martedì 22 gennaio 2013

Una nuova storia dell'Inquisizione

Storia dell’Inquisizione in ItaliaChristopher Black: Storia dell'Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura, Carocci

Risvolto
Una nuova storia dell’Inquisizione in Italia, dei suoi principali protagonisti, dei suoi obiettivi, delle sue procedure, dei meccanismi di controllo e di comando a firma di uno dei massimi esperti a livello internazionale. Un libro che restituisce finalmente un’immagine precisa e fedele di quest’importante istituzione, senza indulgere alla leggenda nera che spesso ancora la avvolge, ma nemmeno a facili revisionismi.

Cultura I sommersi e i salvati della caccia agli ereticiL'Inquisizione non fu soltanto tortura e roghi

di Paolo Mieli Corriere 22.1.13

Tutti ricordiamo i nomi dei grandi martiri dell'Inquisizione romana creata il 21 luglio 1542 ai tempi di Paolo III (Alessandro Farnese): Pietro Carnesecchi, Giordano Bruno, Francesco Pucci o i marrani di Ancona. Ma a pochi vengono in mente con immediatezza quelli di altri (Mario Galeota, Dionisio Gallo, ad esempio) che pure subirono accuse di eresia dello stesso tenore di quelle mosse a Carnesecchi, Bruno e Pucci, e però ebbero un diverso destino. In molti casi, sentenze apparentemente pesanti furono, dopo un po', commutate in pene decisamente lievi.

Già Adriano Prosperi — con Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori e missionari (Einaudi) — anni fa aveva sfatato la tesi, tramandataci dalla storiografia anticlericale, secondo cui l'Inquisizione romana fu nient'altro che un «tribunale sanguinario». Adesso Christopher Black con la Storia dell'Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura (Carocci) documenta meticolosamente come le sentenze di morte furono «relativamente poche» se confrontate a quelle di quasi tutti gli altri tribunali italiani, la tortura «più rara», e si diedero ai «rei» concrete opportunità di «patteggiamento della pena». Quella che riguarda l'Inquisizione, prosegue Black, non fu «una storia così macabra come le leggende e i pregiudizi possono suggerire», né si può dire che assomigli «alle immagini dedicate da Francisco Goya alle ultime fasi dell'Inquisizione spagnola». Dopo il Medioevo, nell'area in cui operava l'Inquisizione, la tortura era in larga parte «più selettiva, fisicamente meno aggressiva e meno raccapricciante e fantasiosa» di quella che è oggi praticata in molti Stati moderni, o di fatto accettata, attraverso «misure legislative straordinarie di estradizione che violano in vario modo le convenzioni internazionali e i diritti dei prigionieri».
John Tedeschi, in Il giudice e l'eretico. Studi sull'Inquisizione romana (Vita e Pensiero), ha efficacemente raccontato come l'Inquisizione romana sia stata tutt'altro che «una caricatura di tribunale», un «tunnel degli orrori», un «labirinto giudiziario dal quale era impossibile uscire». E la storica Anne Schutte ha spiegato, con molti validi argomenti, che quel sistema inquisitoriale ha «offerto la migliore giustizia criminale possibile nell'Europa dell'età Moderna». La Schutte ha anche invitato a riflettere sul fatto che ci furono Papi, come Paolo III e Pio IV, i quali ebbero un approccio «morbido» a questi temi; che un discreto numero di vescovi tra il 1520 e il 1570 abbracciarono idee di «riforma», e altri si batterono per «porre un freno alla severità degli inquisitori e limitarne l'intrusione nelle credenze personali».
Tra episcopato e inquisitori si ebbe, in altre parole, un rapporto più che dialettico. A fronte dell'ala più intransigente dei cardinali, Gian Pietro Carafa e Michele Ghislieri (successivamente Papi con i nomi Paolo IV e Pio V), ci furono eminenze, per così dire, meno risolute (i cardinali Scipione Rebiba, Giulio Antonio Santoro, Giovanni Garzia Millini). E si riesce perfino ad individuare una «tolleranza talvolta ambivalente degli inquisitori locali»: quella di Marino da Venezia, portato in giudizio per eccessi di indulgenza; quella di Antonio Balducci, che a Bologna «distribuiva sentenze lievi o severe come dettavano le convenienze»; quella di Eliseo Masini, cui si deve un manuale per inquisitori a suo modo garantista; quella di Dionigi da Costacciaro e Agapito Ugoni, che seppero smontare le tesi di importanti accusatori. L'universo dell'Inquisizione fu assai composito. E i sistemi inquisitoriali furono diversi tra loro. Molto diversi.
