lunedì 8 aprile 2013
Il libro di Giovanni Leghissa sul neoliberalismo
Risvolto
Spesso il neoliberalismo viene considerato un’acutizzazione del
capitalismo o la semplice estremizzazione del liberalismo. In questo
libro si cerca invece di evidenziare come il progetto di dominio
neoliberale costituisca un modo inedito di intendere il governo delle
vite. Quale antropotecnica di tipo biopolitico, il neoliberalismo
sussume ogni aspetto dell’umano sotto le categorie dell’efficienza
economica – ma ciò non semplicemente per estendere il dominio del
capitale, bensì al fine di costruire una nuova polis paradossalmente
priva di ogni mediazione politica. A partire dalle analisi di Foucault
sulla biopolitica, l’obiettivo che qui si persegue consiste dunque nel
cercare di decostruire le categorie portanti del discorso neoliberale,
sia entro la teoria economica sia nel contesto della teoria delle
organizzazioni. Alla fine del percorso, la tematica del desiderio − in
primis desiderio di giustizia − viene attivata quale possibile punto di
partenza per ripensare il senso e gli scopi dell’azione politica.
Giovanni Leghissa
(Trieste, 1964) è Ricercatore confermato presso il Dipartimento di
Filosofia e Scienze dell’educazione dell’Università di Torino. Ha
insegnato filosofia presso le Università di Vienna, Trieste, e presso la
Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe. Redattore di “aut aut”, ha
curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Blumenberg, Husserl,
Overbeck, Tempels e Hall. Tra le sue pubblicazioni: Il dio mortale. Ipotesi sulla religiosità moderna (Milano 2004), Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione (Mimesis, Milano 2005), Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione della modernità (Mimesis, Milano 2007). Ha curato (con L. Demichelis) Biopolitiche del lavoro
(Mimesis, Milano 2009). Le sue indagini hanno come punti focali:
epistemologia critica delle scienze umane (con particolare riferimento
all’antropologia, alla storia delle religioni e alla filologia),
fenomenologia, psicoanalisi, rapporto tra religione e modernità,
filosofia interculturale, Postcolonial e Cultural Studies. Da alcuni
anni le sue ricerche mirano a indagare le trasformazioni del rapporto
tra razionalità economica e razionalità politica nell’età neoliberale.
L'impresa ghermisce ogni sfera della vita
ARTICOLO - Dario Consoli il manifesto 2013.04.06 - 11
La totale sparizione del politico a favore di un ordine economico ritenuto naturale e quindi non negoziabile
Giorno dopo giorno, davanti alla crisi che
stiamo vivendo, assistiamo attoniti alla messa in opera di contromisure
del tutto conformi a quella stessa logica che l'ha provocata, in una
continuità che esclude dal novero delle alternative qualsiasi elemento
che a questa non sia assimilabile. Da qui il bisogno, inesauribile, di
una critica del presente capace di problematizzare l'ovvio, ovvero
quello che si configura come l'orizzonte globale insuperabile dal punto
di vista cognitivo e pragmatico. È ciò che si propone di fare l'ultimo
lavoro di Giovanni Leghissa ( Neoliberalismo. Un'introduzione critica ,
Mimesis, Milano-Udine 2012) che muove ad analizzare la «condizione
neoliberale» a partire dall'usuale impianto foucaultiano - segnalato
anche dalla preferenza per l'uso del termine «neoliberalismo» a dispetto
del più diffuso «neoliberismo» - ma con il felice innesto di un più
ampio strumentario teorico proveniente dalla filosofia e dalle scienze
umane. Al centro, è quella trasformazione che porta a una sparizione del
politico o, più precisamente, a uno slittamento e a un'occupazione
progressiva di ambiti della vita tradizionalmente inerenti alla politica
o all'etica (tenuti invece distinti dal pensiero liberale) da parte di
un ordine definito «economico», che si offre come naturale e quindi non
negoziabile. È in questa diffusione onnipervasiva in ogni sfera della
vita attraverso una legge che incarna il principio superiore della
razionalità economica, caratteristica della governamentalità
neoliberale, che l'autore rinviene i tratti di un pericoloso
«totalitarismo della teoria». Di fronte a cioè rivendicata la funzione
critica delle scienze storico-sociali, capaci di mostrare la contingenza
dei propri oggetti e di descriverne i processi genealogici, al fine di
guadagnare nuovamente la possibilità di uno spazio per discutere i
diversi modelli di razionalità sociale e definire gli scopi della vita
associata, in riferimento ad un progetto di emancipazione. Alla ricerca
dell'utile Leghissa si impegna nel mostrare quanto vi è di
intrinsecamente politico nello stesso progetto neoliberale,
caratterizzato da antropotecniche (la nozione è tratta da Peter
Sloterdijk) assolutamente pervasive ed efficaci nel plasmare i soggetti e
i legami sociali - compito per definizione sommamente politico.
