Tra episcopato e inquisitori si ebbe, in altre
parole, un rapporto più che dialettico. A fronte dell'ala più
intransigente dei cardinali, Gian Pietro Carafa e Michele Ghislieri
(successivamente Papi con i nomi Paolo IV e Pio V), ci furono eminenze,
per così dire, meno risolute (i cardinali Scipione Rebiba, Giulio
Antonio Santoro, Giovanni Garzia Millini). E si riesce perfino ad
individuare una «tolleranza talvolta ambivalente degli inquisitori
locali»: quella di Marino da Venezia, portato in giudizio per eccessi di
indulgenza; quella di Antonio Balducci, che a Bologna «distribuiva
sentenze lievi o severe come dettavano le convenienze»; quella di Eliseo
Masini, cui si deve un manuale per inquisitori a suo modo garantista;
quella di Dionigi da Costacciaro e Agapito Ugoni, che seppero smontare
le tesi di importanti accusatori. L'universo dell'Inquisizione fu assai
composito. E i sistemi inquisitoriali furono diversi tra loro. Molto
diversi.
Per questo Christopher Black si arrabbiò allorché l'edizione
originale di questo libro fu intitolata The Italian Inquisition, quasi
il volume si occupasse di un universo privo di articolazioni e
sfaccettature. Ma ancor più a Black dispiacque che Diarmaid MacCulloch
su «The London Review of Books» gli muovesse l'accusa di non essere
stato abbastanza severo nei confronti di quei tribunali religiosi (anche
se MacCulloch aveva argomentato «in modo abile e divertente», come
dovette riconoscere lo stesso Black). MacCulloch — si era difeso Black —
aveva messo in risalto «alcuni passi non privi di ambiguità e
decontestualizzandoli», allo scopo di dimostrare l'eccessiva mitezza di
The Italian Inquisition a fronte delle «nefandezze» compiute sotto
l'influsso di Carafa, Ghislieri e dell'ala più intransigente della
Chiesa. Per parte sua, l'autore afferma di condividere le argomentazioni
di Adriano Prosperi e Simon Ditchfield secondo cui «l'Inquisizione
romana, nonostante il suo lato oscuro, è stata anche una forza creativa
ed educativa, che ha contribuito a definire e influenzare la cultura
italiana almeno fino al XIX secolo».
Al contrario di Delio Cantimori e
dei suoi primi epigoni o, in tempi più recenti, di Massimo Firpo, Black
non crede «che il fallimento di una Riforma italiana sia stato
disastroso per lo sviluppo e la modernizzazione dell'Italia, né che la
vittoria della Chiesa cattolica abbia da sola impedito l'unità e la
democratizzazione del Paese». Tra l'altro la frammentazione politica e
la varietà dei movimenti di riforma rendevano una vittoria protestante
in Italia «quasi impossibile». I singoli Stati, i principi e le
oligarchie politiche non avevano «un'autorità sufficiente per imporre
una Riforma italiana… e una rottura definitiva con le tradizioni della
Chiesa romana poteva significare la perdita di molti privilegi».
L'affermazione del calvinismo «non sarebbe stata accolta dalla maggior
parte degli italiani meglio di un cattolicesimo ancor più rigido». In
conclusione però, autoironicamente, Black si sente in dovere di mettere
così le mani avanti: «Correggendo le esagerazioni della "leggenda nera",
spero però di non alimentarne una "rosa" o "grigia"».
Nei secoli che
precedettero il Cinquecento c'era stata, a partire dal XII,
un'Inquisizione medievale impegnata nella lotta ai catari e ai valdesi.
La prima Inquisizione moderna fu, poi, quella spagnola, nata su
suggerimento del priore domenicano di Siviglia Alonso de Hojeda ai
regnanti Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia e approvata da
Papa Sisto IV con una Bolla del 1478. Gli inquisitori, per lo più
domenicani, erano nominati dalla Corona. Nel 1488 fu creato il nuovo
Consiglio per la Castiglia, detto la Suprema, con funzioni di
coordinamento, presieduto da un inquisitore generale, all'inizio Tomás
de Torquemada. Le prime condanne al rogo furono eseguite il 6 febbraio
del 1481. L'Inquisizione spagnola si estese ad alcune regioni d'Italia
in particolare dopo il 1559 quando, con il trattato di pace di
Cateau-Cambrésis, la Corona di Spagna (Filippo II) fu riconosciuta
sovrana del Regno di Napoli, del Ducato di Milano, di Sicilia e
Sardegna.
