
lunedì 4 febbraio 2013
Ancora Gramsci e il "Quaderno mancante". L'intervento di Luciano Canfora

L'UNITA' del 3/2/2013
I Quaderni di Gramsci erano trenta Parola di Tania e di Togliatti
Le lettere della cognata e del Migliore citano il testo mancante
di Luciano Canfora Corriere 4.2.13
Nello scorso giugno, discutendosi alla Biblioteca del Senato il libro
interessante ma troppo affrettato di Giuseppe Vacca su Vita e pensieri
di Antonio Gramsci, e venendo inevitabilmente in taglio la questione,
ormai sul tappeto, dell'integrità o meno del corpus dei Quaderni
gramsciani, Massimo D'Alema ebbe una felice e a suo modo illuminante
battuta: «Non me lo vedo un Togliatti che distrugge un Quaderno,
piuttosto lo conserva per un tempo successivo». Effettivamente è questo
l'atteggiamento mentale che si dovrebbe avere quando si discorre di
grandi testi che hanno costituito, di per sé e in quanto tali, un fatto
politico, e che dunque sono soggetti alle vicissitudini, ai tempi e alle
necessarie prudenze della politica. Questo vale sempre, non soltanto
nel caso di un movimento — quello comunista — che fu anche, nel bene e
nel male, una chiesa, come ha rivendicato di recente Mario Tronti
celebrando i 90 anni di Pietro Ingrao.
Le raccolte fondanti degli
scritti di coloro che sono stati, nella azione e nel pensiero,
personaggi storici decisivi hanno di necessità subìto vicende testuali
determinate dalle esigenze di chi, dopo di loro e in nome loro, ha
agito. Si potrebbe partire dalla tormentata e affascinante vicenda del
canone neotestamentario, e si potrebbe seguitare sul filo dei millenni.
Ma, per tenerci al fenomeno storico del comunismo, viene in mente la
censura esercitata da Karl Kautsky — più o meno in accordo con l'autore —
nell'atto di pubblicare l'ultimo scritto di Engels (1895). E si
potrebbe ricordare il destino testuale del cosiddetto testamento di
Lenin, che mi è accaduto di ricostruire qualche anno addietro per le
edizioni della Fondazione Corriere della Sera: testo per lunga pezza
dato per inesistente, e perciò ritenuto inesistente dalla massa dei
militanti (ma non dalla élite dirigente) e alla fine sfoderato con
clamore e distorsioni interpretative nel corso del kruscioviano XX
Congresso del Pcus (1956) e solo allora finalmente inserito nelle opere
complete di Lenin (da Mosca alle parigine Editions sociales, ai
romaneschi Editori Riuniti). E quanto a opere complete si potrebbe
largamente esemplificarne la intenzionale incompletezza — quando
l'autore non sia un poeta parnassiano, ma un politico che ha fatto
storia — dovuta a ragioni tutte politiche: le quali vanno capite e
giudicate non col metro dello scandalo, ma della intelligenza storica.
Si pensi alle lacune nella edizione nazionale di Mazzini.
Non paia
troppo irenico questo modo di vedere le cose. Nel fuoco dello scontro
diviene comprensibile tanto l'occultamento, nelle opere «complete» di
Gramsci, della lettera sua al Partito comunista russo (ottobre 1926),
culminante nel profetico giudizio «state distruggendo l'opera vostra»,
quanto la volontà di tirarla fuori, quella cruciale lettera, da parte di
chi non accettava più o riteneva ormai anacronistica la voluta
rimozione di quel testo. Siffatte opposte volontà non si manifestano
quasi mai in garbata successione diacronica, ma, più spesso, scendono in
lotta l'una contro l'altra. E posso capire quanto sia stata e sia
tuttora disagevole la posizione di chi difende la storia sacra di
partito fino ad essere superato dalla ricerca scientifica, ostinandosi
in tale atteggiamento anche quando si è smarrito l'oggetto cui quella
storia si riferiva.
È questo il caso che si è venuto sviluppando
intorno al primo e soprattutto al secondo saggio che Franco Lo Piparo ha
dedicato alla storia del testo dei Quaderni di Gramsci. Il merito
principale del recentissimo saggio L'enigma del Quaderno (Donzelli) è di
aver finalmente avviato il lavoro che si doveva fare da tempo: mettere
in ordine e vagliare le fonti riguardanti la consistenza di
quell'importante corpus. Nello svolgere tale meritorio lavoro, di cui
certamente gli editori premurosi del corpus gli saranno grati, egli si è
imbattuto in fenomeni che meritavano di essere posti in luce. Un
esempio tra tanti è la traduzione di una frase che è anche la prima
attestazione sulla consistenza del corpus. Si tratta di una lettera in
lingua russa di Tania Schucht, prima tutrice del lascito gramsciano,
alla famiglia a Mosca, scritta appena 28 giorni dopo la morte di
Gramsci. Ora sappiamo che Tania scrisse: «i Quaderni di Antonio sono in
tutto XXX (scritto così) pezzi (XXX štuk)». La traduzione adoperata dal
Vacca suonava strambamente: «i Quaderni di Antonio saranno una
trentina»! Che dunque i Quaderni, a parte i 4 di traduzioni, fossero
esattamente 30 e non 29 come nell'edizione Gerratana, resta ormai
assodato. E mette conto osservare che il dato è confermato da Togliatti
stesso in una lettera a Manuilskij scritta due settimane più tardi, l'11
giugno '37: «Esistono 30 quaderni da lui scritti, che contengono una
rappresentazione materialistica della storia d'Italia» (definizione
acuta e pertinente, che ovviamente non riguarda i 4 quaderni di
traduzioni dalle fiabe dei fratelli Grimm o da un trattato di
linguistica).
Da quel momento in avanti si oscilla, nelle fonti
sinora disponibili, tra 30, 32 e 34 Quaderni (mai 33 quanti sono quelli
fin qui noti). E dunque ci sarà pure un problema — che in filologia si
chiama la recensio dei testimoni conservati o perduti — per gli studiosi
che da tempo si affannano su questi testi. Problema che non si risolve
(come fece tempo addietro Guido Liguori, l'autore del Gramsci conteso)
invocando il turbamento in cui versava l'animo di Togliatti, quando
disse e scrisse che i Quaderni erano 34, perché due giorni prima era
stato fucilato Mussolini.
Non è il caso di addentrarsi qui
ulteriormente nella trama sottile dei riferimenti che lo studio di Lo
Piparo raccoglie e mette a frutto, lontano ormai dalle escursioni
ideologiche che disturbavano il precedente suo saggio. Spiace invece
osservare che, in un momento di malumore, il Vacca, prima ancora di aver
letto il volume, abbia definito le nuove acquisizioni documentali che
stanno emergendo in questo e in altri ambiti delle ricerche: «ossicini
di Cuvier» (piccoli indizi da cui si traggono grandi ricostruzioni). C'è
da augurarsi invece che, al di là delle inevitabili effervescenze della
prima ora (intervista a Simonetta Fiori, «la Repubblica», 2 febbraio),
anche questo nuovo studio rallegri il lavoro dell'officina gramsciana
tuttora all'opera, cui è da augurare serenità e filologico progresso.
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