Zygmunt Bauman, uno dei più grandi pensatori viventi, già nel 1989, con Modernità e olocausto, aveva riletto le atrocità del Terzo Reich sovvertendo l’opinione comune che si fosse trattato un «incidente» della Storia e dimostrando che invece la «società dei giardinieri» della modernità aveva raggiunto con l’olocausto il suo risultato più esemplare. In questo libro Bauman compie un ulteriore decisivo passo avanti nell’identificazione del «male» ai giorni nostri. E lo fa con una ricognizione delle tesi fallaci che si erano affermate nel Novecento (dalla «personalità autoritaria» di Adorno alla «banalità del male» di Hannah Arendt) per mostrare poi, in un corpo a corpo con le opere di Jonathan Littell e di Günther Anders, che la presa di distanza dagli esiti dei nostri atti distruttivi (resa non solo possibile, ma obbligata, dalle mirabilia tecnologiche e dalla costrizione «diversamente morale» a non sprecare armi la cui produzione ha richiesto quantità esorbitanti di denaro) contribuisce a erodere la nostra sensibilità già gravemente indebolita e oggi prossima alla cancellazione.
domenica 10 marzo 2013
Inflazione baumaniana e prolungamento dell'età per la pensione
Risvolto
Che cos’è il male oggi? In che modo si può dire che le sue
manifestazioni, le sue spinte, le sue modalità di aggredire il tessuto
del mondo e delle persone che lo abitano si siano modificate?
Zygmunt Bauman, uno dei più grandi pensatori viventi, già nel 1989, con Modernità e olocausto, aveva riletto le atrocità del Terzo Reich sovvertendo l’opinione comune che si fosse trattato un «incidente» della Storia e dimostrando che invece la «società dei giardinieri» della modernità aveva raggiunto con l’olocausto il suo risultato più esemplare. In questo libro Bauman compie un ulteriore decisivo passo avanti nell’identificazione del «male» ai giorni nostri. E lo fa con una ricognizione delle tesi fallaci che si erano affermate nel Novecento (dalla «personalità autoritaria» di Adorno alla «banalità del male» di Hannah Arendt) per mostrare poi, in un corpo a corpo con le opere di Jonathan Littell e di Günther Anders, che la presa di distanza dagli esiti dei nostri atti distruttivi (resa non solo possibile, ma obbligata, dalle mirabilia tecnologiche e dalla costrizione «diversamente morale» a non sprecare armi la cui produzione ha richiesto quantità esorbitanti di denaro) contribuisce a erodere la nostra sensibilità già gravemente indebolita e oggi prossima alla cancellazione.
Zygmunt Bauman, uno dei più grandi pensatori viventi, già nel 1989, con Modernità e olocausto, aveva riletto le atrocità del Terzo Reich sovvertendo l’opinione comune che si fosse trattato un «incidente» della Storia e dimostrando che invece la «società dei giardinieri» della modernità aveva raggiunto con l’olocausto il suo risultato più esemplare. In questo libro Bauman compie un ulteriore decisivo passo avanti nell’identificazione del «male» ai giorni nostri. E lo fa con una ricognizione delle tesi fallaci che si erano affermate nel Novecento (dalla «personalità autoritaria» di Adorno alla «banalità del male» di Hannah Arendt) per mostrare poi, in un corpo a corpo con le opere di Jonathan Littell e di Günther Anders, che la presa di distanza dagli esiti dei nostri atti distruttivi (resa non solo possibile, ma obbligata, dalle mirabilia tecnologiche e dalla costrizione «diversamente morale» a non sprecare armi la cui produzione ha richiesto quantità esorbitanti di denaro) contribuisce a erodere la nostra sensibilità già gravemente indebolita e oggi prossima alla cancellazione.
