Mauro Ravarino, il manifesto | 11 Aprile 2013
Al via la kermesse al teatro RegioBoldrini inaugura Biennale Democrazia: “La politica gratis è un’utopia negativa”
La presidente della Camera fa visita ai profughi: “L’assistenza non basta”di Beppe Minello e Elisabetta Graziani La Stampa 11.4.13
qui, e qui
Corriere 10.4.13
Al via la Biennale Democrazia con la lezione di Laura Boldrini
Prende
il via oggi, a Torino, la terza edizione della Biennale Democrazia, una
cinque giorni nella tradizione del laboratorio politico che si richiama
al cattolicesimo sociale, a Gobetti, a Gramsci, agli azionisti, al
movimento sindacale. Coinvolgerà, in diversi luoghi della città, teatri,
circoli, istituti, musei, cinema, università, caffè. Il titolo scelto
per quest'anno, «Utopico. Possibile?», allude alle speranze e alle sfide
collegate all'attuale periodo storico. L'apertura ufficiale è alle 18
al Teatro Regio, con la lezione inaugurale di Laura Boldrini, presidente
della Camera dei deputati. Seguirà alle 21.30, sempre al Teatro Regio,
un omaggio a Giorgio Gaber nel decennale della sua scomparsa: uno
spettacolo di musica, parole e immagini. Domani la giornata sarà aperta
dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, al Teatro Carignano, con un
intervento dal titolo: «Pensare può alleviare l'infelicità della vita».
l’Unità 10.4.13
Cittadinanza universale
«Biennale Democrazia»: l’intervento di Sbarberi
Anticipiamo la lezione del filosofo in programma sabato nell’ambito della manifestazione torinese
di Franco Sbarberi
SE
DURANTE LE GARE DI OLIMPIA LE OSTILITÀ TRA LE CITTÀ GRECHE VENIVANO
SOSPESE, CIÒ NON SIGNIFICA CHE LA GUERRA NON OCCUPASSE PIÙ LA MENTE
DELL’UOMO. E anche in seguito gli scrittori politici di origine realista
e idealista hanno continuato spesso a ripetere con Eraclito che la
guerra «di tutte le cose è madre». Nella prima metà del Novecento Carl
Schmitt ne ha tratto conseguenze estreme, ponendo al centro della
politica il dualismo tra amico e nemico. Con il termine nemico si deve
intendere non l’avversario o il concorrente della tradizione
liberaldemocratica, ma un «voi» contrapposto a un «noi»: «qualcosa
d’altro e di straniero» che può essere eliminato anche fisicamente
perché la conflittualità non ammette mediazioni. In termini più
generali: il dualismo amico/ nemico è stato al centro di tutte le
politiche totalitarie del ventesimo secolo e continua a ispirare le
teologie politiche più recenti (come quelle del fondamentalismo
islamico).
Ciò nonostante, in alcuni momenti di crisi acuta delle
comunità statali (e quindi del rapporto tra potere politico centrale e
cittadini) il mondo antico e la modernità hanno incominciato a nutrire
anche ipotesi meno cruente, come l’utopia della cittadinanza universale.
Quando l’ordine politico delle città greche fu travolto da Alessandro, i
maestri della Stoa invitarono a guardare alla comunità più grande che
abbraccia tutte le genti, perché «tutti gli uomini sono parenti», come
dirà Zenone Cizico. E nella delicata fase di passaggio dalla repubblica
romana al principato, Cicerone ammonisce che l’amore del genitore nei
confronti del figlio deve ispirare anche «la reciproca solidarietà degli
uomini fra di loro». La frequentazione pubblica, le assemblee,
l’ordinamento repubblicano sono visti da Cicerone come la proiezione di
questa attitudine innata alla socialità.
