Il sociologo Robert Castel è morto martedì all'età di 79 anni. Lo ha annunciato con un comunicato l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, dove era ancora direttore di studi. Ieri, è uscito nelle sale il film di Thomas Lacoste, Notre Monde, che contiene un'intervista di Robert Castel, accanto a filosofi, sociologi, magistrati, psichiatri, da Etienne Balibar a Jean-Luc Nancy, Toni Negri o Luc Boltanski, dove vengono esaminate le aporie del mondo attuale, minato dalla crisi. È proprio sulla crisi contemporanea, sulla metamorfosi della civiltà del lavoro e sul ritorno in primo piano della figura dell'escluso, di chi è ormai «in soprannumero», della «disaffiliazione», che si sono concentrati i suoi studi negli ultimi decenni.
Castel, dopo aver pubblicato negli anni '70 lavori critici sulla psichiatria, in linea con le posizioni di Michel Foucault, grazie all'incontro con Pierre Bourdieu si è concentrato sullo studio del mondo del lavoro e della società salariale. È stato tra i fondatori del Gruppo di analisi del sociale e della socialità, Grass. Il suo libro più noto - Les métamorphoses de la question sociale, Une chronique du salariat (Fayard, 1995) - è diventato un classico della sociologia sulle diseguaglianze sociali. Ieri, il suo collega e amico Marc Bessin ha così ricordato Robert Castel: «ha lasciato una grande opera, con tutto il lavoro che ha fatto sulla psichiatria e il modo in cui si è impegnato nella riflessione critica che ha accompagnato tutti i movimenti anti-autoritari». Tra i titoli più conosciuti, La gestion des risques (Ed. de Minuit), Propriété privé, propriéte sociale, propriété de soi (con Claudine Haroche, Fayard), L'insécurité sociale (Seuil), La monté des incertitudes (Seuil), e ultimamente Changements et pensées du changement, échanges avec Robert Castel (con Claude Martin, La Découverte).
La coesione in disfacimentoCastel ha studiato le tappe della lotta della classe operaia per conquistare l'estensione dei diritti e delle protezioni sociali, culminate con il compromesso fordista dei trent'anni «gloriosi» del secondo dopoguerra. Ma negli anni Settanta del Novecento, con la fine della piena occupazione e la conseguente crescita della disoccupazione, lo status dell'individuo contemporaneo è minacciato, la coesione sociale si sfarina, con l'apparizione del precariato, con il numero crescente di giovani diplomati senza lavoro e la disoccupazione di massa. «Il cuore della trasformazione si situa prima di tutto a livello dell'organizzazione del lavoro e si traduce in un degrado dello statuto professionale - ha affermato in un'intervista a L'Humanité del 2009 - il precariato si sviluppa all'interno del lavoro e si innesta nella disoccupazione di massa. Non è più possibile pensare il precariato come abbiamo fatto per anni, cioè come un brutto momento da passare prima di trovare un lavoro stabile. C'è ormai un numero crescente di individui che sprofonda nel precariato. Che diventa, anche se puo' sembrare paradossale uno stato permanente. Ciò che chiamo il precariato corrisponde a una nuova condizione salariale, o piuttosto infra-salariale, che si sviluppa al di qua dell'occupazione classica e delle sue garanzie». Castel ha utilizzato i riferimenti storici al passato per costruire una storia del presente. Oggi, con la povertà che si manifesta ad ogni angolo di strada, non siamo tornati al XIX secolo, ma qualcosa di quel passato resta nella mentalità: si tratta della vecchia stigmatizzazione del povero, assimilato al vagabondo. Nel 1349 in Inghilterra, per la prima volta il re Edoardo III impone ai poveri di accettare il lavoro che gli viene offerto, pena la prigione. Il povero «valido» inizia così una lunga carriera di assoggettamento: dalle workhouses di Elisabetta I agli «ospedali generali» di Luigi XIV, passando dal Rasphaus della fine del XVI secolo ad Amsterdam (poveri senza lavoro rinchiusi in cantine inondate e obbligati a svuotarle dall'acqua per non annegare), fino agli Ateliers nationaux del 1848 in Francia. Oggi, con la progressiva erosione dello stato sociale che aveva legato i diritti al lavoro, i «disaffiliati» tornano a vivere alla giornata come nell'Ancien Régime. È il trionfo dell'«individualità negativa». Per Castel «il nocciolo della questione sociale oggi sarà quindi, di nuovo, l'esistenza di "inutili al mondo", dei sovrannumerari, e attorno ad essi di una nebulosa di situazioni segnate dalla precarietà e dall'incertezza dell'indomani che attestano della crescita della vulnerabilità di massa», ha scritto nelle conclusioni della Metamorfosi della questione sociale. «Il sentimento di insicurezza - ha scritto l'Observatoire des inégalité nella recensione al libro di Castel L'insécurité sociale - si estende a numerosi campi (salute, ambiente, paura degli altri) ma Robert Castel ci fa capire che proviene da una fonte, l'instabilità sociale. Chi non sa di cosa sarà fatto il domani, che sia lavoratore precario, disoccupato o giovane che sta costruendo il proprio avvenire, finisce per percepire l'esterno come una minaccia». Alle ultime presidenziali del 2012, Castel aveva preso posizione a favore di Hollande. Ma non si faceva illusioni: «In cinque anni, il degrado può aggravarsi - aveva detto in un'intervista a il manifesto di un anno fa - c'è un indebolimento della regolazione dello stato nazionale, mentre non si vede per il momento una regolazione transnazionale, l'Europa ha mostrato la sua impotenza con il caso della Grecia. Per non parlare dell'Europa sociale, ancora più debole. Eppure non tutti sono rassegnati a subire il mercato e le agenzie di rating, c'è la possibilità che i principii di regolazione, per addomesticare il mercato, vengano ricostruiti. Gli elettori di Hollande sanno che non sarà possibile prendere di petto i problemi - avere un lavoro di qualità, lottare contro il precariato e la povertà dei lavoratori - nel contesto dell'economia mondiale attuale. Ci vorrebbe, per esempio, un vero intervento a favore della formazione lungo tutta la vita, sulla transizione tra l'uscita dalla scuola e l'entrata nel lavoro. Ma per il momento, la congiuntura rende impossibili interventi efficaci. La gente ha interiorizzato che non si può chiedere la luna».