Per questo Christopher Black si arrabbiò allorché l'edizione originale di questo libro fu intitolata The Italian Inquisition, quasi il volume si occupasse di un universo privo di articolazioni e sfaccettature. Ma ancor più a Black dispiacque che Diarmaid MacCulloch su «The London Review of Books» gli muovesse l'accusa di non essere stato abbastanza severo nei confronti di quei tribunali religiosi (anche se MacCulloch aveva argomentato «in modo abile e divertente», come dovette riconoscere lo stesso Black). MacCulloch — si era difeso Black — aveva messo in risalto «alcuni passi non privi di ambiguità e decontestualizzandoli», allo scopo di dimostrare l'eccessiva mitezza di The Italian Inquisition a fronte delle «nefandezze» compiute sotto l'influsso di Carafa, Ghislieri e dell'ala più intransigente della Chiesa. Per parte sua, l'autore afferma di condividere le argomentazioni di Adriano Prosperi e Simon Ditchfield secondo cui «l'Inquisizione romana, nonostante il suo lato oscuro, è stata anche una forza creativa ed educativa, che ha contribuito a definire e influenzare la cultura italiana almeno fino al XIX secolo».
Al contrario di Delio Cantimori e dei suoi primi epigoni o, in tempi più recenti, di Massimo Firpo, Black non crede «che il fallimento di una Riforma italiana sia stato disastroso per lo sviluppo e la modernizzazione dell'Italia, né che la vittoria della Chiesa cattolica abbia da sola impedito l'unità e la democratizzazione del Paese». Tra l'altro la frammentazione politica e la varietà dei movimenti di riforma rendevano una vittoria protestante in Italia «quasi impossibile». I singoli Stati, i principi e le oligarchie politiche non avevano «un'autorità sufficiente per imporre una Riforma italiana… e una rottura definitiva con le tradizioni della Chiesa romana poteva significare la perdita di molti privilegi». L'affermazione del calvinismo «non sarebbe stata accolta dalla maggior parte degli italiani meglio di un cattolicesimo ancor più rigido». In conclusione però, autoironicamente, Black si sente in dovere di mettere così le mani avanti: «Correggendo le esagerazioni della "leggenda nera", spero però di non alimentarne una "rosa" o "grigia"».
Nei secoli che precedettero il Cinquecento c'era stata, a partire dal XII, un'Inquisizione medievale impegnata nella lotta ai catari e ai valdesi. La prima Inquisizione moderna fu, poi, quella spagnola, nata su suggerimento del priore domenicano di Siviglia Alonso de Hojeda ai regnanti Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia e approvata da Papa Sisto IV con una Bolla del 1478. Gli inquisitori, per lo più domenicani, erano nominati dalla Corona. Nel 1488 fu creato il nuovo Consiglio per la Castiglia, detto la Suprema, con funzioni di coordinamento, presieduto da un inquisitore generale, all'inizio Tomás de Torquemada. Le prime condanne al rogo furono eseguite il 6 febbraio del 1481. L'Inquisizione spagnola si estese ad alcune regioni d'Italia in particolare dopo il 1559 quando, con il trattato di pace di Cateau-Cambrésis, la Corona di Spagna (Filippo II) fu riconosciuta sovrana del Regno di Napoli, del Ducato di Milano, di Sicilia e Sardegna.
Ed è in queste terre che attecchì la dottrina sospetta di Juan de Valdés, fratello di Alfonso, segretario di Carlo V e in rapporto di corrispondenza con Erasmo, il quale nel 1529, per sfuggire all'Inquisizione spagnola, si trasferì prima a Roma e poi a Napoli. Qui ebbe come seguaci Nicola Maria Caracciolo, vescovo di Catania, Pietro Carnesecchi, Bernardino Ochino, generale dei cappuccini (costretto a fuggire in Svizzera), e Giulia Gonzaga, che dopo la morte di Valdés (1541) fece pubblicare una delle sue opere più famose: Alfabeto cristiano. Estimatori di Valdés furono Reginald Pole, divenuto in seguito cardinale d'Inghilterra (dopo essere stato ben due volte considerato un probabile possibile Papa), Michelangelo Buonarroti e la poetessa Vittoria Colonna. Le città più «infettate» da Valdés furono Siena, per via della predicazione di Bernardino Ochino (che aveva fatto proseliti anche in Sicilia), e Bologna. I cardinali Giovanni Morone e Tommaso Badia furono i più inclini al dialogo con luterani e valdesiani. Gli agostiniani furono i primi a essere processati perché accusati di diffondere le idee di Lutero.