Ed è in queste terre che attecchì la dottrina sospetta di
Juan de Valdés, fratello di Alfonso, segretario di Carlo V e in rapporto
di corrispondenza con Erasmo, il quale nel 1529, per sfuggire
all'Inquisizione spagnola, si trasferì prima a Roma e poi a Napoli. Qui
ebbe come seguaci Nicola Maria Caracciolo, vescovo di Catania, Pietro
Carnesecchi, Bernardino Ochino, generale dei cappuccini (costretto a
fuggire in Svizzera), e Giulia Gonzaga, che dopo la morte di Valdés
(1541) fece pubblicare una delle sue opere più famose: Alfabeto
cristiano. Estimatori di Valdés furono Reginald Pole, divenuto in
seguito cardinale d'Inghilterra (dopo essere stato ben due volte
considerato un probabile possibile Papa), Michelangelo Buonarroti e la
poetessa Vittoria Colonna. Le città più «infettate» da Valdés furono
Siena, per via della predicazione di Bernardino Ochino (che aveva fatto
proseliti anche in Sicilia), e Bologna. I cardinali Giovanni Morone e
Tommaso Badia furono i più inclini al dialogo con luterani e valdesiani.
Gli agostiniani furono i primi a essere processati perché accusati di
diffondere le idee di Lutero.
Gli storici ortodossi ci hanno
raccontato per secoli che si dovette al rigore dei cardinali Carafa e
Ghislieri se fu «sventata» una Riforma italiana. Ma Silvana Seidel
Menchi ha ampiamente dimostrato in un libro da lei curato assieme a
Diego Quaglioni, Trasgressioni (Il Mulino), che il protestantesimo
italiano fu un «non fatto», un «fenomeno marginale» che «non impensierì
nessun organo statale, né sotto il governo di un principe, né sotto il
controllo di un'élite politica», a differenza di quel che accadde invece
«in molti Stati tedeschi, in Inghilterra e in Scozia». Anche «nelle
città più influenzate dalle nuove idee, appena lo 0,2% della popolazione
era completamente convinto, mentre circa il 2% dimostrava un vago
interesse o una simpatia per le dottrine protestanti». I primi casi di
un certo rilievo sottoposti all'esame dell'Inquisizione furono quelli
dei vescovi di Capodistria Pier Paolo Vergerio e di Chioggia Giacomo
Nacchianti. Vergerio, protetto dai patrizi veneziani, tra cui il podestà
Donà Malipiero, riuscì a fuggire e nel 1550 fu «bruciato in effigie».
Nacchianti fu detenuto a Roma nel plesso di Santa Maria sopra Minerva
(una delle sedi dell'Inquisizione), ma venne poi rilasciato così che
poté essere attivo durante il Concilio di Trento. È accertato, scrive
Black, che «il primo periodo dell'Inquisizione romana fu caratterizzato
da atteggiamenti fluidi … e procedure ancora inefficienti». Tra l'altro
Giulio III (Giovanni Maria del Monte), il nuovo Papa eletto nel 1550,
«non si fidava dell'intransigenza di Carafa ed era memore dei suoi
attacchi in conclave contro il cardinale Reginald Pole, con i quali
aveva di fatto posto il veto alla sua elezione». Da parte sua Carafa
rimproverava al Pontefice di essere eccessivamente blando nei confronti
dei supposti eretici. Secondo la testimonianza di un membro del
Sant'Uffizio, Carafa «aveva spesse volte contraddetto a Papa Giulio III
per le cose dell'Inquisitione e mostratoli che non bisognava andare
freddamente». Un altro testimone racconta che Papa del Monte ben presto
«ne ebbe fin sopra i capelli dell'incostanza e delle fantasie di Carafa»
e della sua «natura fastidiosa». Riferisce Girolamo Muzzarelli,
confidente di Giulio III, che il Pontefice era «irritato continuamente
contra l'officio della santa Inquisitione» che agiva, a suo avviso, «per
malignità et invidia del papato».