Le analisi, le riflessioni, le inchieste di Robert Castel pongono domande «scomode» sulle modalità con cui vengono «amministrate» le società capitalistiche. Da buon francese, ha infatti sempre sostenuto che senza la comprensione del ruolo dello Stato nel governare la società, ogni progetto di trasformazione era destinato alla sconfitta, perché lo Stato era al tempo stesso garante del modo di produzione dominante, ma anche il «luogo» dove venivano sviluppate e messe a punto le funzioni necessarie - economiche e sociali - alla sua riproduzione. Sin dal primo libro che lo fece conoscere al grande pubblico - L'ordine psichiatrico - il suo «repubblicanesimo» non concedeva nessuno spazio al dubbio: la società non può essere trasformata senza la conquista del potere politico.
Un libro figlio del suo tempo, che fa i conti con la critica alle istituzioni totali originate dal Sessantotto. Il potere psichiatrico, sosteneva Castel in forte sintonia con il pensiero di Michel Foucault, è una delle forme del potere pastorale esercitato dallo Stato sulla società e sui singoli. La popolazione è oggetto di attenzione e di intervento al fine di prevenire conflitti che potrebbero mettere in discussione l'ordine costituito. Il ricercatore sociale, allievo di Raymond Aron e collaboratore, nei primi anni alla Sorbona, di Pierre Bourdieu, non si sottrae al confronto con chi sostiene che ogni istituzione è segnata dal virus autoritario che inibisce il libero sviluppo dei singoli.
Robert Castel è stato un intellettuale di sinistra, squisitamente riformista che riteneva lo Stato la massima espressione del Politico, perché aveva la capacità di modificarsi ed evolvere alla luce dei conflitti sociali e di classe che caratterizzavano, e caratterizzano la società capitalistica. Un intellettuale anomalo nel panorama francese, dove i maître-à-penser ritenevano le scienze sociali una tecnica al servizio del potere. Per Castel, invece, l'analisi sociale poteva svelare l'arcano del governo e dello «stare in società».
Da questo punto di vista ha incarnato quella figura di «intellettuale specific» che Michel Foucault proponeva come chiave di accesso alla politicizzazione dei rapporti sociali. E proprio questa valorizzazione di una disciplina del sapere «particolare» ha facilitato Castel nel fare i conti con quanto accadeva al di fuori dell'École des Hautes Études en Sciences Sociales, l'istituzione della ricerca francese che lo ha visto come uno dei docenti più «antiaccademici», capace di guardare con occhi disincantati, ma partecipi, a quei movimenti sociali da lui considerati tuttavia una variabile dipendente del sistema politico.
Questa concezione «riduttiva» dei movimenti non gli ha impedito di confrontarsi, valorizzare temi e argomenti che non trovavano posto nell'agenda dei partiti politici. Senza la valorizzazione del conflitto espresso da classi e gruppi sociali, il politico era destinato a una funzione di dominio, non di governo della società. Una attitudine «investigativa» e al tempo stesso spregiudicata, cioè non convenzionale, che ha trovato il suo risultato più importante in un volume pubblicato a metà degli anni Novanta in Francia - in Italia è stato pubblicato solo alcuni anni fa con il titolo Metamorfosi della questione sociale, una cronaca del salariato, Sellino editore - in cui Castel sezionava la crisi del capitalismo incardinato sula figura del «salariato». Da qui l'esplosione di una nuova questione sociale, dovuta dunque all'eclissi del salariato, nonostante il regime del lavoro salariato mantenesse intatto il suo potere performativo dei rapporti sociali. Testo seminale e preveggente sul fatto che la mutata composizione del lavoro vivo - declino del lavoro di fabbrica, crescita del lavoro nei servizi e del lavoro autonomo-, andava di pari passo con il dilagare della precarietà.
Nella fine del Novecento, Castel vedeva inoltre profilarsi all'orizzonte la cancellazione dello Stato sociale, del Welfare state, cioè l'esito progressivo dei conflitti sociali, di classe e delle guerre che hanno segnato il «secolo breve». Una prospettiva da combattere, perché in ballo non erano solo i diritti sociali, ma la stessa democrazia. E non è un caso che dall'inizio del nuovo millennio Castel abbia più volte richiamato l'attenzione sull'aumento dell'«insicurezza sociale» - il titolo di un volume pubblicato da Einaudi - causato dalla «privatizzazione» del welfare state, fattore che colpiva a morte le basi materiali dello sviluppo economico. Da buon riformista auspicava di innovare il welfare state, augurandosi, tra i primi intellettuali europei mainstream, l'introduzione del reddito di cittadinanza. Fino a abbandonare il suo consueto stile sobrio, denunciando che le ultime rivolte nelle banlieue francesi o negli slum londinesi erano l'inequivocabile segnale di pericolo che non poteva essere ignorato né potevano liquidarsi come manifestazioni criminali della racaille. Le sue prese di posizioni sono però rimaste il grido di allarme di un «repubblicano» che non voleva assistere inerme alla scomparsa del trittico - liberté, egalité, fraternité - che ha qualificato la sua adesione alla modernità.
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