L'essere umano viene così ridotto a ciò che di esso può essere calcolato
in vista dell'efficienza, a vita che produce e consuma, che può essere
valorizzata quale fattore economicamente rilevante. Alla base di questo
dispositivo è individuata la cosiddetta Teoria della scelta razionale ,
il cui successo viene ricondotto genealogicamente al clima culturale e
politico che caratterizzò gli Stati Uniti al tempo della guerra fredda,
con lo sviluppo di quell'insieme di studi che faceva riferimento al
problema della giustificazione di un sistema sociale basato
sull'economia di mercato. Tale teoria presuppone la comprensione e
previsione dell'agire umano secondo il criterio di massimizzazione
dell'utile, operando una vera e propria biologizzazione del
comportamento orientato all'interesse individuale e guidato da un
principio di efficienza. La posta in gioco del neoliberalismo è dunque
nel modo in cui si articolano i processi di soggettivazione, nella
riduzione - funzionale al governo degli attori sociali - della
razionalità economica a unica griglia di intellegibilità del
comportamento umano. Ne deriva il presupposto teorico secondo cui il
neoliberalismo non deve e non può essere letto come l'ideologia del
capitalismo contemporaneo, nella convinzione che non possano essere
esclusivamente le logiche di un sistema produttivo a determinare la
struttura dell'intera società e che sia necessario concentrarsi
sull'evoluzione delle tecniche di governamentalità. Con la necessità che
queste comportano di un controllo sempre più accurato e pervasivo ma
allo stesso tempo meno visibile e più indiretto - che è ciò che segna il
passaggio a una vera e propria biopolitica. Le élite del pianeta Si
tratta tuttavia di una tesi che, sebbene abbia il merito di sottoporre a
sguardo critico alcune tradizionali acquisizioni ed equivalenze,
meriterebbe un ulteriore approfondimento e dibattito rispetto allo
spazio dedicato nel volume. Il cui tratto più avvincente consiste nel
vedere in azione la poliedrica cassetta degli attrezzi approntata a
partire da autori e approcci disciplinari differenti, sviluppando, pur
all'interno di una cornice familiare, una composizione originale e
stimolante. Troviamo così numerosi esempi che, lungi dal configurarsi
come facili stereotipi, mirano a identificare in determinate pratiche e
discorsi le specifiche e creative declinazioni di un modello
governamentale diffuso su scala globale; troviamo inoltre ricostruito il
processo per cui una certa razionalità può giungere a predeterminare lo
spazio di azione e di decisione di coloro che sono chiamati a compiere
scelte politiche determinanti a livello locale e globale, una volta
insediatasi nelle università e nelle nicchie culturali dove si formano
le élite del pianeta. Altrettanto stimolante è l'analisi delle imprese
come principale matrice antropologica di questi processi di
soggettivazione - già al centro, ad esempio, del «nuovo spirito del
capitalismo». L'impresa è ormai diventata non solo la forma
paradigmatica dell'organizzazione sociale, ma anche il luogo
fondamentale della formazione dell'individuo, ove egli impara a farsi
egli stesso impresa, a valorizzarsi e investire su di sé in quanto
capitale umano, cioè a plasmare autonomamente la sua esistenza e a
ricercare la sua autorealizzazione esclusivamente all'interno della
cornice della razionalità economica. Una volta esplicitata la portata
biopolitica delle pratiche aziendali, diventa dunque necessaria
un'analisi critica dei nuclei fondamentali delle teorie delle
organizzazioni e del management , in quanto discorso capace di inverare
nel modo più sottile e pervasivo il pensiero neoliberale. Ciò che
caratterizza infatti questo regime biopolitico «è il fatto che la
sussunzione di tutte le sfere di azione sotto la normatività
dell'economico coesiste con pratiche di governo che favoriscono una
condotta della vita mirante all'autorealizzazione individuale». Ed è qui
che entra in gioco il desiderio: pur essendo ciò su cui agiscono
maggiormente le antropotecniche neoliberali - plasmando soggetti
consumatori e sottoposti alle retoriche dell'impresa - esso ne
costituisce anche l'eccedenza, la risorsa inestinguibile per uscire
dalla gabbia della razionalità economica. In nome del godimento È il
desiderio della lezione lacaniana, segnato dal linguaggio e
dall'insopprimibile presenza dell'altro, che se da una parte trova nel
godimento un'espressione profondamente assimilabile nella dimensione
dell'interesse, dall'altra rimanda inevitabilmente a una dimensione
simbolica, al riconoscimento dell'altro e quindi alla possibilità di
chiamare in causa un'aspirazione alla giustizia. È a partire dalla
giustizia come oggetto di desiderio che diventa possibile vedere e
pensare sia la violenza che la condizione neoliberale porta con sé, sia
la sua onnipervasività che riduce tutto a puro calcolo economico,
escludendo ogni spiegazione alternativa dell'azione umana; due aspetti
che impongono di sottrarsi alle maglie di un pensiero totalizzante e
pensarne l'eccedenza. Questo significa recuperare le risorse per creare
nuovi discorsi, nuove pratiche, nuove soggettivazioni e traiettorie
politiche - e quindi anche nuovi ordinamenti economici - che
scaturiscano dal desiderio e dal conflitto creativo, derivante dalla
pluralità di sfere di senso, individuali e sociali, che è possibile
costruire e abitare.
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