Lo scontro divenne esplicito nel
maggio del 1551 quando Papa del Monte ordinò il rilascio del vescovo di
Bergamo Vittore Soranzo dalla prigione di Castel Sant'Angelo, mentre era
in corso il processo intentato dalla Congregazione contro di lui. Fu un
caso clamoroso che si concluse con uno dei primi patteggiamenti della
moderna storia giuridica. Il capo della Chiesa convinse Soranzo ad
ammettere di aver sostenuto «idee vicine alla dottrina luterana» e il
vescovo se la cavò con poco. L'Inquisizione poi, avuto sentore delle
iniziative del Pontefice a favore degli indagati, procedette in segreto
contro i cardinali Reginald Pole e Giovanni Morone, sensibili alle idee
di riforma. Giulio III riuscì lo stesso ad entrare in possesso delle
carte di quelle indagini e le fece avere di nascosto all'imputato
Morone. Che, grazie a quella rivelazione di segreto, si salvò. A fare le
spese di queste intricatissime trame fu un frate, Giovanni Buzio da
Montalcino, che non credeva nelle indulgenze e nel Purgatorio, ma non
aveva niente a che fare con quelle lotte tra Papa e inquisitori. Sui di
lui si accanì la Congregazione, che impedì a Giulio III di venire in suo
aiuto. Nel 1553 Buzio fu condannato e giustiziato. E fu il primo ad
essere mandato a morte a dispetto del Pontefice. Trascorsero poi 26 anni
e, nel 1579, un seguace di Buzio, Giacomo Saliceti, fu impiccato e
bruciato a sua volta. Nel frattempo Giulio III era morto (1555) ed erano
ascesi al soglio pontificio i due vincitori di questa contesa: Carafa
(1555-1559) e Ghislieri (1566-1572). Con essi fu il trionfo
dell'Inquisizione. Anzi, delle Inquisizioni. Con qualche distinguo,
però.
In Toscana Cosimo I de' Medici non ebbe grandi problemi con gli
inquisitori. Si assicurò la reputazione di «collaboratore» dando
l'assenso all'estradizione del già citato Pietro Carnesecchi — il quale
fu poi processato (e giustiziato) a Roma — in cambio del riconoscimento a
lui stesso del titolo di granduca e della garanzia che non fossero
indagati altri suoi uomini, ancorché considerati di «dubbie posizioni».
In virtù di questi accordi, Cosimo non consentì all'Inquisizione di
invadere le sue prerogative, come era successo in Spagna, mettendo in
chiaro, per esempio, che i propositi di Carafa di perseguire gli ebrei
come usurai, erano a Firenze «inaccettabili».
In Piemonte, regione
molto esposta alle infiltrazioni ereticali dal Nord che avrebbero potuto
riaccendere le ceneri dei movimenti dei secoli precedenti (valdesi e
catari), il duca Emanuele Filiberto accettò nel 1559 la piena
operatività dell'Inquisizione, pur ponendo limiti per quel che
riguardava la Savoia. Poi, nel giugno del 1561, lo stesso duca Emanuele
Filiberto siglò a Cavour un trattato che consentiva ad alcune comunità
valdesi di vivere indisturbate. Nel secolo successivo i Savoia
aumentarono gli ostacoli alle attività dell'Inquisizione, a tutto
vantaggio della propria autorità. Vittorio Amedeo II diede prova del
definitivo distacco da Roma quando, con un preavviso minimo, espulse tre
inquisitori (da Saluzzo nel 1698, da Torino nel 1708 e da Alessandria
nel 1709). La Chiesa accusò il colpo e diede un segnale di resa: dopo
l'espulsione dell'inquisitore di Alessandria, rinunciò a nominarne uno
nuovo, preferendo il ricorso a vicari minori.
Anche a Venezia lo
scontro fu assai aspro. Lì il tribunale era guidato da tre ecclesiastici
e da tre nobili laici. Tra il 1565 e il 1566 ci fu conflitto tra
religiosi e non: questi ultimi accusavano l'inquisitore di stabilire
arbitrariamente il calendario delle udienze e degli incontri con i
testimoni per ostacolare, appunto, i membri laici della giuria e
vanificare la loro influenza sul processo. La città si distinse poi per
quello che oggi definiremmo un alto tasso di garantismo. Uno dei primi
processi terminò con un verdetto «piuttosto insolito» di innocenza. Un
francescano conventuale, Bonaventura Clozio da Casalmaggiore, fu
indagato nel 1547 per una presunta irregolarità contenuta nei suoi
sermoni. Arrestato a Padova e interrogato a Venezia dal primo
inquisitore, Marino Venier (anch'egli francescano), fu rilasciato dopo
tre mesi di carcere con la motivazione che le accuse venivano da un
predicatore suo rivale.