Gli storici ortodossi ci hanno raccontato per secoli che si dovette al rigore dei cardinali Carafa e Ghislieri se fu «sventata» una Riforma italiana. Ma Silvana Seidel Menchi ha ampiamente dimostrato in un libro da lei curato assieme a Diego Quaglioni, Trasgressioni (Il Mulino), che il protestantesimo italiano fu un «non fatto», un «fenomeno marginale» che «non impensierì nessun organo statale, né sotto il governo di un principe, né sotto il controllo di un'élite politica», a differenza di quel che accadde invece «in molti Stati tedeschi, in Inghilterra e in Scozia». Anche «nelle città più influenzate dalle nuove idee, appena lo 0,2% della popolazione era completamente convinto, mentre circa il 2% dimostrava un vago interesse o una simpatia per le dottrine protestanti». I primi casi di un certo rilievo sottoposti all'esame dell'Inquisizione furono quelli dei vescovi di Capodistria Pier Paolo Vergerio e di Chioggia Giacomo Nacchianti. Vergerio, protetto dai patrizi veneziani, tra cui il podestà Donà Malipiero, riuscì a fuggire e nel 1550 fu «bruciato in effigie». Nacchianti fu detenuto a Roma nel plesso di Santa Maria sopra Minerva (una delle sedi dell'Inquisizione), ma venne poi rilasciato così che poté essere attivo durante il Concilio di Trento. È accertato, scrive Black, che «il primo periodo dell'Inquisizione romana fu caratterizzato da atteggiamenti fluidi … e procedure ancora inefficienti». Tra l'altro Giulio III (Giovanni Maria del Monte), il nuovo Papa eletto nel 1550, «non si fidava dell'intransigenza di Carafa ed era memore dei suoi attacchi in conclave contro il cardinale Reginald Pole, con i quali aveva di fatto posto il veto alla sua elezione». Da parte sua Carafa rimproverava al Pontefice di essere eccessivamente blando nei confronti dei supposti eretici. Secondo la testimonianza di un membro del Sant'Uffizio, Carafa «aveva spesse volte contraddetto a Papa Giulio III per le cose dell'Inquisitione e mostratoli che non bisognava andare freddamente». Un altro testimone racconta che Papa del Monte ben presto «ne ebbe fin sopra i capelli dell'incostanza e delle fantasie di Carafa» e della sua «natura fastidiosa». Riferisce Girolamo Muzzarelli, confidente di Giulio III, che il Pontefice era «irritato continuamente contra l'officio della santa Inquisitione» che agiva, a suo avviso, «per malignità et invidia del papato».
Lo scontro divenne esplicito nel maggio del 1551 quando Papa del Monte ordinò il rilascio del vescovo di Bergamo Vittore Soranzo dalla prigione di Castel Sant'Angelo, mentre era in corso il processo intentato dalla Congregazione contro di lui. Fu un caso clamoroso che si concluse con uno dei primi patteggiamenti della moderna storia giuridica. Il capo della Chiesa convinse Soranzo ad ammettere di aver sostenuto «idee vicine alla dottrina luterana» e il vescovo se la cavò con poco. L'Inquisizione poi, avuto sentore delle iniziative del Pontefice a favore degli indagati, procedette in segreto contro i cardinali Reginald Pole e Giovanni Morone, sensibili alle idee di riforma. Giulio III riuscì lo stesso ad entrare in possesso delle carte di quelle indagini e le fece avere di nascosto all'imputato Morone. Che, grazie a quella rivelazione di segreto, si salvò. A fare le spese di queste intricatissime trame fu un frate, Giovanni Buzio da Montalcino, che non credeva nelle indulgenze e nel Purgatorio, ma non aveva niente a che fare con quelle lotte tra Papa e inquisitori. Sui di lui si accanì la Congregazione, che impedì a Giulio III di venire in suo aiuto. Nel 1553 Buzio fu condannato e giustiziato. E fu il primo ad essere mandato a morte a dispetto del Pontefice. Trascorsero poi 26 anni e, nel 1579, un seguace di Buzio, Giacomo Saliceti, fu impiccato e bruciato a sua volta. Nel frattempo Giulio III era morto (1555) ed erano ascesi al soglio pontificio i due vincitori di questa contesa: Carafa (1555-1559) e Ghislieri (1566-1572). Con essi fu il trionfo dell'Inquisizione. Anzi, delle Inquisizioni. Con qualche distinguo, però.
