domenica 17 marzo 2013
Un demenziale dibattito sul modestissimo libro di Parsi al Corriere. Essere destri anche quando si è costretti a riconoscere le ragioni dell'uguaglianza
L'esplosione delle disparità sociali mina la qualità della democrazia
di Antonio Polito Corriere La Lettura 17.3.13
La
lamentazione è corale, e globale. Ormai anche i sassi sanno della Fine
dell'uguaglianza, per dirla con il titolo di un libro di Vittorio
Emanuele Parsi, fortunatamente meno apodittico del titolo (Mondadori).
Democrazia e mercato non vanno più d'accordo, hanno perso «la
consapevolezza che, privati ognuno del sostegno dell'altro, possano
essere travolti dai loro stessi difetti», «i dati che ci parlano della
continua flessione dei consumi, dell'erosione del ceto medio, della
polarizzazione dei redditi e della crescita della diseguaglianza
dovrebbero dunque inquietarci innanzitutto dal punto di vista politico».
Viene in discussione — scrive Parsi — il principio stesso della
Rivoluzione americana, trascritto nella Dichiarazione d'indipendenza:
«Tutti gli uomini sono stati creati uguali».
Secondo Nadia Urbinati
questa crisi dell'uguaglianza potrebbe innescare, e forse già ha
innescato, una Mutazione antiegualitaria, come la chiama nel
libro-intervista con Arturo Zampaglione (Laterza); potenziale inizio di
un cambio di paradigma che può mettere le nostre idee di libertà in
conflitto con la democrazia. «La crescita delle diseguaglianze e la
de-solidarizzazione dei ricchi in una economia globalizzata — ha scritto
Chiara Saraceno a proposito del libro — rischiano di far cadere il
fragile equilibrio tra libertà, solidarietà e uguaglianza dei diversi su
cui si è retta la democrazia occidentale». E qui a tremare è la triade
della Rivoluzione francese.
Brutte notizie, dunque; soprattutto per
chi, come Biagio de Giovanni nel suo Alle origini della democrazia di
massa (Editoriale Scientifica), pensa che l'uomo sia un «ente
desiderante eguaglianza». Adesso poi è arrivata anche da noi, tradotta
da Einaudi, la Bibbia del movimento intellettuale che rimpiange
l'uguaglianza perduta, diventata il pensiero egemone (si potrebbe dire
il «pensiero unico») dopo l'esplosione della crisi che attanaglia
l'Occidente dal 2008. Con Il prezzo della disuguaglianza Joseph
Stiglitz, Nobel per l'Economia, è uscito dai confini della sua «triste
scienza» per acquisire il ruolo di un vero e proprio guru della rivolta
contro neo-liberismo e mercatismo. A tutela del copyright, Stiglitz ci
tiene a ricordare che lo slogan dei ragazzi di Occupy Wall Street, «Noi
siamo il 99%», nasce da un suo articolo su «Vanity Fair» con il titolo
«Dell'1%, dall'1%, per l'1%». Che poi era una raffinata e polemica
parodia di un topos della democrazia americana, visto che faceva il
verso al celebre discorso di Gettysburg in cui Abraham Lincoln definì la
democrazia come «il governo del popolo, dal popolo, per il popolo».
L'uno
per cento degli straricchi avrebbe dunque usurpato il potere del
popolo; il privilegio si sarebbe preso una rivincita nei confronti
dell'uguaglianza. Si capisce che Stiglitz sia diventato l'oggetto dei
desideri di Beppe Grillo, che gli ha pubblicamente attribuito il suo
programma economico (ottenendone una imbarazzata presa di distanza).
Stiglitz
argomenta da par suo una realtà difficilmente confutabile: negli ultimi
trent'anni le disuguaglianze di reddito sono aumentate in quasi tutto
l'Occidente. Nel 2010 il famoso 1% al top della popolazione americana ha
intascato il 93% dell'aumento del reddito generato. L'America sarebbe
dunque diventata «non il Paese della giustizia per tutti, ma piuttosto
il Paese del favoritismo per i ricchi e della giustizia per chi può
permettersela», rinnegando così quel sogno di uguaglianza delle
opportunità invocato da Obama nel discorso di inaugurazione del suo
secondo mandato: «Noi teniamo fede a ciò in cui crediamo: solo quando
una bambina nata nella più cupa povertà sa di avere la stessa
possibilità di successo di chiunque altro, perché è americana, è libera,
è eguale, non solo agli occhi di Dio ma anche ai nostri».
Ma anche
agli argomenti forti si può muovere — e viene mossa — qualche obiezione.
La prima è che se la diseguaglianza è aumentata negli ultimi trent'anni
all'interno delle nazioni ricche, si è certamente ridotta tra nazioni
ricche e nazioni povere; la seconda è che se è cresciuta rispetto ai
«gloriosi Trenta» anni del dopoguerra, dal 1950 al 1980, non è maggiore
che in ogni altra epoca della storia del capitalismo; la terza è che la
diseguaglianza non è una conseguenza diretta del mercato, visto che è
cresciuta a dismisura anche in società che rifiutavano il mercato in
nome dell'uguaglianza; la quarta — proposta da Alberto Mingardi nel suo
L'intelligenza del denaro (Marsilio) — è che per misurare l'uguaglianza
«non possiamo fermarci al reddito e non pensare a quello che il reddito
può comprare», perché «i poveri di oggi possono sembrarci molto più
poveri dei ricchi di oggi, ma sono strepitosamente più ricchi dei poveri
di ieri, e forse anche dei ricchi dell'altro ieri».