L'atteggiamento indulgente di fra Marino
Venier fece sì che, nel 1551, finisse lui stesso sotto inchiesta
inquisitoriale. Due testimoni, un domenicano e un francescano,
sostennero che aveva sparlato dell'Inquisizione romana. Lo si accusò di
aver permesso, nel 1543, la pubblicazione in volgare di un'opera di
Lutero e di aver concesso, nel 1547, la licenza alle parafrasi di Erasmo
del Vangelo di Matteo. Gli si imputava anche di aver fornito copertura
agli eretici e di aver sostenuto il vescovo Pier Paolo Vergerio nelle
circostanze di cui si è detto poc'anzi. Il governo veneziano riuscì a
far chiudere il caso attraverso il suo ambasciatore a Roma e fra Marino
poté tornare a svolgere i propri uffici sacerdotali dopo aver ricevuto,
nel dicembre del 1561, una pubblica assoluzione. Fra Marino, scrive
Black, garantì «nei confronti delle eresie una condotta indulgente che
lasciava ampio spazio alla riconciliazione e alle punizioni lievi». Roma
capì l'antifona e da quel momento privilegiò gli inquisitori domenicani
al posto dei più morbidi francescani.
Più complicato il caso di
Milano. Qui il governatore Alfonso d'Avalos, pur obbedendo agli ordini
di Carlo V, negli anni Trenta (del Cinquecento) aveva avuto qualche
predilezione per Bernardino Ochino (e sua moglie l'aveva avuta ancora
più forte nei confronti di Juan de Valdés). Poi, però, nel 1541 Alfonso
si era mostrato più rigido e aveva fatto arrestare alcuni studenti
dell'Università di Pavia, sospettati di eresia. Da quel momento furono
le autorità cittadine ad essere più attive su questo fronte, anche
perché la Chiesa locale (soprattutto francescani e agostiniani) aveva un
atteggiamento di apertura alla Riforma. Furono così gli ufficiali laici
— e non i vicari episcopali o gli inquisitori che facevano riferimento
ai vescovi — a ricorrere alla pratica della tortura (in alcuni casi
efferata, come a Casalmaggiore nel 1547). Allorché un inquisitore di
Como si decise a lanciare una campagna antieresia, trovò l'opposizione
dell'ausiliario del vescovo e dei consiglieri cittadini, perché non
erano stati consultati. Quando poi lo stesso inquisitore nel 1549 fece
arrestare un prete, fu contestato dai canonici della cattedrale. Venne
allora sostituito, ma nel momento in cui il suo successore (Michele
Ghislieri) confiscò dodici sacche di libri proibiti, i canonici
protestarono in modo così duro che anche Ghislieri dovette lasciare la
città. Se erano gli inquisitori a prendere l'iniziativa, come a Cremona
nel 1550 e nel 1551, «il giudice locale, il podestà, e gli altri organi
cittadini cercavano di moderare la caccia agli eretici che fuggivano nei
Grigioni o a Ginevra e di persuadere il Senato di Milano a sottrarre i
processi in corso dalle mani degli inquisitori e dei vicari episcopali».
