martedì 22 gennaio 2013
Una versione della distruzione heideggeriana della modernità sul giornale fondato da Antonio Gramsci
Il prof. Vitiello ripete la nota tesi di Heidegger (ma dello Heidegger che ha ormai perso la Seconda guerra mondiale...) alla luce della quale Hegel, Marx e Nietzsche, ma anche Platone e tutto quello che ne seguì, per non parlare della modernità in quanto tale, sono assimilabili sotto i concetti di volontà di potenza, prometeismo, produttivismo, ecc. ecc. Che questa tesi destrorsa fosse a fondamento di alcune proposte solo apparentemente originali, come la decrescita di Latouche, era sin dall'inizio evidente. Ciò che fa riflettere è che si possa seriamente pensare di affrontare i problemi del mondo contemporaneo con questo campionario idealistico di buone intenzioni. Con tutta la sua obsolescenza, il materialismo storico spiega ancora molte più cose e funziona ancora molto meglio [SGA].
di Vincenzo Vitiello Filosofo l’Unità 22.1.13
1989-1789:
l’anno della caduta del muro di Berlino rinvia all’anno della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Due secoli nei quali s’è
«consumata» l’idea che l’uomo sia capace di edificare la propria Città,
controllando la violenza del vivere comune con la forza della Ragione.
Ma
il 1989 spinge a guardare ben più indietro nel tempo, segnando
simbolicamente non la fine della secolarizzazione ma il tramonto della
teologia politica, che ha dominato la cultura europea ed occidentale
lungo duemilaquattrocento anni di storia. Il tramonto dell’idea che la
Città degli uomini, per essere ordinata secondo leggi che valgano per
tutti, ha bisogno di un fondamento universale (quale che esso sia, la
Ragione o Dio, non a caso spesso identificati).
Tramonto s’è detto, e
non fine. Perché, purtroppo la «teologia politica» sopravvive al suo
tramonto. E questa sopravvivenza ha prodotto e produce integralismo,
fondamentalismo, fanatismo. Tra i seguaci dell’Islam, e non meno tra
ebrei e cristiani. Perché è più feroce quel dio che, insicuro della sua
potenza, non è in grado di esercitare misericordia sui vinti. Di questa
insicurezza del potere, diciamo pure: di questa impotenza del volere e
divino e umano il gran teorico è stato proprio il filosofo della volontà
di potenza, Nietzsche. Basta leggere la Genealogia della morale, che si
apre con l’esaltazione dei forti sui deboli, per chiudersi con
l’affermazione che l’uomo, l’animale più malato e perciò il più
interessante, preferisce «volere il nulla», piuttosto che «non volere»!
Nietzsche
rappresenta al livello teorico più alto la fine del grande tentativo
che ha caratterizzato la scienza, la filosofia e la politica dell’età
moderna: la congiunzione di sapere e potere. Quella congiunzione che
Hegel e poi Marx tenacemente perseguirono, con metodi e mezzi
profondamente diversi. Di questa fine noi, oggi, sopportiamo le
conseguenze. È bene esserne consapevoli, perché non ci si illuda di
superare la crisi politica ed economica che stiamo vivendo con analisi
teoriche e strumenti pratici che appartengono al medesimo universo
concettuale e operativo che si vuole superare.
Le due crisi hanno
un’unica origine: l’impotenza della volontà di potenza. La cosa balza
agli occhi in politica, perché se alla mala politica è possibile far
fronte con il severo rispetto delle leggi, che viene imposto dal duro
esercizio del relativismo giuridico, alla crisi della polis, alla
mancanza, cioè, di fondamento e quindi di potere dell’ordinamento
giuridico, il relativismo non può sopperire, perché è esso stesso messo
in questione. Dico di più: la mala politica si basa proprio
sull’impotenza dell’ordinamento giuridico.
Meno evidente l’impotenza
della volontà di potenza nell’ambito dell’economia. Qui sembra che sia
vero l’esatto contrario: il potere economico è tale che non soltanto sa
«volere il nulla», ma riesce a realizzarlo, a dar corpo al nulla. E non
faccio qui riferimento alla creazione fittizia di ricchezza fittizia
(bond argentini, azioni Parmalat, bolla edilizia, per fare qualche
esempio abbastanza noto); mi richiamo a quanto Marx rilevava riguardo
alla forza-lavoro nel sistema di produzione capitalistico: la
forza-lavoro non è un «bene» in sé; lo è per il contesto produttivo in
cui è inserita. È la produzione che crea la forza-lavoro, quella
specifica forza-lavoro che il sistema economico richiede. Ma per
alimentarsi questo sistema ha bisogno di produrre sempre di più, e per
produrre sempre di più, è necessario consumare sempre di più.
La
conseguenza è l’inversione del rapporto produzione-consumo. Un processo
che la «ragione economica» non domina, essendone dominata. Il «consumo»
oltre una certa soglia distrugge la possibilità stessa della
«produzione». Basta considerare l’esaurimento delle fonti energetiche,
la progressiva distruzione della foresta amazzonica, l’inquinamento
atmosferico, l’alterazione dell’ecosistema. E si continua a parlare di
«crescita». Ne comprendo le ragioni: bisogna far fronte al grave aumento
della disoccupazione, al precariato, all’impoverimento del ceto medio,
alla riduzione dei servizi sociali, alla chiusura o al trasferimento
all’estero di molte attività industriali, alla pochezza dei fondi
pubblici e privati destinati alla ricerca scientifica e tecnlogica, alla
conseguente scarsa competitività dell’industria italiana sui mercati
internazionali, al mancato investimento di capitali stranieri, etc.
Ma
tutto ciò non toglie che il modello della «crescita» è tutto interno al
sistema in crisi. Dalla quale si vuole uscire. Come? Limitando i
consumi, controllando il flusso demografico, rispettando l’ecosistema in
breve: riducendo la produzione di beni e servizi. Si tratta di porsi
come compito, e non di accettare come destino, la diminuzione della
ricchezza. Di tutti, ovviamente. In questa prospettiva l’«equità» è
valore assoluto: il rifiuto della società dei consumi è possibile solo
se è condiviso dalla stragrande maggioranza dei cittadini. Compito
arduo, sommamente impolitico, ma necessario. Rinviarlo significa
soltanto rendere più grave la crisi. O sperare in Dio. Nel dio buono
della scienza e della tecnologia moderne. Tanto buono da averci portato
in questa crisi.
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3 commenti:
Sembra risuonare l'eco di cose scritte da Del Noce e sposate dall'ultimo Napoleoni. A me pare che la questione dirimente sia questa: e' la tecnica a prevalere sulla sfera economica, come ripete da anni Severino, o è l'economia a servirsi della tecnica? Perdoni la brutalità della sintesi. Che ne pensa?
Sempre sintetizzando in maniera brutale, la tecnica - lo sviluppo delle forze produttive, materiali e cognitive - si inserisce sempre all'interno di un modo di produzione determinato. E' il modo di produzione, con la relativa divisione del lavoro e l'insieme delle relazioni sociali che in esso si sviluppano, a condizionare a ricerca, la scienza, la tecnologia, ecc. ecc., ponendo quei problemi che aspettano di essere risolti, creando le condizioni di investimento, e così via.
Ma lo scorgere "alienazioni" non sarà un residuo idealistico? La materia da sola non conosce "dialettiche" o "contraddizioni", al limite scontri per il controllo degli strumenti generatori di risorse
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