domenica 17 marzo 2013
Ascesa dell'Asia e persistenza degli stereotipi cultura-nazionali, più che altro
Il ruggito del prof. Tigre
Ascesa
dell'Asia e pedagogia: quella occidentale cerca l'interpretazione del
mondo, quella orientale insegue moralità e bene della società Per la studiosa Jin Li la sintesi è impossibile
di Marco Del Corona Corriere La Lettura 17.3.13
L'Occidente
— un Occidente di madri, padri e pedagoghi — ha appena cominciato a
fare i conti con l'agonismo educativo della Mamma Tigre e già si
affaccia, nella giungla delle ansie contemporanee, un'altra, non meno
minacciosa figura. Arriva il Maestro Tigre, corollario persino ovvio
della Mamma Tigre, incarnazione della stessa tradizione educativa: il
mondo culturale e antropologico del confucianesimo che l'universo
globalizzato avvicina a noi. Passaggio inevitabile. E i flussi di
studenti dalla Cina agli atenei Usa, australiani, canadesi, europei
danno slancio ai confronti tra due tradizioni e sistemi educativi che
appaiono alternativi e/o difficilmente compatibili. Nuova Kulturkampf.
Il
Maestro Tigre può essere il simbolo un po' caricaturale di una
pedagogia confuciana che va guardata in faccia. È tra noi. E occorre
prendere atto anche del fascino che esercita la solidità della
tradizione dell'Asia orientale, come dimostra l'osservazione affidata al
«New York Times» dall'editorialista David Brooks: «Le culture che
fondono accademia e morale, come il confucianesimo e lo studio ebraico
della Torah, producono pazzesche esplosioni motivazionali…». Esplosioni
che noi, Occidente decadente, non sappiamo forse più provocare. Così
Brooks si spinge ad auspicare che «altri codici morali/accademici
possano esaltare la motivazione là dov'è assente». Ciò che è quasi
certo, intanto, è che la contaminazione fra il sistema educativo
occidentale, che affonda le sue radici nella Grecia antica, e quello
dell'Asia orientale difficilmente possono ibridarsi. Jin Li, studiosa
americana di origine cinese, ne è convinta e al tema ha dedicato un
ponderoso volume, Cultural Foundations of Learning, nel quale scrive che
«le tradizioni intellettuali delle due culture si sono sviluppate sulla
base di interessi e premesse diverse. Non è ancora successo, ed è
improbabile che succeda in un prevedibile futuro, che le tradizioni
intellettuali delle due culture si intersechino o si mescolino».
Il
libro di Li, docente associata alla Brown University, in Rhode Island,
ha evidentemente colpito nervi scoperti. «Tratta — spiega a "la Lettura"
— essenzialmente di influenze culturali. La mia ricerca e quelle di
altri mostrano come i cinesi, ovunque nel mondo, restano attaccati ai
loro valori che consentono di ottenere risultati eccellenti
nell'apprendimento. E la cultura trascende il sistema politico, in
quanto abbraccia popolazioni e Paesi che non sono Cina». Ecco perché le
implicazioni dei meccanismi pedagogici asiatici ci riguardano.
Le
differenze tra noi e loro, nelle aule così come nelle aspirazioni dei
genitori-educatori, maturano all'origine. «L'approccio occidentale
all'apprendimento — ci dice Li — enfatizza la comprensione del mondo là
fuori; la certezza della conoscenza; lo sviluppo e l'uso della mente;
curiosità e interesse come strumenti d'indagine; l'espressione del sé.
L'attitudine dell'Asia orientale sottolinea al contrario la necessità di
perfezionare se stessi rispetto a società e moralità; il contributo
alla società stessa; l'acquisizione e, come dire?, l'incorporazione
delle virtù dell'apprendimento (sincerità, diligenza, sopportazione,
perseveranza, concentrazione); l'apprendimento attraverso l'umiltà e il
rispetto dei maestri; poche parole e molti fatti, insomma».