Nell’Europa premoderna e
moderna l’idea cosmopolitica riaffiora più volte sia nella veste di una
res publica cristiana sia in chiave antiassolutistica sia come esigenza
di un «idioma comune». Ma viene discussa dai grandi pensatori politici
soprattutto 2 il moto rivoluzionario in Francia. Simile alle religioni,
che collocano l’uomo oltre lo spazio e il tempo, la rivoluzione
dell’Ottantanove aveva fatto astrazione dal cittadino francese per
rigenerare l’essere umano in quanto tale e definire i suoi diritti e i
suoi doveri fondamentali. Di ciò fu pienamente consapevole Kant. Nel
saggio sull’illuminismo il filosofo tedesco aveva stimolato il soggetto a
usare liberamente la propria ragione; l’ultimo Kant è un profeta
lungimirante che invita i cittadini del mondo a farsi forti dei loro
diritti. Il primo Kant voleva rischiarare le menti; il Kant degli anni
novanta intende rafforzare la volontà degli individui sulla
praticabilità dei fini giusti. Perché il progetto cosmopolitico si
realizzi è necessario che le nazioni bandiscano la guerra e che si
riconosca agli individui il diritto di visita, ossia la possibilità,
come egli scrive, di «entrare a far parte della società in virtù del
diritto comune al possesso della superficie della terra, sulla quale,
essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma
devono all’ultimo rassegnarsi ai incontrarsi e coesistere».
Ciò
detto, è stato il Novecento secolo delle ideologie totali e dei
conflitti mondiali, ma anche della riflessione ininterrotta sulle
potenzialità della democrazia dei moderni a creare le due condizioni
oggettive per la «riproducibilità» e per la «simultaneità» del sogno
della cittadinanza universale: uno spazio pubblico che giunge ad
abbracciare il sistema mondo e la possibilità sempre più sofisticata
(utilizzata negli ultimi decenni soprattutto dai movimenti giovanili) di
trasmettere e ricevere in tempo reale qualunque messaggio. Il XX secolo
è stato importante anche per altre acquisizioni, non soltanto di natura
giuridica (come le carte internazionali dei diritti). Dopo la «notte
polare» della Grande Guerra, proprio un teorico del disincanto come Max
Weber aveva ricordato ai suoi studenti la straordinaria forza
mobilitante contenuta nelle utopie: «È’ perfettamente esatto, e
confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe
raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile».
E
nell’aprile del 1964, prendendo la parola dinanzi ai giudici che lo
avrebbero condannato all’ergastolo, Nelson Mandela terminò così la sua
difesa: «Ho combattuto contro la dominazione bianca e contro la
dominazione nera. Ho accarezzato l’ideale di una società democratica e
libera in cui tutte le persone vivano insieme in armonia e con pari
opportunità. È un ideale, per il quale spero di vivere e che spero di
raggiungere.
Ma, se sarà necessario, è un ideale per il quale sono
pronto a morire». Sia pure tardivamente, i suoi antichi nemici storici,
come De Klerk, hanno dovuto prendere atto che l’ideale di una «società
democratica e libera» era un obbiettivo per cui vale la pena di
continuare a combattere anche in Sudafrica. Alla luce di questi
messaggi, vorrei chiedere a Beppe Cambiano: nonostante la replica
ininterrotta di guerre e di discriminazioni di varia natura, perché la
città cosmopolitica immaginata dagli antichi non è stata uno dei tanti
sogni che muoiono all’alba? E a Giacomo Marramao: quali aspetti teorici
del cosmopolitismo contemporaneo potrebbero diventare, nel medio
periodo, una pratica «possibile» e quali aspetti appaiono invece
discutibili e rischiosi? Siamo ormai in grado, come ha scritto
fiduciosamente Bauman, di «prevedere l’imprevedibile»?
IL PROGRAMMA
«Utopico. Possibile?» Incontri e dibattiti
«Utopico.
