martedì 15 gennaio 2013
La rinascita degli studi scientifici su Marx
Un sovversivo nell'Accademia
APERTURA - Benedetto Vecchi il manifesto 2013.01.12 - 10 CULTURA
La riscoperta del
filosofo di Treviri passa per citazioni finalizzate a legittimare il
liberismo in crisi. Un recente saggio sul «marxismo culturale» invita
invece a riflettere sullo stato dell'arte della riflessione attorno
l'autore del Capitale e la sua riduzione a teorico politicamente
inoffensivo
Il vezzo di citare Karl Marx è divenuto una
costante da parte di chi, usando una frase del filosofo tedesco, vuole
continuare a legittimare le politiche economiche e il modello sociale
responsabili della crisi economica che sta ridisegnando la geografia del
capitalismo contemporaneo. Povertà diffusa - eufemisticamente
qualificata come «declassamento» -, disoccupazione di massa, crescita
dell'esercito dei «working poor» regolamentato dalle leggi sulla
precarietà: sono elementi che ricordano le pagine del primo libro del
Capitale, dove Marx parlava della condizione della classe operaia e di
violento processo che accompagnò la rivoluzione industriale. C'è
un'amara ironia della storia nel leggere frasi di Marx su magazine
alfieri del neoliberismo - «Economist» e «Time» - o nell'ascoltarle in
discorsi di personaggi da sempre legati al pensiero neoliberale
(l'ultimo in ordine di tempo è stato il presidente dell'eurogruppo
Jean-Claude Junker). Ed è solo parzialmente consolatorio apprendere che
testi più limpidamente marxisti sono stati nella parte alta delle
classifiche delle vendite editoriali (l'ultimo libro di Eric Hobsbawm è
stato un vero e proprio caso editoriale in Inghilterra). Ma c'è un
elemento che emerge in questo revival marxiano: lo stato dell'arte della
riflessione attorno alle opere del filosofo di Treviri.
Il fallimento rimosso
Tolto
il progetto, avviato nel 1998, di ripubblicare tutte le opere di Marx
da parte di un eterogeneo gruppo di studiosi in base a più rigorosi
criteri filologici e temporali rispetto l'acquisita stampa delle opere
per tutto il Novecento, la riflessione marxiana è ormai relegata ai
margini dell'accademia o a piccoli gruppi intellettuali. Va da sé
l'eterogeneità dei contributi, che spesso seguono sentieri tracciati nel
Novecento da parte delle tante scuole marxiste, segnalano che l'eredità
marxiana non è mai equivoca. In una recente «lezione» tenuta a Bologna
nello spazio occupato Bartleby, lo studioso Sandro Mezzadra ha indicato
come il «pluralismo» che determina la riflessione attorno a Marx
costringe comunque a fare i conti con una attitudine che non solo voleva
interpretare il mondo, ma anche trasformarlo (bartley.info). La
cassetta degli attrezzi ricavata dalle opere marxiane può certo essere
tranquillamente usata nonostante le differenze dentro il marxismo
europeo, tra questo e quello sovietico, senza dimenticare gli importanti
contributi provenienti dalla Cina o dal continente latinoamericano. Ma
non può essere ignorata la pesante, e quasi sempre negativa, eredità
proveniente dalle esperienze del socialismo reale. Fare i conti con Marx
significa dunque ripercorrere criticamente il «pluralismo» del pensiero
marxista - invito fatto già a suo tempo da Hobsbawm - e,
contemporaneamente, affrontare le conseguenze del fallimento del
socialismo reale, con il suo portato di illibertà e la scia di dolore,
negazione dei più elementari diritti individuali che lo ha
contraddistinto.
In un celebre passaggio del saggio di Jacques
Derrida sugli Spettri di Marx, il filosofo francese affermava che
l'autore del Capitale manteneva intatta la sua capacità critica
nell'analisi del capitalismo. Il macigno che impediva - Derrida scrive
Spettri di Marx nel 1993, cioè nel periodo di ascesa mondiale del
neoliberismo - a molti teorici di avvicinarsi all'opera marxiana stava
in quella undicesima tesi su Feuerbach, che stabiliva il passaggio
dall'interpretazione del mondo alla sua trasformazione. Questo passaggio
all'azione inibiva, secondo Derrida, di assumere Marx come un grande
filosofo da studiare e piegare ai «misteri» della tardamodernità. La
priorità stava nella teoria, non dunque alla prassi.
Ultimamente, è
stato pubblicato un volume che analizza le genesi, il clima culturale e
politico di chi ha privilegiato la centralità del Marx teorico rispetto
al militante. Si tratta del Marxismo culturale ed è stato scritto da
Marco Gatto, giovane ricercatore che ha scritto monografie su Edward
Said (mimesis edizioni), Fredric Jameson (Rubbettino) e Glenn Gould
(Mosaico-Catedrale).
L'assunto analitico da cui parte Gatto è presto
riassunto. La sua ricognizione riguarda soprattutto la «ritirata» del
marxismo inglese e, per altri versi statunitense, nelle università negli
anni Sessanta del Novecento, accettando una spoliticizzazione dei
percorsi di ricerca. Questo ingresso del pensiero critico nell'Accademia
è nato da un intento condivisibile - innovare la riflessione marxiana e
così rompere la cappa costituita dall'egemonia del materialismo
dialettico di stampo sovietico -, ma il prezzo da pagare era l'abbandono
di qualsiasi ricomposizione tra teoria e prassi. È questo peccato
originale che condizionerà gli sviluppi successivi, fino ai giorni
nostri, con un giudizio senza appello contro gli «studi culturali» e di
tutte le «contaminazioni» del marxismo con altri autori del pensiero
critico.