Nel
1563 Filippo II decise l'insediamento di un tribunale spagnolo a
Milano. Il cardinale Carlo Borromeo informò il Concilio di Trento e si
oppose con forza all'iniziativa del re. La ebbe vinta, grazie a un vasto
movimento popolare, anche se in un certo momento Papa Pio IV (tra
l'altro zio di Borromeo) sembrò cedere alle pressioni spagnole. Dal 1566
Borromeo organizzò a Milano un sistema inquisitoriale sotto la sua
diretta sorveglianza, convinto di godere dell'appoggio della
Congregazione. Ma le cose non stavano così. E Borromeo, un combinato di
«entusiasmo, rigore e intransigenza», si trovò da un lato a lottare con
gli ufficiali spagnoli di stanza a Milano, dall'altro a confliggere con
diverse personalità del Sant'Uffizio. Nel 1569-70 l'arcivescovo di
Milano mandò a processo con l'accusa di stregoneria diverse donne
originarie di Lecco, sei delle quali furono condannate a morte. Il
Senato di Milano protestò, con l'appoggio della Congregazione romana,
criticando la «procedura sommaria» e la «qualità» delle prove su cui si
basavano i processi. E, con grande disappunto di Borromeo, riuscì a
salvare dal rogo le presunte streghe. L'arcivescovo ebbe una rivincita
nel 1583 quando mandò a processo 106 persone nella Val Mesolcina, al
confine con i Grigioni. La Lombardia, ricorda Black, «era vulnerabile
alle infiltrazioni protestanti dai Grigioni, dalla Valtellina e dalla
Val Chiavenna, con i loro legami con Ginevra… Dalla Lombardia passavano
le vie di comunicazione fra la Savoia e il Veneto e la minaccia era
esacerbata dal desiderio degli ugonotti di reclutare sostenitori —
militari e religiosi — all'interno del territorio italiano». Stavolta,
forse anche per i motivi di cui abbiamo appena detto, Borromeo ottenne
l'appoggio delle autorità cittadine e la condanna a morte di sette donne
dedite (secondo l'accusa) alla stregoneria. Le sette «streghe» furono
arse vive.
La Repubblica di Lucca, per evitare ingerenze da Roma,
aveva creato nel maggio del 1545 un suo «Officio sopra la Religione»,
guidato da un gonfaloniere di giustizia e da tre cittadini eletti dal
consiglio generale della città. Idea che, però, non piacque
all'Inquisizione. Nel 1555 il cardinale Carafa, divenuto Papa Paolo IV,
confidò all'agente lucchese a Roma il proprio timore che «la collera
divina avrebbe colpito la città di Lucca a causa dei ripetuti errori
commessi in materia di religione». Anche se, preoccupato di
destabilizzare la Repubblica, Paolo IV raccomandò di trattare con i
guanti i sospetti di estrazione nobiliare. Il compromesso fu che a Lucca
«si adottò un sistema inquisitoriale di tipo quasi medievale», in cui i
vescovi e i consigli cittadini tentavano di cooperare tenendo a
distanza Roma. Lucca fu l'unico territorio italiano ad avere un
tribunale secolare per i crimini contro la fede. Furono sì emesse
sentenze capitali, ma nessun eretico fu mai giustiziato. Unica eccezione
può considerarsi quella dell'ottantacinquenne Crezia di Agostino
Mariani, processata come strega nel 1571 e morta sotto tortura, al cui
cadavere fu comminata la pena capitale. A Lucca venne adottata una norma
assai importante contro l'accanimento della memoria, quella che
imponeva ogni cinque anni la distruzione dei registri.
Un caso
davvero particolare fu quello della Calabria, dove l'inquisitore, il
domenicano Valerio Malvicino, diede vita nel 1561 ad una «crociata»
contro gli eretici che Black definisce «una delle ultime vaste azioni in
stile medievale contro le comunità valdesi». Ottantasei persone furono
uccise con il taglio alla gola, i bambini sotto i quindici anni furono
tolti ai genitori «eretici» e assegnati a famiglie cattoliche. Sempre
nel Sud fu spietato il domenicano Giulio Pavesi. In merito all'attività
di Pavesi, il cardinale di Salerno Girolamo Seripando prese atto del
fatto che in Calabria era difficile trovare persone «non infettate
dall'eresia» e chiese a Ghislieri se non fosse il caso di sterminare
tutti («no sarà sufficiente remedio a pigliarne dieci o vinti, ma in
tutto bisogneria brusarli»). E tuttavia lo stesso Pavesi fu anche un
raffinato umanista, in rapporti con Giulia Gonzaga, seguace di Juan de
Valdés.
Nel 1559, per una decisione riconducibile a Paolo IV (l'ex
cardinale Carafa), l'opera di Valdés era stata messa all'indice. Un suo
adepto in stabili rapporti con il cardinale Morone e altri alti
rappresentanti della Chiesa, il nobile fiorentino Pietro Carnesecchi,
nel 1567 fu mandato a morte. Invece Mario Galeota, «un amico di
Carnesecchi, dal profilo ereticale piuttosto simile», fu sì condannato,
ma poté poi condurre una vita normale e morire, molti anni dopo,
tranquillamente nel suo letto. Un intreccio pressoché inestricabile tra
inflessibilità e duttilità.