Possibile?» è il titolo attorno al quale si sviluppa la terza edizione
di Biennale Democrazia, la manifestazione culturale coordinata dal
presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, in
programma a Torino da oggi a domenica. Cinque giorni di lezioni,
dibattiti, letture di classici, seminari di approfondimento. Alle 18
inaugurazione ufficiale affidata alla Presidente della Camera dei
Deputati, Laura Boldrini.
La Stampa 10.4.13
Se non aspiriamo più al futuro, è il futuro che aspira noi
In anteprima la lezione per Biennale Democrazia: tramontate le utopie dell’800, come tornare a immaginare l’avvenire
Il futuro? L’utopia delle piccole cose
La scienza avanza con tale rapidità che non sappiamo quale sarà lo stato delle nostre conoscenze tra 50 anni
La ricerca scientifica non parte da verità preconcette ma dall’ipotesi che non può essere convalidata se non dopo verifica
Si tratta di erigere il metodo scientifico a principio generale di azione sulla società
di Marc Augé
Oggi
l’inaugurazione con Laura Boldrini La terza edizione di Biennale
Democrazia, dedicata al tema «Utopico. Possibile?», si apre oggi a
Torino, per proseguire fino a domenica, con la lezione inaugurale che la
presidente della Camera Laura Boldrini terrà alle 18 al Teatro Regio.
Alle 21,30, sempre al Regio, è in programma L’illogica utopia , un
omaggio a Giorgio Gaber nel decennale della scomparsa, con Luca
Barbarossa, Bruno Maria Ferraro, Dalia Gaberscik, Enzo Iacchetti, Andrea
Mirò, Michele Serra, Paola Turci e Sandro Luporini; conduce la serata
Giovanna Zucconi.
Domani al Carignano Marc Augé, 77 anni, è uno dei
più noti antropologi contemporanei, con esperienze etnologiche in Africa
e America Latina. Già direttore della prestigiosa Ecole des Hautes
Etudes en Sciences Sociales di Parigi, è il teorico «nonluoghi». Domani
(ore 16, Teatro Carignano, introdotto da Cesare Martinetti) terrà una
lezione sul tema «Dal futuro utopico al futuro possibile». Ne
anticipiamo uno stralcio.
È il grande paradosso della nostra
epoca: non osiamo più immaginare il futuro, proprio mentre i progressi
della scienza ci offrono l’accesso alla scoperta dell’infinitamente
grande e dell’infinitamente piccolo. La scienza avanza con una tale
rapidità che oggi saremmo incapaci di descrivere quale sarà lo stato
delle nostre conoscenze fra una cinquantina d’anni, che pure
rappresentano, su scala storica, soltanto un’infima particella di tempo.
Questo paradosso è tanto più stupefacente in quanto i progressi
scientifici si accompagnano a invenzioni e innovazioni tecnologiche che
non sono prive di effetti sulla vita sociale degli uomini.
Le
tecnologie della comunicazione in teoria aprono a tutti possibilità
multiple di relazioni. I mezzi di circolazione in teoria permettono a
chiunque di percorrere il mondo. Le reti di distribuzione ampliano le
possibilità di consumo. Da un altro punto di vista, possiamo constatare
che la collaborazione dei saggi e dei ricercatori di tutto il mondo è
sempre più necessaria al progredire della scienza: si comunicano i
risultati o lavorano direttamente insieme, come al Cern che, a Ginevra,
mostra come potrebbe essere l’utopia realizzata di una vita sociale
internazionale votata alla conoscenza e alla ricerca fondamentale. [... ]
Quello
che inquieta, in fondo, è che non sappiamo più dove andiamo. Le utopie
del XIX secolo descrivevano il mondo al quale aspiravano. Le grandi
religioni sono state, e a volte restano, animate da un proselitismo che
trova la sua origine nel mito fondativo. Il passato, da questo punto di
vista, fornisce contemporaneamente un modello, un punto di riferimento e
un modo di agire. Oggi il mondo che si richiude su ciascuno di noi è il
mondo della tecnologia che è andato più veloce delle società. Noi ci
sfiniamo a consumare gli strumenti che quello ci impone. Globalmente
abbiamo l’impressione di essere determinati non dal passato ma da un
futuro al quale non abbiamo pensato e che vertiginosamente ci aspira.
