di Giovanni Santambrogio il Sole 24 Ore 17 ottobre 2013
mercoledì 6 marzo 2013
La guerra del capitalismo alla democrazia
Joseph E. Stiglitz: Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, pagg. 474, euro 23
Risvolto
Il
livello di disuguaglianza del reddito in America raggiunge oggi picchi
mai visti da prima della Grande depressione. Negli anni del boom,
precedenti alla crisi finanziaria del 2008, l'1 per cento dei cittadini
si è impadronito di più del 65 per cento dei guadagni del reddito
nazionale totale. E tuttavia, mentre il Pil cresceva, la maggior parte
dei cittadini vedeva erodere il proprio tenore di vita. Nel 2010, mentre
la nazione lottava per superare una profonda recessione, l'1 per cento
guadagnava il 93 per cento del reddito aggiuntivo creato nella
cosiddetta "ripresa". Mentre coloro che sono in alto continuano a godere
della migliore assistenza sanitaria, della migliore educazione e dei
benefici della ricchezza, essi spesso non riescono a comprendere che,
come sottolinea l'autore, "il loro destino è collegato a quello
dell'altro 99 per cento". In questo volume Stiglitz unisce la sua
formidabile visione economica a un appassionato richiamo affinché
l'America torni agli ideali economici e politici che l'hanno resa
grande. La disuguaglianza infatti non nasce nel vuoto. E il risultato
dell'interazione di forze di mercato e di manovre della politica. Grazie
a essa l'America è sempre meno la terra delle grandi opportunità e
sempre meno è in grado di rispondere alle aspirazioni e ai bisogni dei
suoi cittadini. Ma non deve necessariamente essere cosi.
di Giovanni Santambrogio il Sole 24 Ore 17 ottobre 2013
di Giovanni Santambrogio il Sole 24 Ore 17 ottobre 2013
Fuori mercato
L’ultimo libro di Joseph Stiglitz affronta i danni provocati dalla disuguaglianza Una piaga delle società contemporanee che mette a rischio la democrazia
di Joseph E. Stiglitz Repubblica 5.3.13
Capitalismo e democrazia
di Giorgio Ruffolo Repubblica 5.3.13
Due
grandi forze si contendono la storia dell’Occidente: il capitalismo e
la democrazia. Esse si alternano nell’egemonia prevalendo volta per
volta l’una sull’altra e dando così luogo a cicli storici, l’ultimo dei
quali è quello che viviamo dall’inizio del secolo passato e che
comprende tre fasi: l’età dei torbidi, l’età dell’oro e l’età della
controffensiva capitalistica.
L’età dei torbidi è caratterizzata da
forti conflitti tra i capitalismi nazionali ciascuno dei quali cerca di
assicurarsi vantaggi decisivi sui rivali. Il risultato è una
competizione selvaggia che ostacola la crescita comune.
Età dell’oro.
La definizione è di Hobsbawm. La caratteristica principale sta nel
tentativo di raggiungere un “compromesso storico” tra capitalismo e
democrazia che esalti le capacità di sviluppo di queste due forze senza
provocare contraddizioni strutturali. Il principio fondamentale che
regge il sistema è quello del libero scambio. Delle merci ma non dei
capitali che sono assoggettati a controlli severi da parte dei governi
nazionali. Questo sistema lascia ampie autonomie alle politiche
nazionali e assicura quindi un relativo equilibrio tra le forze del
capitalismo e le capacità regolatrici dello Stato. Tuttavia l’equilibrio
che ne deriva si rivela tutt’altro che “storico”. Esso è costantemente
messo in dubbio dai tentativi delle forze capitalistiche di sottrarsi
agli obblighi costituiti dai controlli statali. Questi tentativi
conseguono un decisivo successo negli anni Ottanta del secolo scorso con
la decisiva eliminazione in Gran Bretagna e negli Stati Uniti di ogni
controllo sui movimenti internazionali di capitale che assicura a
quest’ultimo una superiorità decisiva sugli altri fattori della
produzione. La superiorità è realizzata attraverso la sua possibilità di
spostarsi nello spazio secondo le convenienze assicurate dagli
investimenti. Si potrebbe dire che l’arma fondamentale del capitale è la
valigia. La sola minaccia di uno spostamento blocca le possibilità di
far valere l’autonomia della politica. L’eliminazione di ogni ostacolo
al movimento dei capitali determina un vantaggio decisivo del
capitalismo sulla democrazia pregiudicando il relativo equilibrio che si
era raggiunto tra queste due forze. Questo vantaggio si traduce in una
forte diseguaglianza tra i redditi del capitale e quelli del lavoro. Una
diseguaglianza che potrebbe tradursi in una debolezza della domanda,
costituita soprattutto dai redditi di lavoro. A questa minaccia il
capitalismo reagisce con una “mossa” decisiva: l’indebitamento, che
permette di compensare il minore aumento dei redditi di lavoro.