Stesso discorso vale per Sicilia e
Sardegna, dove erano state insediate, nel 1487 e nel 1492, succursali
dell'Inquisizione spagnola. A Palermo la repressione fu particolarmente
dura, tant'è che nel 1507 scoppiò un'insurrezione che mise in fuga il
viceré Juan de Moncada e l'inquisitore Mateo Cervera. Poi nel 1543 la
violenta opposizione dei siciliani impedì l'adozione della pratica
spagnola di far indossare nelle chiese il sanbenito (una tunica che
ricordava a tutti la condanna per eresia di chi era costretto a
portarla). A Cagliari l'eresia protestante fu combattuta con vigore. Al
punto che l'ugonotto Gaspar Poma's, per ottenere una sentenza più mite,
si fece passare da ebreo. In Sardegna fu costante l'abuso di denunce
«politiche». Come quella nei confronti di Giovanni Antonio Arquer,
consigliere del viceré Antonio de Cardona, accusato, nel 1543, di
negromanzia e rilasciato dopo 13 mesi di detenzione. Diversa la sorte di
suo figlio, Sigismondo, al quale, a dispetto del sostegno di Filippo II
(o forse proprio per questo), fu addebitato di essere a contatto con le
dottrine di Valdés: fu messo al rogo nel 1571. In entrambi i casi è
accertato che l'Inquisizione volesse colpire gli ambienti politici a cui
gli Arquer facevano riferimento.
Il quadro dipinto da Black — come
si vede — non è certo idilliaco. Tuttavia ciò che più colpisce è che
quello delle diverse inquisizioni appare come un mondo sfaccettato,
incoerente, a tratti persino contraddittorio. Del quale restano impressi
gli intrecci tra giustizia e politica, che si presentano assai simili a
quelli tornati alla luce cinque secoli dopo.
SANT'UFFIZIO
Gli strumenti del controllo
APERTURA - Marina Montesano il manifesto 2013.04.20 - 10 CULTURA
La lunga guerra alle
eresie e ai fenomeni magico-stregonici nel libro dello studioso inglese
Christopher F. Black, «Storia dell'Inquisizione in Italia»
Tra la metà del XVI secolo e quella del XVII
l'Europa fu dilaniata da «guerre di religione» che si andavano a sommare
a conflitti politici e sociali. In Francia, nel 1559 un sinodo
nazionale calvinista si concluse con la redazione di una professione di
fede per quella confessione (gli aderenti alla quale assunsero il nome
di «ugonotti») forte soprattutto nell'aristocrazia e vicina alla corte.
Dopo alterne vicende e dopo la tristemente famosa «Notte di San
Bartolomeo», il 24 agosto 1572, una vera e propria guerra civile si
concluse con l'ascesa al trono di Enrico di Borbone, capo degli
ugonotti, che - col nome di Enrico IV - si convertì al cattolicesimo
assicurando ai suoi excorreligionari le libertà essenziali. La guerra
dei Trent'anni (1618-1648), nata come conflitto religioso ma complicata
dall'alleanza tra la Francia e i protestanti tedeschi, si chiuse nel
1648 con le paci di Westfalia che modellarono la mappa religiosa europea
definitiva: a parte Scozia e Irlanda, dove fra Sei e Settecento le
persecuzioni protestanti si dettero a massacri indiscriminati contro i
cattolici eliminandoli o quasi dalla Scozia e dall'Irlanda
settentrionale. La Chiesa cattolica rispose alla sfida iniziale della
Riforma convocando un concilio voluto da papa Paolo III (1534-1549).
Esso si articolò in tre sessioni: dal 1545 al 1547, dal 1551 al 1552 e
dal 1562 al 1563. Si fronteggiavano due tendenze: quella che intendeva
rispondere alla Riforma rendendo più rigorosi i costumi della Chiesa
cattolica e al tempo stesso dando alle Chiese riformate segni di
apertura; e quella che proponeva invece un rafforzamento della
disciplina ecclesiastica e un rilancio della predicazione popolare al
fine di contrastare l'apostolato protestante. Si potrebbe definire la
prima una tendenza «cattolico-riformista», la seconda
«controriformistica». Il risultato fu una convergenza delle tendenze
cattolico-riformate e di quelle controriformistiche. Fu comunque
definitivamente sconfitta la teoria conciliaristica sul governo della
Chiesa cattolica: esso fu da allora in poi tenuto saldamente dal papa e
dalla Curia romana. Però il clero fu soggetto ad attente verifiche
morali e culturali: e nacquero, per prepararlo, i seminari.