Più delle
obiezioni, è però interessante discutere i paradossi che accompagnano
questa polemica. Il primo l'ha segnalato l'«Economist»: le
diseguaglianze in Occidente sono in crescita da trent'anni, ma fino alla
crisi del 2008 nessuno sembrava preoccuparsene, nessuno protestava
nelle strade, e i politici non lo consideravano un problema. Finché
tutti diventavano rapidamente più ricchi, nessuno si lamentava se
qualcun altro si arricchiva ancor più rapidamente. L'ineguaglianza è
sentita come un'ingiustizia solo quando la crisi morde, come in Usa, o
l'austerità arriva, come in Europa. Ma se è così, vuol dire che il
problema non è la diseguaglianza, bensì la mancata crescita, e la
prospettiva cambia radicalmente: invece di più redistribuzione, che si
può chiedere allo Stato, serve più creazione di lavoro, che può dare
solo il mercato. E l'offensiva dei neo-keynesiani finisce in un
cul-de-sac (lo stesso Stiglitz ammette che lo «stimolo fiscale» di Obama
del 2009 non ha dato i risultati sperati, ma ne attribuisce la colpa al
modo in cui è stato concepito e alla carenza di risorse investite).
C'è
però un secondo paradosso, forse ancora più intrigante. L'aggravarsi
delle diseguaglianze non ha infatti prodotto in Europa, forse con la
sola eccezione della Grecia, uno spostamento a sinistra dell'opinione
pubblica, l'affermarsi cioè di forze che basino il loro programma su
politiche redistributive più o meno socialiste. Piuttosto il contrario.
L'ansia e il disagio hanno favorito la nascita di movimenti di genere
del tutto nuovo e spesso tutt'altro che di sinistra. Ian Buruma ha
stilato un catalogo di questo nuovo radicalismo: «I blogger cinesi, gli
attivisti del Tea Party negli Usa, gli eurofobici britannici, gli
islamisti egiziani, i populisti olandesi, i sostenitori dell'estrema
destra in Grecia e le "camicie rosse" thailandesi sono tutti accomunati
dall'odio per lo status quo e dal disprezzo per le élite dei loro
rispettivi Paesi» (si potrebbero aggiungere i vincitori del referendum
in Svizzera contro i fat cats, i manager delle multinazionali; i
fondatori del partito tedesco contro la moneta unica; l'estrema destra
razzista in Ungheria).
Prendiamo il fenomeno Grillo in Italia. La sua
ossessione è più per l'uguaglianza civile che per quella sociale; il
suo messaggio riguarda più il funzionamento della democrazia che quello
del mercato; l'egualitarismo che propugna è cercato nella Rete, non
atteso dallo Stato. Lo slogan «uno vale uno» si riferisce alla
distribuzione del potere, non a quella del reddito. Riscopre la parola
«cittadino» invece dell'appellativo «compagno».
Il denominatore
comune di questa insorgenza non sembra dunque essere il ritorno a una
classica politica egualitaria di stampo socialdemocratico. Più che a
correggere il mercato, ambisce a una rigenerazione della democrazia. Se
le cose stanno così, si capovolge però la vulgata secondo cui un mercato
malato sta infettando la democrazia; e non basta più una Tobin Tax o
una stretta sui derivati per ripristinare la virtù del canone
occidentale.
In effetti anche una lettura attenta di Stiglitz può
mettere in guardia dalle semplificazioni. Egli resta infatti convinto
che un mercato libero e competitivo produca grandi benefici alla
società; è col processo politico che se la prende. Per lui
l'ineguaglianza è il risultato di politiche pubbliche sbagliate,
catturate da un'élite che le piega al proprio vantaggio. Molti dei nuovi
ricchi contro i quali si scaglia non sono imprenditori, ma cacciatori
di rendite (rent seekers), che sfruttano i privilegi monopolistici
concessi loro dal potere politico.
Tornano in mente quei robber
barons contro cui combatté la sua battaglia antitrust un grande
presidente americano dell'inizio del Novecento: Theodore Roosevelt. La
sua unità di misura della ineguaglianza era forse più moderna di molte
caricature che sono oggi di moda: diceva che bisogna ridurre la distanza
tra coloro che guadagnano più di quanto possiedono e coloro che
possiedono più di quanto guadagnano. Perché la diseguaglianza di reddito
è accettabile e giustificata, ma quella che deriva dalla rendita è
dannosa, oltre che odiosa.
L'ineguaglianza è dunque un fenomeno
complesso, e non si lascia facilmente manipolare. «Nonostante ciò che in
molti pensano a sinistra — ha scritto Jerry Muller sull'ultimo numero
di "Foreign Affairs", che ha dedicato la copertina al tema — non è il
risultato della politica ed è improbabile che si possa curare con la
politica, perché è un inevitabile prodotto dell'attività capitalistica;
ma, a dispetto di ciò che molti pensano a destra, è un problema per
tutti, non solo per quelli che se la passano male, perché ineguaglianza
crescente e insicurezza economica possono erodere l'ordine sociale e
generare un contraccolpo populista contro il sistema capitalistico nel
suo complesso».
«Ci sono momenti nella storia — scrive Stiglitz — in
cui la gente in tutto il mondo si alza in piedi per dire che qualcosa è
sbagliato». Che questo sia uno di quei momenti non c'è dubbio. Sarebbe
bene però mettersi d'accordo su che cosa è sbagliato.
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