Mentre
nella tradizione confuciana un insegnante è dunque una sorta di
«genitore che non solo trasmette nozioni ma costruisce il benessere
sociale, morale e psicologico del ragazzo», e quindi è «idealmente un
modello», in Occidente — aggiunge la professoressa Li — «il ruolo del
docente si riduce al fatto che insegni quella determinata materia. Ci
sono chiari limiti tra cosa il maestro è pagato per fare e cosa no. Per
dire: qui in America il sindacato non permette che un docente lavori
oltre i termini contrattuali. In Asia orientale il maestro gode invece
di un credito e di un rispetto molto maggiori». Il maestro orientale è
dunque un Maestro Tigre, la cui severità non conosce i confini tra
nozioni e vita? Jin Li non sposa la definizione di «Maestro Tigre»:
traccia piuttosto, a sua volta, una barriera. La barriera tra normalità
ed eccessi: «In Asia orientale — dice — c'è una distinzione fra maestri
esigenti e maestri irrispettosi o troppo severi. I primi sono coloro che
si mostrano investiti del loro compito davanti alla società: esigenti,
appunto, nei confronti degli allievi. E questo è quanto viene
riconosciuto sia dai genitori sia dagli alunni, nello sforzo concertato
di garantire un certo livello educativo. All'opposto, insegnanti
irrispettosi o troppo severi non sanno prendersi cura dei ragazzi, sono
irresponsabili, incompetenti. Genitori e comunità vigilano, pronti a
sbarazzarsene».
Noi rimaniamo turbati dall'invadenza del ruolo che
una società confuciana consegna ai maestri. La presenza del limite ci
soccorre. In Cina, a Taiwan, nell'immensa diaspora cinese, in Giappone e
in Corea del Sud — quest'ultima tenace potenza che tenta ciclicamente
di attribuirsi il copyright di Confucio, sostenendo che fosse di sangue
coreano — scuola e vita si mescolano. «È per il ruolo che famiglia e
religione conservano nell'educazione dei figli che in Occidente gli
insegnanti non hanno la stessa rilevanza che si osserva in Oriente. Lì è
diverso. Nell'antica Cina la gerarchia del potere e dell'autorità
vedeva prima il Tian, impropriamente tradotto come Cielo, giudice morale
e signore delle diverse forme di vita; quindi la Terra, che alimenta i
viventi; poi l'Imperatore che governa, protegge e si prende cura del
popolo; i genitori; e gli insegnanti, che devono trasmettere la morale,
in questo simili al clero cristiano».
Si tratta di due universi
distanti, con orbite che si sono incrociate. Asimmetricamente, però.
«L'Asia orientale ha cercato di imparare dall'Occidente per circa due
secoli. E ha ottenuto un discreto successo con la scienza, la
tecnologia, il commercio, la democrazia nel senso originario del
termine. In Asia orientale ovunque si fanno matematica, scienze e
inglese. Ma ci sono cose nelle quali gli asiatici è improbabile possano
farcela: intendo la capacità di confronto con l'autorità, di pensare in
modo anticonvenzionale, di creare in modo radicale, in pratica di
produrre un Galileo, un Newton, un Einstein o uno Steve Jobs. I sistemi
di relazioni familiari e interpersonali crollerebbero se i figli
dell'Asia si comportassero all'occidentale». L'Oriente ha attinto
all'Occidente, non viceversa, o non abbastanza. Passata attraverso la
Rivoluzione Culturale, studi in Germania, sposata a un americano,
carriera cominciata a Harvard, madre di un ragazzo che definisce «misto»
perché «cresciuto secondo i due sistemi», Jin Li riconosce che «in
Europa e in America si studiano cinese, arti marziali, cose così, ma non
vedo alcuna seria combinazione tra le due visioni. Gli scienziati
asiatici, compreso chi ha vissuto in Occidente, nella vita quotidiana
tende ancora a pensare dialetticamente da taoista». Il Maestro Tigre è
qui. Ma non c'è fretta di conoscerci.
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