In Toscana Cosimo I de' Medici non ebbe grandi problemi con gli inquisitori. Si assicurò la reputazione di «collaboratore» dando l'assenso all'estradizione del già citato Pietro Carnesecchi — il quale fu poi processato (e giustiziato) a Roma — in cambio del riconoscimento a lui stesso del titolo di granduca e della garanzia che non fossero indagati altri suoi uomini, ancorché considerati di «dubbie posizioni». In virtù di questi accordi, Cosimo non consentì all'Inquisizione di invadere le sue prerogative, come era successo in Spagna, mettendo in chiaro, per esempio, che i propositi di Carafa di perseguire gli ebrei come usurai, erano a Firenze «inaccettabili».
In Piemonte, regione molto esposta alle infiltrazioni ereticali dal Nord che avrebbero potuto riaccendere le ceneri dei movimenti dei secoli precedenti (valdesi e catari), il duca Emanuele Filiberto accettò nel 1559 la piena operatività dell'Inquisizione, pur ponendo limiti per quel che riguardava la Savoia. Poi, nel giugno del 1561, lo stesso duca Emanuele Filiberto siglò a Cavour un trattato che consentiva ad alcune comunità valdesi di vivere indisturbate. Nel secolo successivo i Savoia aumentarono gli ostacoli alle attività dell'Inquisizione, a tutto vantaggio della propria autorità. Vittorio Amedeo II diede prova del definitivo distacco da Roma quando, con un preavviso minimo, espulse tre inquisitori (da Saluzzo nel 1698, da Torino nel 1708 e da Alessandria nel 1709). La Chiesa accusò il colpo e diede un segnale di resa: dopo l'espulsione dell'inquisitore di Alessandria, rinunciò a nominarne uno nuovo, preferendo il ricorso a vicari minori.
Anche a Venezia lo scontro fu assai aspro. Lì il tribunale era guidato da tre ecclesiastici e da tre nobili laici. Tra il 1565 e il 1566 ci fu conflitto tra religiosi e non: questi ultimi accusavano l'inquisitore di stabilire arbitrariamente il calendario delle udienze e degli incontri con i testimoni per ostacolare, appunto, i membri laici della giuria e vanificare la loro influenza sul processo. La città si distinse poi per quello che oggi definiremmo un alto tasso di garantismo. Uno dei primi processi terminò con un verdetto «piuttosto insolito» di innocenza. Un francescano conventuale, Bonaventura Clozio da Casalmaggiore, fu indagato nel 1547 per una presunta irregolarità contenuta nei suoi sermoni. Arrestato a Padova e interrogato a Venezia dal primo inquisitore, Marino Venier (anch'egli francescano), fu rilasciato dopo tre mesi di carcere con la motivazione che le accuse venivano da un predicatore suo rivale.
L'atteggiamento indulgente di fra Marino Venier fece sì che, nel 1551, finisse lui stesso sotto inchiesta inquisitoriale. Due testimoni, un domenicano e un francescano, sostennero che aveva sparlato dell'Inquisizione romana. Lo si accusò di aver permesso, nel 1543, la pubblicazione in volgare di un'opera di Lutero e di aver concesso, nel 1547, la licenza alle parafrasi di Erasmo del Vangelo di Matteo. Gli si imputava anche di aver fornito copertura agli eretici e di aver sostenuto il vescovo Pier Paolo Vergerio nelle circostanze di cui si è detto poc'anzi. Il governo veneziano riuscì a far chiudere il caso attraverso il suo ambasciatore a Roma e fra Marino poté tornare a svolgere i propri uffici sacerdotali dopo aver ricevuto, nel dicembre del 1561, una pubblica assoluzione. Fra Marino, scrive Black, garantì «nei confronti delle eresie una condotta indulgente che lasciava ampio spazio alla riconciliazione e alle punizioni lievi». Roma capì l'antifona e da quel momento privilegiò gli inquisitori domenicani al posto dei più morbidi francescani.
Più complicato il caso di Milano. Qui il governatore Alfonso d'Avalos, pur obbedendo agli ordini di Carlo V, negli anni Trenta (del Cinquecento) aveva avuto qualche predilezione per Bernardino Ochino (e sua moglie l'aveva avuta ancora più forte nei confronti di Juan de Valdés). Poi, però, nel 1541 Alfonso si era mostrato più rigido e aveva fatto arrestare alcuni studenti dell'Università di Pavia, sospettati di eresia. Da quel momento furono le autorità cittadine ad essere più attive su questo fronte, anche perché la Chiesa locale (soprattutto francescani e agostiniani) aveva un atteggiamento di apertura alla Riforma. Furono così gli ufficiali laici — e non i vicari episcopali o gli inquisitori che facevano riferimento ai vescovi — a ricorrere alla pratica della tortura (in alcuni casi efferata, come a Casalmaggiore nel 1547). Allorché un inquisitore di Como si decise a lanciare una campagna antieresia, trovò l'opposizione dell'ausiliario del vescovo e dei consiglieri cittadini, perché non erano stati consultati. Quando poi lo stesso inquisitore nel 1549 fece arrestare un prete, fu contestato dai canonici della cattedrale. Venne allora sostituito, ma nel momento in cui il suo successore (Michele Ghislieri) confiscò dodici sacche di libri proibiti, i canonici protestarono in modo così duro che anche Ghislieri dovette lasciare la città. Se erano gli inquisitori a prendere l'iniziativa, come a Cremona nel 1550 e nel 1551, «il giudice locale, il podestà, e gli altri organi cittadini cercavano di moderare la caccia agli eretici che fuggivano nei Grigioni o a Ginevra e di persuadere il Senato di Milano a sottrarre i processi in corso dalle mani degli inquisitori e dei vicari episcopali».