C’è qualcosa dell’apprendista stregone nelle attuali tecnologie della
comunicazione. Questo aspetto delle cose, combinato con le crescenti
diseguaglianze economiche, spiega perché, per certi aspetti, l’avvenire
ci faccia paura. Se noi non aspiriamo più al futuro, è lui che aspira
noi.
Come riprendere piede in ciò che, per certi aspetti, assomiglia a
una fuga in avanti? Mi sembra che solo partendo da constatazioni
semplici e chiare potremmo immaginare una risposta a questa domanda.
[... ] Si tratta di erigere il metodo scientifico a principio generale
di azione sulla società. A volte si parla di «scientismo» per condannare
le forme di sicurezza e certezza eccessive. Ma la scienza non ha nulla a
che vedere con lo scientismo. La ricerca scientifica passa per
l’ipotesi che non si può convalidare se non dopo la verifica. Non parte
da una verità preconcetta, ma si sforza di spostare un pochino più in là
le frontiere dell’ignoto. La scienza nel suo insieme è il solo ambito
dell’attività umana a proposito del quale si può parlare a colpo sicuro
di progresso cumulativo. È precisamente la pratica dell’ipotesi che ha
permesso l’avanzata del sapere, nella misura in cui essa costituisce una
scommessa sul futuro sempre rivedibile. Si ritorna sulle ipotesi, se
l’esperimento fallisce la verifica. Nei Paesi comunisti, l’accusa di
revisionismo era insultante e grave. Al contrario, l’idea che il modello
scientifico possa ispirare la politica umana passa per la promozione
dell’ipotesi, della verifica e della revisione.
A questo proposito ci
si può giustamente chiedere se la conoscenza non sia la finalità ultima
dell’esistenza umana e, in modo più generale, se la questione dei fini
non debba ordinare l’insieme dei dibattiti politici, economici e
sociali. Se il peccato originale ha potuto essere definito come il
peccato della conoscenza, del desiderio di conoscere, la convergenza con
il mito pagano di Prometeo disegna al contrario un ideale per
l’umanità. L’ideale della conoscenza come finalità ultima della
condizione umana si situa, certo, al di là dei limiti spaziali e
temporali della vita individuale, ma suggerisce che la vera uguaglianza
degli individui umani passa per l’accesso alla conoscenza,
all’istruzione. Dando alla conoscenza il compito di oggetto e fine
ultimo dell’umanità, si ricorda semplicemente l’uguale dignità di tutti
gli individui. «Ciascun uomo, tutto l’uomo», secondo la formula di
Sartre. Si tratta di rispondere alla domanda fondamentale: per che cosa
viviamo? Nel senso di: in vista di che cosa? La finalità della
conoscenza con è contraddittoria con quella della felicità ed è
all’epoca dei Lumi che il diritto alla felicità è stato formulato con
chiarezza.
Ora la felicità non può definirsi per ogni individuo se
non con la coscienza simultanea di sé e degli altri. L’amore individuale
è una forma esacerbata e più o meno duratura di questa coscienza, di
cui si trova un’espressione più collettiva nella parola «Fraternità» che
la Repubblica francese ha aggiunto alle prime due parole del suo motto:
Libertà e Uguaglianza. L’individuo, chiunque sia, non può pretendere a
una felicità totale più di quanto non possa pretendere alla conoscenza
totale. [.... ]
Non tutto dunque è negativo nella constatazione, che
siamo obbligati a fare, di un indebolimento o anche di una scomparsa
delle proiezioni politiche del XIX secolo perché, in fin dei conti,
questa assenza di rappresentazioni costruite del futuro ci dà forse
un’effettiva opportunità di concepire cambiamenti nutriti
dell’esperienza storica concreta e della pratica della ricerca
fondamentale.
Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di
immaginarlo, a volgerci al futuro senza proiettarvi le nostre illusioni.
Formulare delle ipotesi per testare la loro validità, spostare
progressivamente e prudentemente le frontiere dell’ignoto, ecco ciò che
la scienza ci insegna, ciò che qualunque programma educativo dovrebbe
promuovere e ciò a cui qualunque riflessione politica dovrebbe
ispirarsi. Ed ecco che contemporaneamente si disegna la sola utopia che
valga per i secoli a venire, le cui fondamenta dovrebbero essere gettate
o rinforzate con grande urgenza: l’utopia dell’istruzione per tutti, la
cui realizzazione è la sola in grado di frenare, poi di invertire,
quella dell’utopia nera che oggi si sta realizzando: una società
mondiale diseguale, in maggioranza incolta, illetterata o analfabeta,
condannata al consumismo o all’esclusione, esposta a tutte le forme di
violenza e al rischio di un suicidio planetario. [Traduzione di Marina
Verna]
Repubblica 10.4.13
Il mondo delle idee
Siamo davvero felici solo quando pensiamo
Ecco perché abbiamo smarrito il più grande bene della vita, la riflessione
Anticipiamo l’intervento di Zagrebelsky a Biennale Democrazia, oggi al via
di Gustavo Zagrebelsky
In
uno dei primi trattati sulla felicità – il dialogo di Senofonte
“Gerone, o della tirannide” – il poeta lirico Simonide (VI-V secolo a.
C.) tratta dei beni che danno felicità, quando li si possiede, e
infelicità, quando mancano. Non esistono beni di questo genere in
assoluto: dipende dalla natura degli esseri umani. Le persone sensuali
trovano i loro beni con gli occhi per ciò che vedono (gli spettacoli),
con gli orecchi per ciò che sentono (la musica), col naso per gli odori
(i profumi), con la bocca per ciò che ingurgitano (il cibo e il vino) e
con ciò che conosciamo in ragione del sesso (i corpi degli amati). C’è
poi il sonno, che genera felicità per il corpo e per l’anima, forse
perché attutisce le sensazioni. Conosciamo persone per natura superbe e
arroganti. Costoro trovano la felicità nei grandi progetti, nel
superfluo in abbondanza, in cavalli d’ineguagliabile velocità, in armi
belle e potenti, in gioielli per le proprie amanti, in dimore magnifiche
e molta servitù, nella sopraffazione dei nemici, nell’ammirazione della
gente. Ancora: ci sono persone spirituali, per le quali i veri beni
sono quelli dell’anima, l’amicizia, l’amore, la saggezza, la
contemplazione, la filosofia, l’armonia con i propri simili e con la
natura.
Negli elenchi di quelli che consideriamo i beni della vita,
non troviamo le idee. Eppure, la grande maestra che è la lingua non ci
dice qualcosa di diverso, quando
parla di “poveri o ricchi d’idee”?
Poveri e ricchi non solo nel senso della quantità, ma anche
dell’accrescimento esistenziale: noi non diremmo poveri o ricchi di
ferite, di malanni, di mali, ecc.; ma lo diciamo quando la cosa di cui
ci diciamo ricchi o poveri è un bene per noi, qualcosa che ci può, per
l’appunto, “arricchire”. Le idee possono dare anch’esse felicità (in
qualche momento, anche più di altri beni) alle persone di pensiero, e
ciò vale in quanto tali, indipendentemente dal fatto che siano vere o
false, giuste o ingiuste, buone o cattive. Non si tratta di giudizi sul
contenuto, ma d’idee in quanto idee. I giudizi vengono dopo.