Obiettivo intellettuali
La
liturgia postconciliaristica fu incentrata sull'esaltazione della
presenza reale del corpo e del sangue del cristo nell'Eucarestia, sulla
devozione per Maria Vergine e per i santi, per il riconoscimento del
magistero della Chiesa. Il controllo sui fedeli fu rafforzato con la
predicazione, la confessione, la catechesi, ma anche con gli strumenti
inquisitoriali e in particolare con l'istituzione del Sant'Uffizio.
L'espressione Sanctum Officium era stata usata fin dai primi tempi
dell'Inquisizione sia per alludere al carattere dei doveri dei tribunali
inquisitoriali, sia per indicare l'istituzione inquisitoriale nel suo
complesso. Essa acquistò tuttavia significato più preciso, e notorietà
più ampia, allorché con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542 papa
Paolo III istituì - alla vigilia del concilio di Trento - la
Congregazione della Romana e Universale Inquisizione, detta comunque da
allora «del Sant'Uffizio», appunto con il fine specifico di combattere
il protestantesimo e, soprattutto, le prospettive di un suo affermarsi
in quei paesi che, dopo la Riforma, erano rimasti fedeli alla Chiesa
romana. Tuttavia gli stessi pontefici prestarono sempre attenzione
affinché la congregazione non concentrasse troppo potere nelle proprie
mani a scapito della Santa Sede. La congregazione, non diversamente
dall'Inquisizione spagnola, dette importanza solo relativa alle
questioni di stregoneria: esercitò invece forte e rigoroso controllo
sulle manifestazioni ereticali, specie su quelle intellettuali. I noti
processi a Tommaso Campanella (1594-96), a Giordano Bruno (1600), a
Galileo (1632-33). I temi oggetto dell'esame inquisitoriale della
Congregazione furono anzitutto quelli connessi più strettamente alle
posizioni luterane e calviniste: la predestinazione, la salvezza solo
per fede (e senza quindi l'ausilio delle opere), la negazione del libero
arbitrio, la contestazione della validità dei sacramenti, il rifiuto
del primato pontificio, il sacerdozio universale. Solo verso la fine del
Cinquecento, quando la pressione della propaganda protestante andò
diminuendo e i paesi europei, riformati e no, si stabilizzarono sulle
posizioni garantite dai governi laici sulla base del principio cuius
regio, eius religio , la Congregazione passò ad accordare maggior
attenzione anche ai fenomeni magico-stregonici - che in Francia e
soprattutto nella Germania tanto cattolica quanto protestante venivano
perseguiti con ben altro vigore - a loro volta molto ridimensionati nel
secolo successivo. Alla conoscenza dell'operato dell'inquisizione in
Italia hanno contribuito negli ultimi decenni molti studi (a partire da
quelli di Romano Canosa e di Adriano Prosperi), alla luce dei quali si
può dire ormai superato, almeno in ambito storiografico, il pregiudizio
su un'istituzione vista come unicamente assetata di sangue, pronta a
torturare e condannare a morte in base a ogni pretesto. Sulla medesima
scia si colloca l'ottimo studio di Christopher F. Black, Storia
dell'Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura (Carocci
editore, 486 pp., 35 euro), professore di Storia d'Italia all'università
di Glasgow. Black traccia una sintesi molto dettagliata, condotta su
fonti primarie e su una ricca bibliografia.
