lunedì 4 marzo 2013

Gli americani e l'uso ad minchiam dell'analogia storica

Se scoppia la guerra fra Tokyo e Pechino chiedete il perché a Tucidide e Hobbes
Fantasy-fantascienza così la Cina ci sfida

Lo storico greco e il filosofo inglese insegnano che i focolai di tensione riconosciuti sono in realtà solo pretesti per nascondere cause più profonde

di Robert D. Kaplan Corriere La Lettura 3.3.13


Se Erodoto è il padre della storia, Tucidide è il padre del realismo. Per capire le ragioni geopolitiche dei conflitti del XXI secolo, bisogna tornare agli antichi greci. Tra i tanti insegnamenti che si possono trarre dalla Guerra del Peloponneso di Tucidide, c'è quello per cui ciò che dà inizio a una guerra è diverso da ciò che la provoca.
Tucidide racconta che la guerra del Peloponneso scoppiò, nella seconda metà del V secolo a.C., per la contesa sull'isola di Corcira nella Grecia nordoccidentale e su Potidea nella Grecia nordorientale. Non erano luoghi di particolare importanza strategica ma, se si pensa che le guerre siano causate dall'importanza di un luogo, non si è messa a frutto la lezione di Tucidide. Corcira e Potidea diedero inizio alla guerra, ma non ne furono la causa. Quel che la provocò, scrive Tucidide nel primo degli otto libri della sua opera, fu l'allarme che si diffuse, a Sparta e tra i suoi alleati, per la sensazione che la potenza navale di Atene stesse aumentando. Luoghi come Corcira e Potidea, e i complessi sistemi di alleanze che rappresentavano, non costituivano di per sé validi motivi per una guerra, che tra l'altro sarebbe durata più di un quarto di secolo. Non avevano importanza. Erano solo pretesti.
Nessuno capì questa distinzione — che Tucidide fu forse il primo a sottolineare — meglio del più illustre traduttore di Tucidide, il filosofo inglese del XVII secolo Thomas Hobbes. Hobbes scrive che nel caso di una guerra per un luogo privo di importanza il pretesto «è sempre un affronto subito, o che si sostiene di aver subìto». Mentre «il motivo reale che spinge alle ostilità può essere solo ipotizzato, non dimostrato». In altre parole, lo storico e il giornalista potrebbero aver difficoltà a trovare documenti che spieghino le ragioni per cui gli Stati entrano in guerra. Devono quindi spesso affidarsi a deduzioni basate sul quadro degli eventi, e in molti casi sono comunque costretti a fare congetture.
Applicando la saggezza di Tucidide e Hobbes alle aree di conflitto presenti in Asia, si comprendono molte cose. Il conflitto del mar Cinese Meridionale, ad esempio. Qui le caratteristiche dei luoghi sono significative, perché in quelle acque vi sono ingenti giacimenti di greggio e di gas. Inoltre il mar Cinese Meridionale è una via di comunicazione marittima di vitale importanza, verso l'Oceano Indiano da una parte e il mar Cinese Orientale e il mar del Giappone dall'altra. È quindi una delle grandi linee di transito per gli interessi energetici del mondo. Supponiamo però che qualcuno volesse trascurare questi fattori e pensare che quei lembi di terra in mezzo al mare non siano così importanti da scatenare una guerra. Tucidide e Hobbes lo smentirebbero. Direbbero che è la percezione di un aumento della potenza marittima cinese — e la preoccupazione che suscita tra gli alleati degli americani — a essere la vera causa di un possibile conflitto nel prossimo decennio. Le caratteristiche del mar Cinese Meridionale, per quanto significative, non sarebbero che il pretesto. Nessuno, in realtà, ammetterebbe di voler provocare un conflitto per contrastare la crescente potenza navale cinese. È più probabile che ci si appellerebbe a una qualche violazione della sovranità marittima in un qualche isolotto. Tutto il resto dovrebbe essere oggetto di ipotesi.