Permettete
un riferimento in prima persona. Poiché il tempo passa, la memoria
diminuisce e l’improvvisazione è sempre più pericolosa, ho preso
l’abitudine di preparare le lezioni scrivendone la traccia, per poterla
usare quasi come una rete di sicurezza. Ebbene, una mattina, mi sono
trovato senza. Non sapevo dove fosse sparita. Ho proposto allora agli
studenti di fare così: prendere l’ultimo argomento trattato (era la pena
di morte, un tema davvero inesauribile: lo Stato dispensatore di vita e
di morte: summum ius o summa iniuria?) e di ragionare insieme,
lasciando per così dire libero il pensiero di svilupparsi da sé, da
un’idea all’altra. Abbiamo, per due ore, “prodotto idee” con molta
nostra soddisfazione d’esseri pensanti, riconosciuta da tutti.
Chi
abbia fatto una qualche simile esperienza di scoperta d’idee, che può
giungere all’entusiasmo, non avrà dunque difficoltà nel considerare le
idee “beni della vita”, e l’elaborazione d’idee qualcosa cui può essere
dedicata, in tutta o in parte, la propria esistenza, non meno degnamente
di altri, che la spendono nell’autorealizzazione in differenti aspetti
dell’umana natura. Invece, nella comune percezione, le idee non entrano
affatto a far parte dei beni della vita. Anzi, sembrano stancare, essere
perdita di tempo, divagazioni senza costrutto; nella migliore delle
ipotesi, qualcosa da cui le “persone del fare” possono facilmente
prescindere. Le idee sono per “gli intellettuali”, parola che si
pronuncia sempre con una certa dose di disprezzo. Pensare: che cosa
noiosa, pesante, pedante, superflua!
Un’idea che, dall’antichità,
giunge fino a noi come stella polare dell’esistenza, cui si dedicano
libri, riviste, convegni, “terze pagine”, è la felicità. Chi non pensa,
tanto più oggi, quando le cose sembrano andare al contrario, che il fine
della vita è la felicità e che, quindi, il primo diritto che gli spetta
è il “diritto alla felicità” o almeno alla libera “ricerca della
felicità” (come recita la Dichiarazione d’indipendenza americana)?
Poiché, poi, siamo figli di un’epoca in cui tutto, per esistere, sembra
dover essere misurabile e quantificato, non solo si parla di felicità,
ma ci si dedica anche a calcolarla. Sembra, così, che si possa avere
un’idea oggettiva, scientifica, di che cosa sia la felicità. Non si
tratta di essere felici come a ciascun piace, ma di vivere in società
felici, come piace a chi può dispensare a tutti una buona e bella vita,
secondo intenti analoghi a quelli dei “principi illuminati” del
Settecento.
Che tutto ciò sia sensato, è lecito dubitare. Le
intenzioni sono evidentemente buone: si tratta di contestare il Pil come
unico misuratore del benessere d’una nazione e di affermare che ci sono
ricchezze che sfuggono agli orizzonti dell’econometria. È merito di
Robert Kennedy il discorso pronunciato all’Università del Kansas, il 18
marzo 1968, in cui si denunciava la riduzione economicista e
materialista della felicità e dell’infelicità all’indice Dow-Jones e al
prodotto nazionale lordo «che non misura né il nostro ingegno né il
nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza».
Nell’elenco dei beni che fanno felici e che rendono umana la vita sono
inclusi le competenze, la cultura e altri beni dello spirito, ma invano
cercheremo le idee.
Lo stesso, quando i governi s’indirizzano a
impiantare su basi scientifiche le loro politiche per la felicità e, a
questo scopo, s’impiegano mezzi demoscopici e i sondaggisti si mettono
all’opera. Il 26-27 marzo 2010 una sessantina di psicologi, politici,
filosofi, economisti si sono riuniti a Rennes, in Bretagna, per
discutere del tema Le bonheur: une idée neuve.