Nel 1563 Filippo II decise l'insediamento di un tribunale spagnolo a Milano. Il cardinale Carlo Borromeo informò il Concilio di Trento e si oppose con forza all'iniziativa del re. La ebbe vinta, grazie a un vasto movimento popolare, anche se in un certo momento Papa Pio IV (tra l'altro zio di Borromeo) sembrò cedere alle pressioni spagnole. Dal 1566 Borromeo organizzò a Milano un sistema inquisitoriale sotto la sua diretta sorveglianza, convinto di godere dell'appoggio della Congregazione. Ma le cose non stavano così. E Borromeo, un combinato di «entusiasmo, rigore e intransigenza», si trovò da un lato a lottare con gli ufficiali spagnoli di stanza a Milano, dall'altro a confliggere con diverse personalità del Sant'Uffizio. Nel 1569-70 l'arcivescovo di Milano mandò a processo con l'accusa di stregoneria diverse donne originarie di Lecco, sei delle quali furono condannate a morte. Il Senato di Milano protestò, con l'appoggio della Congregazione romana, criticando la «procedura sommaria» e la «qualità» delle prove su cui si basavano i processi. E, con grande disappunto di Borromeo, riuscì a salvare dal rogo le presunte streghe. L'arcivescovo ebbe una rivincita nel 1583 quando mandò a processo 106 persone nella Val Mesolcina, al confine con i Grigioni. La Lombardia, ricorda Black, «era vulnerabile alle infiltrazioni protestanti dai Grigioni, dalla Valtellina e dalla Val Chiavenna, con i loro legami con Ginevra… Dalla Lombardia passavano le vie di comunicazione fra la Savoia e il Veneto e la minaccia era esacerbata dal desiderio degli ugonotti di reclutare sostenitori — militari e religiosi — all'interno del territorio italiano». Stavolta, forse anche per i motivi di cui abbiamo appena detto, Borromeo ottenne l'appoggio delle autorità cittadine e la condanna a morte di sette donne dedite (secondo l'accusa) alla stregoneria. Le sette «streghe» furono arse vive.
La Repubblica di Lucca, per evitare ingerenze da Roma, aveva creato nel maggio del 1545 un suo «Officio sopra la Religione», guidato da un gonfaloniere di giustizia e da tre cittadini eletti dal consiglio generale della città. Idea che, però, non piacque all'Inquisizione. Nel 1555 il cardinale Carafa, divenuto Papa Paolo IV, confidò all'agente lucchese a Roma il proprio timore che «la collera divina avrebbe colpito la città di Lucca a causa dei ripetuti errori commessi in materia di religione». Anche se, preoccupato di destabilizzare la Repubblica, Paolo IV raccomandò di trattare con i guanti i sospetti di estrazione nobiliare. Il compromesso fu che a Lucca «si adottò un sistema inquisitoriale di tipo quasi medievale», in cui i vescovi e i consigli cittadini tentavano di cooperare tenendo a distanza Roma. Lucca fu l'unico territorio italiano ad avere un tribunale secolare per i crimini contro la fede. Furono sì emesse sentenze capitali, ma nessun eretico fu mai giustiziato. Unica eccezione può considerarsi quella dell'ottantacinquenne Crezia di Agostino Mariani, processata come strega nel 1571 e morta sotto tortura, al cui cadavere fu comminata la pena capitale. A Lucca venne adottata una norma assai importante contro l'accanimento della memoria, quella che imponeva ogni cinque anni la distruzione dei registri.
