraneo, ma anche terre assai più
lontane e innocenti. Ora, anche gli antichi si
uccidevano fra
loro, come sappiamo, però non per affermare che solo il “mio” dio è
quello giusto. Ciascuna popolazione era pronta a riconoscere l’esistenza
e la dignità degli dèi altrui, e anzi, era pronta a fare anche di più.
Di
questo si parlerà al convegno “Dieux des Grecs — Dieux des Romains.
Panthéons en dialogue à travers l’histoire et l’historiographie”,
organizzato da un gruppo di università ed enti di ricerca francesi,
belgi e italiani, all’Accademia Belgica, a Roma da domani.
In
primo luogo, dunque, Greci e Romani potevano importare divinità di altri
popoli, e dedicare loro culti importanti. Durante la seconda guerra
Punica, quando le cose andavano assai male per i Romani, i Libri
Sibillini consigliarono di far venire da Pessinunte, in Frigia, una
divinità chiamata la Madre degli dèi. Il misterioso simulacro era
costituito da una pietra nera, di forma conica, e fu installato in un
tempio sul Palatino. Il culto della Magna Mater, come i Romani la
chiamarono, era officiato alla maniera frigia da sacerdoti non solo
variopinti, ma anche evirati, i Galli: il cui comportamento sguaiato
doveva certo contrastare con i costumi tradizionali della città. A suo
tempo, però, anche ad Atene erano giunti dall’Asia minore divinità come
Bendis e Sabazio. Si trattava forse di un fenomeno diciamo recente,
quando ormai le città antiche stavano abbandonando la (presunta) purezza
delle origini? Niente affatto. Roma era ancora ai suoi inizi quando
aveva fatto proprie divinità greche come Apollo o Herakles, che i Romani
chiamarono Hercules.
Il fatto è che il mondo antico ha sempre
realizzato il “mercato comune” del divino, una pratica capace di
rafforzare i legami fra le popolazioni mettendo in relazione costumi e
linguaggi differenti. Anzi, piuttosto che a un mercato, metafora oggi
abusata, il rapporto che i politeisti avevano con le proprie divinità
potremmo paragonarlo a un “dialogo”. Gli dèi degli antichi dialogavano
fra loro non solo da una sponda all’altra del Mediterraneo, ma anche più
in là, nel cuore dell’Europa, in Britannia, in Asia. E come in ogni
dialogo, quando si vuole “capirsi” pur se si parlano lingue diverse, gli
dèi antichi potevano anche “tradursi” l’uno nell’altro.
Dunque il
dio cittadino, il Vertumnus celebrato da Properzio e Ovidio, dalle
parti di Treviri era stato “tradotto” nel locale Pisintus. Questa stessa
metafora, la “traduzione” degli dèi, potremmo però impiegarla anche per
descrivere casi assai più noti di identificazione fra divinità. Il
romano Giove non è forse una “traduzione” del greco Zeus, Giunone non lo
è forse di Hera, e così via? Certo, come sempre accade con la
traduzione, nel passaggio da una lingua all’altra qualcosa si perde e
qualcosa si aggiunge, per cui il risultato finale non potrà essere
uguale a quello di partenza. Giunone dunque non è affatto “la stessa
cosa” di Hera, ma ne costituisce la traduzione in un nuovo contesto
culturale: diverso era il modo di onorare la dea in Grecia e a Roma,
diverse ne erano le prerogative. Ciò non toglie però che alla sposa di
Zeus i poeti romani davano il nome di Giunone, mentre gli storici greci
non esitarono a chiamare Hera la divinità che i Romani onoravano
sull’Aventino.
Per comprendere ciò che ci separa dal mondo antico,
se non ciò che abbiamo perduto con la sua fine, è però sufficiente
evocare ancora una volta il nostro duplice dio di Treviri. Quando i
Romani giunsero in quelle terre per fondare la loro colonia, qualcuno,
di fronte a una divinità locale chiamata Pisintus, pensò semplicemente
di farla corrispondere a una delle sue, Vertumnus. Al contrario il
missionario cristiano, giunto nello stesso luogo, di fronte a Pisintus o
a Vertumnus che fosse, non avrebbe esitato a decretare la sua
appartenenza al novero degli «dèi falsi e bugiardi».
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