La geografia del marxismo degli anni Sessanta offerta
dall'autore è abbastanza scarna. Ci sono i «francesi» - Jean Paul Sartre
e Louis Althusser -, i «francofortesi» (Adorno e Horkheimer sono
tornati in Germania dopo l'esilio americano), gli italiani, ai quali
però è dedicato pochissimo spazio. E poi c'è un piccolo, ma agguerrito
gruppo inglese che non milita nel piccolo partito comunista britannico
(Eric Hobsbawm è ritenuto un grande storico, ma poco influente dal punto
di vista teorico). Il più noto tra loro è Edward Palmer Thompson, che
ha lasciato polemicamente il partito comunista nel 1956, quando le
truppe del patto di Varsavia entrarono a Budapest per reprimere la
rivolta ungherese. Ha scritto già alcuni saggi, dedicati alle figure
«epiche» del socialismo non marxista inglese, come William Morris.
Accumula dati per costruire un grande affresco sulla formazione della
classe operaia inglese che prenderà forma nel 1963, costituendo uno dei
libri di riferimento per più generazioni di storici sociali. La sua
etorodossia sta nell'offrire una rappresentazione plastica del dualismo
della «classe in sé» e della «classe per sé». Il passaggio alla «classe
per sé» non è necessariamente mediato né dal partito, né dal sindacato,
come invece sostengono molti marxisti «tradizionali», ma risiede nella
politicizzazione delle forme di vita, nelle consuetudini della vita
quotidiana. Thompson legge i testi dei «francesi» e non ne rimane per
niente affascinato, eccetto alcuni saggi di Sartre, laddove sottolinea
come la ricerca della libertà parta da quella comunità «in fusione» che
ha molti echi nella retorica della working class che domina il movimento
operaio inglese. Altro personaggio è sicuramente Raymond Williams,
studioso di letteratura inglese, scrittore per diletto di fantascienza e
attirato dal rapporto di interdipendenza tra cultura di massa e cultura
«alta».
La rilevanza di Williams nella formazione del «marxismo
culturale» sta proprio nell'assegnare una centralità alla produzione
culturale nella formazione della coscienza di classe e nel pensiero
dominante. Lettore di Gramsci, prova ad applicare il concetto di
egemonia alla realtà inglese, scrivendo saggi che influenzeranno
moltissimo il marxismo europeo degli anni Sessanta e Settanta. Considera
i «francesi» troppo astratti, poco interessanti per fornire strumenti
teorici alla «classe». La sua diffidenza verso la produzione teorica non
ne fa tuttavia un intellettuale fustigatore della prassi teorica.
Semmai è interessato a indagare a fondo il modo di produzione culturale,
caratterizzato dalla diffusione della radio, della stampa e della
televisione.
Marco Gatto ne riconosce il valore di studioso; afferma
che i suoi contributi mantengono la capacità critica di svelare come si
forma l'egemonia culturale nel capitalismo maturo. Anche la riflessione
di Williams sulla cultura popolare come momento «ambivalente»: non
subalterno al pensiero dominante, ma neppure come espressione di una
resistenza attiva della classe. Il limite, per Gatto, di Williams è il
disinteresse per la prassi della classe, cioè per i conflitti, le sue
forme di organizzazione. In altri termini, Williams è sì un marxista, ma
disinteressato a trasformare il mondo.
Aldi là dell'Atlantico
Il
volume non è però solo un saggio di «storia delle idee». L'autore è
consapevole di avere a che fare con teorici di indubbio valore. Ne
conosce le opere, sa riconoscere le differenze esistenti, ad esempio,
nel campo althusseriano. Scrive dei conflitti tra le diverse «scuole
marxiste». Così Terry Eagleton, un altro marxista con formazione
letteraria, è un intellettuale molto diverso da Perry Anderson, l'unico
che conosce e apprezza il marxismo italiano e che cerca di tendere,
senza successo, un ponte tra i «francesi», gli italiani e gli inglesi.
Ed è proprio Perry Anderson che sottolinea per primo i limiti del
«marxismo culturale», che con fortuna si sta facendo strada anche negli
Stati Uniti. La traversata dell'Atlantico tuttavia è la parte meno
convincente del libro, eccezione fatta per le interessanti pagine
dedicate agli ultimi scritti di Frederic Jameson, quando la dialettica
di Hegel viene riscoperta come uno strumento «potente» per uscire dalle
secche di una prassi accademica che consente eccentricità, ma sempre
compatibili con lo status quo.
Ed è proprio la dialettica che Marco
Gatto indica come antidoto al «marxismo culturale». Dialettica come
chiave di accesso e di comprensione della totalità capitalistica. Ma
anche come cassetta degli attrezzi che consente di decrittare il
processo in divenire del regime di accumulazione capitalistico. Con uno
stile espositivo a tratti apodittico, l'autore invita a considerare
chiusa la lunga parentesi che ha messo Karl Marx nelle polverose
biblioteche universitarie. È la crisi economica che ha bisogno di ben
altri strumenti per essere compresa. Nulla da obiettare. C'è però da
dubitare che la «ricomposizione» tra teoria e prassi avvenga dopo aver
assegnato alla prassi una rinnovata centralità. Perché così facendo si
ripresenta il nodo del rapporto tra struttura e sovrastruttura, che
molti marxisti hanno cercato di sciogliere, rimanendo tuttavia
imbrigliati in stringenti contraddizioni. C'è semmai da discutere se la
teoria non sia essa stessa una prassi, una potenza materiale che si
dispiega all'interno dei rapporti sociali di produzione. A lungo
richiamati dall'autore, ma mai messi a tema in questo saggio.
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