Un caso davvero particolare fu quello della Calabria, dove l'inquisitore, il domenicano Valerio Malvicino, diede vita nel 1561 ad una «crociata» contro gli eretici che Black definisce «una delle ultime vaste azioni in stile medievale contro le comunità valdesi». Ottantasei persone furono uccise con il taglio alla gola, i bambini sotto i quindici anni furono tolti ai genitori «eretici» e assegnati a famiglie cattoliche. Sempre nel Sud fu spietato il domenicano Giulio Pavesi. In merito all'attività di Pavesi, il cardinale di Salerno Girolamo Seripando prese atto del fatto che in Calabria era difficile trovare persone «non infettate dall'eresia» e chiese a Ghislieri se non fosse il caso di sterminare tutti («no sarà sufficiente remedio a pigliarne dieci o vinti, ma in tutto bisogneria brusarli»). E tuttavia lo stesso Pavesi fu anche un raffinato umanista, in rapporti con Giulia Gonzaga, seguace di Juan de Valdés.
Nel 1559, per una decisione riconducibile a Paolo IV (l'ex cardinale Carafa), l'opera di Valdés era stata messa all'indice. Un suo adepto in stabili rapporti con il cardinale Morone e altri alti rappresentanti della Chiesa, il nobile fiorentino Pietro Carnesecchi, nel 1567 fu mandato a morte. Invece Mario Galeota, «un amico di Carnesecchi, dal profilo ereticale piuttosto simile», fu sì condannato, ma poté poi condurre una vita normale e morire, molti anni dopo, tranquillamente nel suo letto. Un intreccio pressoché inestricabile tra inflessibilità e duttilità.
Stesso discorso vale per Sicilia e Sardegna, dove erano state insediate, nel 1487 e nel 1492, succursali dell'Inquisizione spagnola. A Palermo la repressione fu particolarmente dura, tant'è che nel 1507 scoppiò un'insurrezione che mise in fuga il viceré Juan de Moncada e l'inquisitore Mateo Cervera. Poi nel 1543 la violenta opposizione dei siciliani impedì l'adozione della pratica spagnola di far indossare nelle chiese il sanbenito (una tunica che ricordava a tutti la condanna per eresia di chi era costretto a portarla). A Cagliari l'eresia protestante fu combattuta con vigore. Al punto che l'ugonotto Gaspar Poma's, per ottenere una sentenza più mite, si fece passare da ebreo. In Sardegna fu costante l'abuso di denunce «politiche». Come quella nei confronti di Giovanni Antonio Arquer, consigliere del viceré Antonio de Cardona, accusato, nel 1543, di negromanzia e rilasciato dopo 13 mesi di detenzione. Diversa la sorte di suo figlio, Sigismondo, al quale, a dispetto del sostegno di Filippo II (o forse proprio per questo), fu addebitato di essere a contatto con le dottrine di Valdés: fu messo al rogo nel 1571. In entrambi i casi è accertato che l'Inquisizione volesse colpire gli ambienti politici a cui gli Arquer facevano riferimento.
Il quadro dipinto da Black — come si vede — non è certo idilliaco. Tuttavia ciò che più colpisce è che quello delle diverse inquisizioni appare come un mondo sfaccettato, incoerente, a tratti persino contraddittorio. Del quale restano impressi gli intrecci tra giustizia e politica, che si presentano assai simili a quelli tornati alla luce cinque secoli dopo.


 
SANT'UFFIZIO
Gli strumenti del controllo
APERTURA - Marina Montesano il manifesto 2013.04.20 - 10 CULTURA

La lunga guerra alle eresie e ai fenomeni magico-stregonici nel libro dello studioso inglese Christopher F. Black, «Storia dell'Inquisizione in Italia»
Tra la metà del XVI secolo e quella del XVII l'Europa fu dilaniata da «guerre di religione» che si andavano a sommare a conflitti politici e sociali. In Francia, nel 1559 un sinodo nazionale calvinista si concluse con la redazione di una professione di fede per quella confessione (gli aderenti alla quale assunsero il nome di «ugonotti») forte soprattutto nell'aristocrazia e vicina alla corte. Dopo alterne vicende e dopo la tristemente famosa «Notte di San Bartolomeo», il 24 agosto 1572, una vera e propria guerra civile si concluse con l'ascesa al trono di Enrico di Borbone, capo degli ugonotti, che - col nome di Enrico IV - si convertì al cattolicesimo assicurando ai suoi excorreligionari le libertà essenziali. La guerra dei Trent'anni (1618-1648), nata come conflitto religioso ma complicata dall'alleanza tra la Francia e i protestanti tedeschi, si chiuse nel 1648 con le paci di Westfalia che modellarono la mappa religiosa europea definitiva: a parte Scozia e Irlanda, dove fra Sei e Settecento le persecuzioni protestanti si dettero a massacri indiscriminati contro i cattolici eliminandoli o quasi dalla Scozia e dall'Irlanda settentrionale. La Chiesa cattolica rispose alla sfida iniziale della Riforma convocando un concilio voluto da papa Paolo III (1534-1549). Esso si articolò in tre sessioni: dal 1545 al 1547, dal 1551 al 1552 e dal 1562 al 1563. Si fronteggiavano due tendenze: quella che intendeva rispondere alla Riforma rendendo più rigorosi i costumi della Chiesa cattolica e al tempo stesso dando alle Chiese riformate segni di apertura; e quella che proponeva invece un rafforzamento della disciplina ecclesiastica e un rilancio della predicazione popolare al fine di contrastare l'apostolato protestante. Si potrebbe definire la prima una tendenza «cattolico-riformista», la seconda «controriformistica». Il risultato fu una convergenza delle tendenze cattolico-riformate e di quelle controriformistiche. Fu comunque definitivamente sconfitta la teoria conciliaristica sul governo della Chiesa cattolica: esso fu da allora in poi tenuto saldamente dal papa e dalla Curia romana. Però il clero fu soggetto ad attente verifiche morali e culturali: e nacquero, per prepararlo, i seminari.