Per la verità, già
Saint-Just, sulla fine del Settecento, aveva esclamato: «La felicità è
un’idea nuova in Europa». “Felicità” è infatti una delle parole più
ricorrenti in tutta la pubblicistica di quel secolo. Ora ritorna
d’attualità, sotto specie di “benessere”. Il governo Sarkozy ha
commissionato a tre dei maggiori intellettuali del nostro tempo:
Stiglitz, Sen e Fitoussi un rapporto, reso pubblico nel settembre 2009,
destinato a suggerire criteri per il ricalcolo del benessere collettivo,
sottraendolo alle regole puramente produttivistiche del Pil. Si è
andati in là, suggerendo di prendere in considerazione non solo la
misura del prodotto e del consumo di beni materiali, ma anche i
cosiddetti “beni relazionali” come i rapporti sociali e il tempo libero,
la pubblica sicurezza, ecc. Altri, hanno aggiunto la salute,
l’istruzione, la certezza del lavoro, la casa, la vivibilità delle
città, il verde pubblico, gli affetti familiari e la loro stabilità,
ecc.
Altri indicatori dello sviluppo, che distinguono gli aspetti
quantitativi da quelli qualitativi, sono utilizzati, per esempio, nel
Genuine Progress Indicator. Di recente, anche il nostro Paese ha
iniziato a fare la sua parte in questo genere di calcoli. L’Istat e il
Cnel hanno messo a punto il Bes (Benessere equo e sostenibile), un
misuratore che il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, ha definito
«una specie di costituzione statistica fondata su dodici indicatori. Non
tutto ha un prezzo: il sorriso di chi ci circonda, la solitudine,
l’ansia di non avere un lavoro, l’aria che respiriamo, la biodiversità. A
livello globale gli economisti e gli statistici l’hanno capito da tempo
». Si tratta di «veicolare il messaggio che avere carceri umane,
sconfiggere il femminicidio, valorizzare il patrimonio culturale,
preservare l’ambiente, leggere libri, sostenere la ricerca, restituire
credibilità alla politica […]migliora la vita di tutti ». ( La
Repubblica, 10 marzo 2013).
Questi parametri e le politiche che ad
essi s’ispirano sono cose buone, anche se non si deve trascurare il
rischio che diventino armi ideologiche per interessi politici. Ciò che
più interessa qui è, però, il fatto che le idee non entrano nel computo
dei fattori di vita buona. Entrano di solito le scuole, i musei, i
libri, la lettura, i concerti e altre cose di questo genere, che hanno a
che vedere con la cultura, ma non necessariamente con le idee. Possono
esistere, infatti, anche senza idee, senza “nuove idee”, con idee morte.
Non
si dica che le idee sono difficilmente censibili. Forse che lo sono più
facilmente “la certezza del lavoro”, “la vivibilità delle città”, “il
verde pubblico”, “gli affetti familiari”? Le idee sembra che siano
irrilevanti per la nostra soddisfazione, se non addirittura per la
nostra felicità. Si capisce la difficoltà di contarle e la loro
estraneità
alle politiche pubbliche. Eppure, comprendiamo facilmente
che una vita senza idee e una società che non sprigiona idee, sono
letteralmente “infelici”, cioè infeconde, non creative, destinate non a
vivere ma, nelle migliori delle ipotesi, a sopravvivere come colonie. Se
confrontassimo le diverse società e le loro diverse epoche dal punto di
vista del loro fervore ideale, potremmo, per quanto
approssimativamente, stabilire un più e un meno; cioè, in fondo,
potremmo stilare classifiche e, per esempio, interrogarci sullo stato
della nostra società, nel nostro tempo. Forse, la risposta sarebbe
rattristante.
Ma, in generale, che cosa dice questo silenzio sul
valore delle idee, quanto ai caratteri dello spirito del nostro tempo?
Forse, che è un tempo edonista, materialista, che ha bisogno di esseri
mentalmente programmati per un tipo di società che, a parole, esalta il
pluralismo delle idee e, quindi, la libertà della cultura ma, nella
realtà, ha bisogno che di idee ce ne sia una sola, grande, omogenea, e
che di quella libertà non sa che farsi. Tante idee liberano; una sola
opprime.
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