martedì 22 gennaio 2013
Capitalismo e tecnica ai tempi di Napoleone III
Come la Francia di Napoleone III seppe usare i nuovi materiali
di VIittorio Gregotti Corriere 21.1.13
La figura politica e intellettuale di Napoleone III è certamente assai
discussa, tanto da essere definita da molti «cesarismo democratico».
Figlio di Hortense Beauharnais, nato nel 1808, giovane rivoluzionario in
Europa viene espulso dalla Francia, ove rientra nel 1848 e viene eletto
presidente della nuova Repubblica. Nel 1851 diviene, con un colpo di
Stato, imperatore e resta sino alla sconfitta con la Germania nel 1870.
Poi, nuovamente esule, muore in Inghilterra nel 1873.
Eppure sotto il suo regno la Francia, e Parigi in particolare, è
protagonista di una eccezionale fase di modernità e, nel nostro caso,
proprio anche nel campo dell'urbanistica e dell'architettura. È il
ventennio della grande «esposizione universale» del '67, della
diffusione delle costruzioni in ghisa e in acciaio (dopo il ventennio
della costruzione dei passages all'inizio del secolo), della
realizzazione delle Halles di Baltard, di quelle di altri grandi
architetti come Hector Horeau o Louis Auguste Boileau, dell'impresa
Maison Eiffel fondata nel 1867, della fabbrica di cioccolato di Saulnier
del 1869, del museo di Histoire naturelle di Jules André del 1877 e
della riforma urbana e infrastrutturale di Eugène Haussmann. Nonché di
Viollet-le-Duc, che pubblicherà nel '68 il suo Dictionnaire raisonné de
l'architecture française du XI au XVI siècle.
Vale la pena riscoprire queste figure, su alcune delle quali, come
Victor Baltard, si è accesa nuova attenzione (si è svolta una mostra al
Musée d'Orsay). Baltard visse esattamente negli anni del grande Henri
Labrouste, ed ebbe un'analoga carriera professionale e istituzionale.
Allievo di Percier, fu maestro di Charles Garnier (che edificò l'Opera
di Parigi) e costruì, oltre a molte chiese tra cui quella di St.
Augustin, l'Hotel de Ville; ma è soprattutto famoso per la costruzione,
tra il 1843 e il '53, delle Halles (purtroppo distrutte nel 1959), della
Gare du Nord del '63, e di una riforma del Louvre.
È in questo contesto, oltre che come anticipatore di alcuni ideali del
Movimento moderno, che deve essere guardata l'opera di Labrouste, il più
importante architetto di quegli anni, a cui è stata di recente dedicata
un'altra bellissima mostra (con un importante catalogo) alla Cité de
l'architecture et du patrimoine al Palais de Chaillot, in cui le sue
qualità di architetto vengono messe in luce.
Labrouste è organico rispetto al suo tempo (era figlio di un deputato
dell'assemblea legislativa), un professionista colto, con una precisa
carriera di insegnante. Nato nel 1801, entra a diciotto anni come
allievo all'Académie des Beaux Arts, vince il Prix de Rome e va a Roma a
Villa Medici, rimane in Italia sino al 1829. Importanti e discusse sono
le sue proposte di restauro su Paestum (influenzate dalle teorie di
Jacques Hittorff sull'uso del colore nel monumento antico). Tra il 1830 e
il '35 partecipa a molti concorsi, tra i quali quello delle carceri di
Alessandria in Piemonte e dell'ospedale di Losanna.
A partire dal 1830 ha il primo atelier di insegnamento, mentre promuove,
insieme con Victor Hugo ed Eugène Delacroix, un rinnovamento delle arti
che essi giudicano eccessivamente «accademizzate». Nel 1838, lasciato
l'insegnamento, viene incaricato del progetto di quello che sarà il suo
capolavoro: la biblioteca di St. Geneviève (oggi biblioteca
dell'Università di lettere) che viene iniziata nel '43 e terminata nel
1850. La straordinaria coerenza dell'insieme, dall'impianto complessivo
ai dettagli, alla organicità della grande sala di lettura e deposito
libri, in cui le strutture metalliche, utilizzate senza alcuna
esibizione nonostante la novità tecnica, in modo coerente alla tipologia
dell'edificio, costruiscono il capolavoro dell'architettura francese
della prima metà del XIX secolo.
Il progetto della «biblioteca pubblica», a partire dal celebre modello
della Bibliothèque Royale di Boullée del 1785, sembra essere, nella
prima metà del secolo, una specie di atto politico di fede nel progresso
della Francia democratica con cui molti architetti si cimentano e che
trova la sua realizzazione compiuta nei due progetti di Labrouste, sia
di St. Geneviève che in quello, assai più complicato, della
risistemazione e completamento della Bibliothèque Nationale, che sarà al
centro del suo lavoro tra il 1854 e la fine della vita dell'architetto
nel 1875.
In questo secondo caso è soprattutto la complessità spaziale
dell'interno delle sale di lettura a costruire un ambiente magico nella
sua apparente combinazione tra leggerezza e complessità. Se si pensa al
difficile momento di incertezza tra eclettismo e rinnovamento tipologico
e strumentale, tra le incertezze prodotte dall'accademismo, alla
decadenza del pensiero classico e al desiderio di accedere a
un'architettura capace di descrivere i successi dello sviluppo economico
industriale della borghesia (una situazione di incertezze che fanno
pensare alle difficoltà in cui si muove l'architettura dei nostri anni),
la qualità di naturale equilibrio dei due progetti di Labrouste appare
miracolosa.
Essa giustifica in pieno la grande influenza che, almeno sulla tipologia
della biblioteca, il lavoro di Labrouste ebbe poi negli Stati Uniti sul
progetto della biblioteca di Boston di McKim Mead and White, su quello
di Richardson e sullo stesso Sullivan, oltre che in Europa
sull'architettura dei Paesi Bassi, operata attraverso alcuni dei suoi
diretti allievi come Van Dam e Lehman, e sulla biblioteca reale di
Stoccolma di George Dahl del 1875.
Le fer tuera la pierre scriveva il giovane Émile Zola nel 1873,
entusiasta della modernità. Questo non è affatto avvenuto, anche perché
in arte non bisogna mai confondere i mezzi con i fini. Proprio il lavoro
di Henri Labrouste dimostra come si possa proporre una grande
architettura utilizzando in pieno le possibilità offerte dalle nuove
tecniche al fine nobilissimo di mettere in forma compiuta l'idea di un
pubblico accesso alla cultura civile.
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