Obiettivo intellettuali
La liturgia postconciliaristica fu incentrata sull'esaltazione della presenza reale del corpo e del sangue del cristo nell'Eucarestia, sulla devozione per Maria Vergine e per i santi, per il riconoscimento del magistero della Chiesa. Il controllo sui fedeli fu rafforzato con la predicazione, la confessione, la catechesi, ma anche con gli strumenti inquisitoriali e in particolare con l'istituzione del Sant'Uffizio. L'espressione Sanctum Officium era stata usata fin dai primi tempi dell'Inquisizione sia per alludere al carattere dei doveri dei tribunali inquisitoriali, sia per indicare l'istituzione inquisitoriale nel suo complesso. Essa acquistò tuttavia significato più preciso, e notorietà più ampia, allorché con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542 papa Paolo III istituì - alla vigilia del concilio di Trento - la Congregazione della Romana e Universale Inquisizione, detta comunque da allora «del Sant'Uffizio», appunto con il fine specifico di combattere il protestantesimo e, soprattutto, le prospettive di un suo affermarsi in quei paesi che, dopo la Riforma, erano rimasti fedeli alla Chiesa romana. Tuttavia gli stessi pontefici prestarono sempre attenzione affinché la congregazione non concentrasse troppo potere nelle proprie mani a scapito della Santa Sede. La congregazione, non diversamente dall'Inquisizione spagnola, dette importanza solo relativa alle questioni di stregoneria: esercitò invece forte e rigoroso controllo sulle manifestazioni ereticali, specie su quelle intellettuali. I noti processi a Tommaso Campanella (1594-96), a Giordano Bruno (1600), a Galileo (1632-33). I temi oggetto dell'esame inquisitoriale della Congregazione furono anzitutto quelli connessi più strettamente alle posizioni luterane e calviniste: la predestinazione, la salvezza solo per fede (e senza quindi l'ausilio delle opere), la negazione del libero arbitrio, la contestazione della validità dei sacramenti, il rifiuto del primato pontificio, il sacerdozio universale. Solo verso la fine del Cinquecento, quando la pressione della propaganda protestante andò diminuendo e i paesi europei, riformati e no, si stabilizzarono sulle posizioni garantite dai governi laici sulla base del principio cuius regio, eius religio , la Congregazione passò ad accordare maggior attenzione anche ai fenomeni magico-stregonici - che in Francia e soprattutto nella Germania tanto cattolica quanto protestante venivano perseguiti con ben altro vigore - a loro volta molto ridimensionati nel secolo successivo. Alla conoscenza dell'operato dell'inquisizione in Italia hanno contribuito negli ultimi decenni molti studi (a partire da quelli di Romano Canosa e di Adriano Prosperi), alla luce dei quali si può dire ormai superato, almeno in ambito storiografico, il pregiudizio su un'istituzione vista come unicamente assetata di sangue, pronta a torturare e condannare a morte in base a ogni pretesto. Sulla medesima scia si colloca l'ottimo studio di Christopher F. Black, Storia dell'Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura (Carocci editore, 486 pp., 35 euro), professore di Storia d'Italia all'università di Glasgow. Black traccia una sintesi molto dettagliata, condotta su fonti primarie e su una ricca bibliografia.