L’indebitamento diventa un fenomeno generale e sistematico al punto che
il capitalismo viene definito da un economista come quel sistema nel
quale i debiti non si pagano mai. Una caratteristica chiaramente
insostenibile alla lunga e che si traduce prima o poi in una inevitabile
crisi determinata da insolvenze, come nel caso dei cosiddetti subprime.
Originate negli Stati Uniti, ed estese all’Europa e a tutto il mondo
determinando la condizione di crisi della crescita economica nella quale
siamo oggi immersi. Questa condizione è affrontata, diversamente da ciò
che accadde negli anni Trenta, con un colossale salvataggio finanziario
dello Stato. Da fattore di perturbazione dei mercati — così definito
dalla retorica liberistica — lo Stato diventa il salvatore del
capitalismo. La logica del sistema tuttavia non muta. Esaurito il
“salvataggio” il sistema torna alla logica dell’indebitamento,
raffigurata scherzosamente nel dialogo fra Totò e il suo cameriere.
Cameriere: «Mi avete detto ieri che mi avreste pagato domani». Totò: «E
te lo confermo». Cameriere: «Ma domani è oggi». Totò: «Giovanotto non
scherziamo, oggi è oggi e domani è domani».
La soluzione che
l’ideologia liberistica imporrebbe, di lasciare che i fallimenti si
compiano secondo l’inflessibile regola dei mercati, naufraga nella
vicenda della Lehman Brothers: un fallimento che, se esteso all’intero
contesto capitalistico, ne determinerebbe il crollo. La verità si crea
alla fine il suo spazio. I debiti si pagano. Come si chiude la vicenda?
Chi paga alla fine?
Pagano i contribuenti e i lavoratori, sotto forma
di aumento delle tasse e/o di contrazione dei salari. Al fenomeno
dell’indebitamento si somma quello della “finanziarizzazione”. La
ricchezza è rappresentata dall’emissione di “titoli” che da semplici
indicatori della ricchezza finiscono per diventare ricchezza essi
stessi. Una ricchezza letteralmente inesistente ma che costituisce la
base di una “taglia” imposta alla comunità dal potere finanziario.
Questa taglia è percepita dalle banche e soprattutto da una classe di
intermediari finanziari che approfitta della sua posizione“strategica”
nelle transazioni finanziarie. È così che il capitalismo industriale
basato sulla realtà delle “cose” diventa capitalismo finanziario basato
sulla rappresentazione dei “titoli”. Il grande salvataggio si traduce
ovviamente in un peggioramento della finanza pubblica. Ma diversamente
da quello del finanziamento privato. Quest’ultimo è punito dalle
politiche economiche e finanziarie che colpiscono i “salvatori”. Il
capitalismo non ammette infatti che il settore pubblico diventi un
elemento decisivo dell’economia. Si profila una condizione nella quale
il rallentamento della crescita determinato da politiche repressive
della finanza pubblica si accoppia con l’iniquità. Due elementi che
rischiano di suscitare una depressione di lungo periodo.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento