sabato 30 marzo 2013

Arriva il film di von Trotta su Hannah Arendt, santa dell'Occidente giudaico-cristiano e vincitrice della Guerra Fredda


Hannah Arendt (2012) PosterLeggi anche qui


Arendt, quella scandalosa verità

La filosofa parlò di «banalità del male» e finì nel mirino degli «ortodossi»

di Pierluigi Battista 


La ingiuriarono nei modi più orribili: «donna senza cuore», traditrice che aveva «disertato l'ebraismo» e che addirittura aveva «calunniato le vittime e scagionato la Gestapo e le SS». Qualcuno, in Germania, fece finta di sbagliarsi e la chiamò «signora Hannah Eichmann». Perfino la sua storia segreta con Martin Heidegger divenne un capo d'accusa. Per colpa delle sue «relazioni private», sostennero gli inquisitori le cui gesta sono state ricordate in un libro dello scomparso Joachim Fest, lei, l'ebrea scappata dalla Germania in mano alle camicie brune, avrebbe «attenuato la responsabilità del boia delle SS soprattutto per distrarre l'attenzione dalle simpatie per il nazismo del suo maestro» che nel 1933, nel celebre discorso all'Università di Friburgo, fece coincidere il destino tedesco con la necessaria e incondizionata sottomissione agli ordini del nuovo Fuhrer.
Ecco a che punto di furore arrivò la polemica contro Hannah Arendt, che nel 1963 aveva dato alle stampe il suo resoconto del processo di Gerusalemme ad Adolf Eichmann, incarnazione di quel mediocre ma smisurato orrore che l'autrice definì incautamente «la banalità del male»: la polemica che è al centro del nuovo film di Margarethe von Trotta che porta nel titolo il nome della filosofa tedesca.
La Arendt andò al processo di Gerusalemme non condividendo affatto il valore catartico che la classe dirigente israeliana, Ben Gurion in testa, aveva associato prima alla cattura di Eichmann e poi al tribunale che lo avrebbe giudicato. Ben Gurion rivendicava il diritto di Israele a portare nei suoi tribunali un uomo coinvolto ai massimi livelli nella macchina dello sterminio degli ebrei. E a chi obiettava sulla legittimità dello Stato di Israele di giudicare un uomo che non era un suo cittadino, Ben Gurion rispondeva che invece solo lo Stato di Israele avrebbe potuto giudicarlo, perché era finita l'epoca dell'ebreo mansueto che non reagisce, che si lascia portare alla morte docilmente «come agnelli al macello», ma era nata l'epoca del sogno sionista realizzato in cui gli ebrei si sarebbero sentiti al sicuro, colmi d'orgoglio e di consapevolezza di sé. Perciò la condanna di Eichmann avrebbe dovuto essere simbolicamente il punto di svolta, il «mai più» solennemente proclamato a Gerusalemme, come perenne monito per i nemici degli ebrei.
Ma era proprio questo progetto a non essere condiviso dalla Arendt. La quale subito, sin dalle pagine iniziali dei saggi apparsi prima sul «New Yorker» e poi confluiti nel libro «Eichmann in Jerusalem», contestò la scenografia di un dramma in cui Ben Gurion era «il regista invisibile».
Il suo punto di vista venne articolato con un'argomentazione molto severa nei confronti di tutto il processo e con una sottolineatura molto marcata del ruolo ambiguo, e talvolta complice, che i «Consigli ebraici», nel tentativo di minimizzare la portata dello sterminio e nell'illusione di mitigare o almeno contenere la violenza omicida dei nazisti, si trovarono a recitare, infliggendo una ferita terribile al popolo ebraico, regalando al carnefice una stampella nel corso di un massacro atroce. Fu questa sottolineatura, e non, come spesso in seguito si dirà, la nozione di «banalità del male», a scatenare una veemenza polemica contro la Arendt che una sua amica, Mary McCarthy, non esitò a definire pari a quella di un pogrom (come si evince nella bellissima corrispondenza Tra amiche, pubblicata in Italia da Sellerio). Una spirale atroce di accuse che spaccò l'opinione pubblica e il mondo ebraico.
Si cominciò proprio dalle colonne della «Partisan Review», la rivista di cui la Arendt era pilastro e figura centrale, dove Lionel Abel scrisse una recensione feroce in cui, sostanzialmente, si sosteneva che l'autrice del reportage da Gerusalemme aveva reso Eichmann «esteticamente accettabile» e gli ebrei «esteticamente ripugnanti». Come scrisse proprio la Arendt all'amica McCarthy (che di lì a poco sarebbe stata sottoposta anche lei a un'«inquisizione» laica, capeggiata da Norman Mailer, che aveva preso come bersaglio il romanzo Il gruppo): «ho appena saputo che la Anti-Defamation League ha inviato una circolare a tutti i rabbini perché facciano prediche contro di me il giorno dell'Anno Nuovo». Interdetta dalla ferocia inusitata delle critiche che le piovevano addosso, la Arendt osservò che però la «critica è rivolta a un'"immagine" e quest'immagine è stata sostituita al libro che ho scritto».
Ma il tono si faceva sempre più aspro. Jacob Robinson, uno dei tre assistenti della pubblica accusa nel processo Eichmann, scrisse sulla rivista «Facts»: «Per anni i nostri nemici hanno condotto una campagna che è consistita nel passare la spugna sui rei e nell'incolpare le vittime. Queste ultime, dopo essere state brutalmente assassinate, vengono ora messe a morte una seconda volta dai profanatori. Fra questi nemici si è schierata Hannah Arendt».
Le argomentazioni della Arendt vennero così addirittura equiparate alle gesta ripugnanti degli aguzzini. Gli amici anche più cari della Arendt, da Hans Jonas a Gershom Scholem, si unirono al coro dei rimproveri. A sua difesa la filosofa ebbe solo la stessa McCarthy e Raul Hilberg, lo storico che per primo aveva affrontato con una documentazione meticolosa la portata della Shoah in un libro che però aveva scatenato polemiche di violenza appena minore di quelle suscitate dal caso Eichmann. La paura di Israele, la minaccia mai definitivamente allontanata di un antisemitismo che proprio in quegli anni riceveva un nuovo, avvelenato impulso da un antisionismo virulento e fortemente ostile nei confronti degli ebrei, tutto questo contribuì a saturare di sostanze tossiche una discussione partita male e realizzata nei modi peggiori.
Hannah Arendt non meritava la crudeltà anche personale di certe critiche: meritava invece di essere criticata nel merito e argomento contro argomento. Prevalsero invece l'anatema e l'insulto. Una brutta pagina nella storia culturale del Novecento.

Il film di Margarethe von Trotta «Hannah Arendt», con Barbara Sukowa, Axel Milberg e Janet McTeer è uscito l'anno scorso in Germania, ed è una rimeditazione sul modo in cui la filosofa elaborò le sue tesi su Eichmann. L'uscita della pellicola in Italia è prevista per il prossimo autunno 

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