Diffusione della Riforma
Il libro si articola in modo logico seguendo la nascita del Sant'Uffizio, la sua articolazione in rapporto alle realtà locali, il funzionamento dei tribunali, il metodo degli inquisitori, gli obiettivi dell'inquisizione attraverso una vasta pannoramica di accuse e sentenze, la censura, il rapporto con superstizioni, magia e stregoneria. Insieme alle panoramiche generali, non mancano gli esempi dettagliati di singoli casi di particolare interesse. Inoltre, poiché si parla di Italia, diverse sezioni sono dedicate a tribunali, come quelli siciliani, che non dipendevano da Roma, bensì dall'Inquisizione spagnola: lo stato assolutistico moderno, d'altronde, non poteva lasciare spazio all'Inquisizione romana, sempre più considerata una sorta d'intollerabile «stato nello stato». In teoria la Licet abi initio disponeva l'universalità dell'azione della congregazione del Sant'Uffizio, con la sola eccezione della Spagna. Nella realtà, le cose andavano in modo molto diverso. Se i re di Spagna e la repubblica di Venezia avevano istituzioni inquisitoriali proprie (sia pur molto diverse fra loro) e in differente modo indipendenti dalla Santa Sede, gli altri paesi cattolici stavano in vario modo elaborando a loro volta strumenti di controllo e di repressione - o di moderata tolleranza - dei gruppi cristiani riformati, con ciò vanificando il lavoro del sant'Uffizio. La documentazione sull'attività del Sant'Uffizio nelle regioni d'Italia che rientravano nella sua sfera di competenza, è discontinua. Gli studi condotti mettono comunque in evidenza alcune linee di tendenza che si possono considerare generali: nel corso del Cinquecento l'attenzione degli inquisitori si rivolse soprattutto alla persecuzione dell'eresia, e in modo particolare al contenimento della diffusione della riforma. Questo è specialmente evidente in alcune città, come Modena, dove l'Accademia aveva ospitato le idee della riforma e alcuni predicatori «tradizionalisti» erano stati sbeffeggiati e costretti alla fuga. Nel giro di circa un decennio, fra gli inizi degli anni Quaranta e i Cinquanta, l'intervento deciso della Santa Sede e gli appelli alle autorità civili spensero il dibattito all'interno della città. Ma anche nel periodo successivo, così come altrove in Italia, la guardia contro il diffondersi del luteranesimo fu vigile e permise di ottenere risultati definitivi. Fu così che l'attenzione del Sant'Uffizio prese a rivolgersi altrove.
Processi per stregoneria
Gli ebrei d'Italia non subirono mai il trattamento riservato loro in Spagna e non furono costretti alla conversione; ma certamente il controllo sulle loro comunità si intensificò e irrigidì: in particolar modo si prestava attenzione ai casi in cui conversioni spontanee - generalmente ottenute per mezzo della catechesi condotta dai gesuiti - di ebrei non fossero osteggiate da parenti e conoscenti; si indagava sulle frequenti denunce di profanazioni compiute contro oggetti e figure sacre dei cristiani; si esercitava un controllo sul contenuto dei testi religiosi degli ebrei. Vi erano poi, come detto, le indagini e i processi per accuse di magia e stregoneria. In questo ambito si deve sottolineare come sia ormai opinione condivisa che l'Inquisizione del Sant'Uffizio si comportò in modo più scettico e rigoroso nell'accertamento delle colpe di quanto facevano contemporaneamente i tribunali laici e le gerarchie ecclesiastiche locali, più facilmente inclini a cedere alle istanza fanaticamente persecutorie espresse dalla società civile. Infine, l'Inquisizione romana prendeva in considerazione come appartenenti all'ambito dell'eresia comportamenti genericamente eterodossi, che spesso vedevano intrecciarsi residui ereticali, pratiche antireligiose o blasfeme, costumi sessuali (tanto dei laici quanto, e soprattutto, del clero), bassa magia. Difficilmente questi processi venivano conclusi da condanne gravi: ma era necessario che l'imputato facesse ammenda e riconoscesse i propri errori. In generale, si può concludere con Christopher Black che l'azione del Sant'Uffizio negli Stati italiani fu pervasiva ed efficace nella riduzione dell'eterodossia, pur registrando spesso forti opposizioni da parte delle autorità laiche e delle gerarchie ecclesiastiche locali, che si vedevano sottrarre competenze e poteri. Tuttavia proprio queste sottrazioni in molti casi, almeno dopo l'estirpazione del seme della riforma, giocarono a vantaggio degli imputati, consentendo loro di essere sottoposti a istruttorie e processi duri ma rigorosi, soprattutto per quanto riguarda l'impiego della tortura, cui Black dedic a un dettagliato paragrafo, sottratti alle logiche localistiche che risultavano generalmente penalizzanti per i soggetti più deboli. 

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