Diffusione della Riforma
Il
libro si articola in modo logico seguendo la nascita del Sant'Uffizio,
la sua articolazione in rapporto alle realtà locali, il funzionamento
dei tribunali, il metodo degli inquisitori, gli obiettivi
dell'inquisizione attraverso una vasta pannoramica di accuse e sentenze,
la censura, il rapporto con superstizioni, magia e stregoneria. Insieme
alle panoramiche generali, non mancano gli esempi dettagliati di
singoli casi di particolare interesse. Inoltre, poiché si parla di
Italia, diverse sezioni sono dedicate a tribunali, come quelli
siciliani, che non dipendevano da Roma, bensì dall'Inquisizione
spagnola: lo stato assolutistico moderno, d'altronde, non poteva
lasciare spazio all'Inquisizione romana, sempre più considerata una
sorta d'intollerabile «stato nello stato». In teoria la Licet abi initio
disponeva l'universalità dell'azione della congregazione del
Sant'Uffizio, con la sola eccezione della Spagna. Nella realtà, le cose
andavano in modo molto diverso. Se i re di Spagna e la repubblica di
Venezia avevano istituzioni inquisitoriali proprie (sia pur molto
diverse fra loro) e in differente modo indipendenti dalla Santa Sede,
gli altri paesi cattolici stavano in vario modo elaborando a loro volta
strumenti di controllo e di repressione - o di moderata tolleranza - dei
gruppi cristiani riformati, con ciò vanificando il lavoro del
sant'Uffizio. La documentazione sull'attività del Sant'Uffizio nelle
regioni d'Italia che rientravano nella sua sfera di competenza, è
discontinua. Gli studi condotti mettono comunque in evidenza alcune
linee di tendenza che si possono considerare generali: nel corso del
Cinquecento l'attenzione degli inquisitori si rivolse soprattutto alla
persecuzione dell'eresia, e in modo particolare al contenimento della
diffusione della riforma. Questo è specialmente evidente in alcune
città, come Modena, dove l'Accademia aveva ospitato le idee della
riforma e alcuni predicatori «tradizionalisti» erano stati sbeffeggiati e
costretti alla fuga. Nel giro di circa un decennio, fra gli inizi degli
anni Quaranta e i Cinquanta, l'intervento deciso della Santa Sede e gli
appelli alle autorità civili spensero il dibattito all'interno della
città. Ma anche nel periodo successivo, così come altrove in Italia, la
guardia contro il diffondersi del luteranesimo fu vigile e permise di
ottenere risultati definitivi. Fu così che l'attenzione del Sant'Uffizio
prese a rivolgersi altrove.
Processi per stregoneria
Gli
ebrei d'Italia non subirono mai il trattamento riservato loro in Spagna
e non furono costretti alla conversione; ma certamente il controllo
sulle loro comunità si intensificò e irrigidì: in particolar modo si
prestava attenzione ai casi in cui conversioni spontanee - generalmente
ottenute per mezzo della catechesi condotta dai gesuiti - di ebrei non
fossero osteggiate da parenti e conoscenti; si indagava sulle frequenti
denunce di profanazioni compiute contro oggetti e figure sacre dei
cristiani; si esercitava un controllo sul contenuto dei testi religiosi
degli ebrei. Vi erano poi, come detto, le indagini e i processi per
accuse di magia e stregoneria. In questo ambito si deve sottolineare
come sia ormai opinione condivisa che l'Inquisizione del Sant'Uffizio si
comportò in modo più scettico e rigoroso nell'accertamento delle colpe
di quanto facevano contemporaneamente i tribunali laici e le gerarchie
ecclesiastiche locali, più facilmente inclini a cedere alle istanza
fanaticamente persecutorie espresse dalla società civile. Infine,
l'Inquisizione romana prendeva in considerazione come appartenenti
all'ambito dell'eresia comportamenti genericamente eterodossi, che
spesso vedevano intrecciarsi residui ereticali, pratiche antireligiose o
blasfeme, costumi sessuali (tanto dei laici quanto, e soprattutto, del
clero), bassa magia. Difficilmente questi processi venivano conclusi da
condanne gravi: ma era necessario che l'imputato facesse ammenda e
riconoscesse i propri errori. In generale, si può concludere con
Christopher Black che l'azione del Sant'Uffizio negli Stati italiani fu
pervasiva ed efficace nella riduzione dell'eterodossia, pur registrando
spesso forti opposizioni da parte delle autorità laiche e delle
gerarchie ecclesiastiche locali, che si vedevano sottrarre competenze e
poteri. Tuttavia proprio queste sottrazioni in molti casi, almeno dopo
l'estirpazione del seme della riforma, giocarono a vantaggio degli
imputati, consentendo loro di essere sottoposti a istruttorie e processi
duri ma rigorosi, soprattutto per quanto riguarda l'impiego della
tortura, cui Black dedic a un dettagliato paragrafo, sottratti alle
logiche localistiche che risultavano generalmente penalizzanti per i
soggetti più deboli.
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