Il lungo viaggio di Bauman alle radici del male
di Leopoldo Fabiani Repubblica 10.3.13
“Unde malum? ”. Per cercare la risposta all’eterna domanda sulle origini
del male, Zygmunt Bauman si concentra sul Novecento, secolo degli
stermini di massa e di quell’“unicum” della storia umana che è
l’Olocausto. La ricerca contenuta in questo breve testo ( Le sorgenti
del male, Erickson, pagg. 108, euro10), riprende i temi che il sociologo
polacco aveva svolto nel 1992 in Modernità e Olocausto (il Mulino), per
arrivare però a conclusioni sensibilmente differenti. Si parte dalla
confutazione di alcune tesi illustri. Innanzitutto l’idea che la
malvagità sia prerogativa di alcune psicologie particolari. Il male come
frutto di predisposizioni naturali, del carattere “perverso” di certi
individui, secondo il celebre studio di Adorno sulla “personalità
autoritaria” che avvalorava l’idea di una “autoselezione dei
malfattori”. Ma il pensiero in fondo consolante che solo alcune persone
siano capaci delle atrocità, per cui dovremmo solo individuare i
“mostri” e difendercene, non regge alla prova della storia e delle
ricerche scientifiche. A dircelo sono, per esempio, gli esperimenti
dello psicologo sociale Philip Zimbardo ( L’effetto Lucifero. Cattivi si
diventa?, Cortina). Nel famoso “caso di Stanford” un gruppo di persone
perfettamente normali è diviso tra coloro chiamati a fare i carcerieri e
quelli destinati a essere prigionieri. Ed ecco che i primi subito si
trasformano in sadici violenti, con una metamorfosi sbalorditiva.
L’esperimento, che risale agli anni Settanta, ha trovato conferme
clamorose nello scandalo dei prigionieri torturati dai soldati americani
nel carcere di Abu Grahib. Si torna allora alla “banalità del male”
teorizzata da Hannah Arendt e al suo ritratto di Adolf Eichmann come
persona del tutto “normale”, bravo padre di famiglia e anche amico degli
animali. Con la perturbante conclusione che il male è fra noi e che
chiunque, in certe circostanze e in assenza di una forza morale fuori
dal comune, può diventare, da un giorno all’altro, un mostro. Ma nemmeno
questo è sufficiente, perché, sostiene Bauman, siamo di fronte a una
descrizione, non a una spiegazione, del fenomeno. Lo sguardo del
sociologo si distoglie allora dalla Shoah e si volge ad altri fra gli
eventi assurdi e terribili del secolo passato. La distruzione
nell’inverno del ’44 delle città tedesche e il lancio dell’atomica su
Nagasaki nell’agosto del ’45. Decisioni senza alcuna giustificazione
“strategica”, ma solo ragioni “tecniche” ed “economiche”. Non c’era
nessun bisogno di radere al suolo centri abitati senza fabbriche o
caserme. E nemmeno, dopo Hiroshima, di tirare una seconda atomica.
Quelle bombe, secondo le testimonianze degli stessi protagonisti, alti
ufficiali alleati o il presidente americano Truman, furono usate per il
semplice fatto che erano state costruite e non andavano lasciate nei
magazzini. La macchina, una volta messa in moto, vive di vita propria.
Sulle orme delle riflessioni di Günther Anders, Bauman si concentra così
sul predominio della tecnica. Arrivata a una potenza che supera
l’immaginazione umana, e capace di realizzare in ogni momento le proprie
potenzialità illimitate. A questo si aggiunge la perdita di sensibilità
dovuta all’abitudine, come scriveva Joseph Roth in Ebrei erranti
(Adelphi): «Le catastrofi croniche sono così spiacevoli per i vicini che
questi ultimi diventano gradualmente indifferenti sia alle catastrofi,
sia alle loro vittime, quando non sviluppano in proposito una vera e
propria impazienza». Anders avvertiva: può succedere di nuovo solo
perché è già successo. Del male dobbiamo dunque avere paura: far sapere
agli uomini che hanno bisogno di essere sempre in allarme «è il compito
morale più importante dei nostri giorni».
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