Lo stesso vale per il conflitto tra Cina e Giappone a proposito delle isole Senkaku/Diaoyu nel mar Cinese Orientale. Anche se si argomenta che sono isole poco significative, non è questo il punto. La disputa su questi isolotti è infatti un pretesto dietro il quale si cela la preoccupazione giapponese per l'aumento della potenza navale cinese; timore che spinge il Giappone a uscire dal suo guscio quasi pacifista e a fargli riscoprire il nazionalismo e la potenza militare. (La crescita della potenza navale cinese non significa che la Cina sia in grado di affrontare la marina Usa in una battaglia navale. Vuol solo dire che la Cina potrebbe utilizzare le navi da guerra, assieme alla pressione economica e diplomatica e all'orchestrazione di proteste interne, per una serie di «colpi combinati» volti a indebolire i rivali, giapponesi e di altri Paesi asiatici).
C'è poi la Corea del Nord. Con un prodotto interno lordo simile a quello della Lettonia o del Turkmenistan, potrebbe essere considerata un'altra area di scarso valore. Le cose stanno però in altro modo. La penisola coreana, che si protende dalla Manciuria, controlla tutto il traffico marittimo della Cina nordorientale e delimita il mare di Bohai, i cui fondali contengono la più grande riserva di petrolio della Repubblica Popolare. La Cina, come ho scritto altrove, cerca di avere il controllo economico nella regione del fiume Tumen — dove Cina, Corea del Nord e Russia si incrociano — grazie alla costruzione di grandi impianti portuali di fronte al Giappone. Il destino della metà settentrionale della penisola coreana contribuirà quindi a determinare i rapporti di potere in tutta l'Asia nord-orientale. Naturalmente tutto questo, come avrebbero detto Tucidide e Hobbes, deve essere dedotto, ipotizzato. Il comportamento imprevedibile della Corea del Nord potrebbe dare inizio a un conflitto, ma le cause risiederebbero probabilmente altrove.
L'India e la Cina hanno collocato dei sistemi per rilevare intrusioni nella regione dell'Himalaya, che qualcuno potrebbe ritenere una regione poco importante. Ma questi sistemi assumono un altro significato nel momento in cui l'India sposta parte delle sue risorse difensive dal Pakistan per schierarle verso la Cina. Lo fa perché il progresso tecnologico ha creato una nuova e claustrofobica area strategica che unisce l'India e la Cina, con navi da guerra, aerei da combattimento e satelliti che consentono a ciascuno dei contendenti di violare lo spazio di manovra altrui. Se tra questi due colossi demografici ed economici dovesse mai scoppiare un conflitto, nascerebbe probabilmente da queste profonde motivazioni geografiche e tecnologiche, e non dai motivi che verrebbero dichiarati.
Per quanto riguarda l'India e il Pakistan, ricordo che, trovandomi anni fa a Peshawar con un gruppo di giornalisti, leggevo di truppe pakistane e indiane che si affrontavano in Kashmir sul ghiacciaio Siachen, un territorio così elevato che i soldati dovevano indossare maschere di ossigeno. Poteva valer la pena di combattere per una zona del genere? Anche in quel caso, le rivendicazioni ufficiali erano solo il sintomo di una più sostanziale disputa sulla legittimità stessa di quegli Stati, che aveva origine dalla divisione del subcontinente avvenuta nel 1947.
Infine Israele. Che teme per la propria sopravvivenza qualora l'Iran si doti di un'arma nucleare. Questo è un caso in cui l'inizio di un conflitto (da parte degli Stati Uniti, che agirebbero per conto di Israele) può ampiamente coincidere con la sua causa. Israele ha però altri timori, meno frequentemente espressi. Per esempio, un Iran nucleare renderebbe più pericolosa qualsiasi crisi tra Israele e Hezbollah libanese, Israele e Hamas di Gaza, Israele e palestinesi in Cisgiordania. Israele non può accettare un simile incremento della potenza iraniana. Questa sarebbe probabilmente la vera causa di un conflitto, se Israele riuscisse a trascinare gli Stati Uniti in una guerra con l'Iran. In questi e in altri casi, Tucidide e Hobbes ci insegnano che di una crisi bisogna prendere in considerazione quel che non viene detto esplicitamente, quel che può solo essere dedotto. L'efficacia di un'analisi sta nel ragionare con calma, non nel limitarsi a riportare le dichiarazioni ufficiali. Quel che dà inizio a un conflitto è pubblico, e quindi molto meno interessante — e meno cruciale — delle vere cause, che spesso pubbliche non sono.

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