lunedì 8 aprile 2013
La Guerra di Corea e l'esperienza dei Partigiani della pace
1950, gli italiani alla guerra di Corea
Il conflitto lungo il 38° parallelo infiammò nel nostro Paese il confronto con i comunisti, ponendo le basi per “Gladio”
di Sergio Soave La Stampa 8.4.13
I «Partigiani della pace»
Il
movimento dei «Partigiani della pace» nacque a Parigi nel 1949,
raccogliendo adesioni di intellettuali come Picasso, Aragon, Amado,
Matisse, Neruda, Einstein. Nella delegazione italiana, guidata da Nenni,
c’erano tra gli altri Vittorini, Guttuso, Quasimodo, Natalia Ginzburg,
Giulio Einaudi. In Italia tra i «Partigiani» si segnalarono i comunisti,
reduci dalla batosta elettorale del ’48, che denunciavano l’«arroganza
americana» e il «servilismo» del governo italiano. Con il conflitto in
Corea si inasprì anche da noi il clima della guerra fredda, tanto che
nell’ottobre del ’50 non si poté ospitare il previsto Congresso dei
Partigiani.
«Ma che ci importa della Corea! ». Questo si
sentirebbe rispondere chiunque volesse aprire oggi, in Italia, un
discorso su quanto sta accadendo in quella lontana nazione. Eppure, il
riverbero di ciò che succede in quella penisola si proietta, da tempo,
ben oltre i suoi confini.
Accadde così in quel lontano 25 giugno
1950, quando la Corea del Nord attaccò quella del Sud, sfondando la
linea di quel 38° parallelo con cui le potenze vincitrici della seconda
guerra mondiale l’avevano divisa. Fu la prima prova, sul campo, della
guerra fredda. Un anno prima l’Urss aveva fatto brillare la sua atomica
in risposta a quelle americane del ’45. E già Truman annunciava la bomba
H, in una corsa al sorpasso che avrebbe segnato il secolo.
Le
avrebbero usate nella circostanza? Il seguito degli eventi disse di no
e, dopo tre anni di inutili scontri, tutto tornò come prima. Ma si capì
che il tempo delle guerre convenzionali non era finito, anche se ora
sarebbero state tutte «sorvegliate» da Washington e da Mosca (con
qualche interferenza laterale della nuova Cina di Mao), parte di un
duello politico ideologico che non avrebbe trascurato nessun punto del
pianeta, per quanto marginale potesse sembrare. Di conseguenza, il mondo
cominciò a dividersi su responsabilità e soluzioni.
L’Italia, ad
esempio, si infiammò. Reduci dalla batosta elettorale del ’48, i
comunisti vestiti da «Partigiani della pace» si riversarono nelle
piazze, denunciando ovviamente l’arroganza americana e le colpe di un
governo che si mostrava affetto da «cupidigia di servilismo». Qualche
gruppo cattolico li seguì e il Parlamento occupò intere giornate in uno
scontro dialettico di straordinaria intensità.
Fu in questo clima che
la guerra di Corea innescò una miccia tutta italiana, destinata a
scoppiare anni dopo e che allora ebbe come artificieri i senatori Jacini
e Pastore. Il primo, democristiano, si lanciò in fosche previsioni: non
bisognava guardare a quella guerra in sé, ma al pericolo di veder
«scaraventare contro l’Europa occidentale l’orda tartara dei
cinosoPaesi». Di qui, la necessità di muoversi «all’infuori della
valutazione etica del nostro atteggiamento. È giusto che noi ci
difendiamo contro un esercito interno che minaccia di unirsi a una
eventuale invasione da fuori». Apriti cielo! Il comunista Pastore cadde
nella trappola. Se l’Urss avesse davvero invaso l’Italia – obiettò - una
successiva campagna di liberazione americana sarebbe fallita perché
«gli operai, i contadini e il popolo avrebbero gettato a mare coloro che
sarebbero i liberatori della borghesia e non i liberatori delle classi
popolari». Al che, il generale Cadorna, già responsabile militare della
Resistenza e ultimo erede di una grande dinastia, rosso e tremante
d’ira, si sarebbe alzato per gridare che allora si sarebbe visto se si
era «italiani o rinnegati».
Nacque di qui «Gladio»? Diciamo che la
guerra di Corea, chiusa nel ’53, ne fu l’incubatoio perfetto. E poiché
il protocollo d’intesa tra i servizi segreti italiani e statunitensi fa
cenno, nel ’56, a precedenti e reiterati contatti, non siamo lontani dal
vero nel collocare, proprio nella scia dei dibattiti sulla guerra
coreana, la spinta decisiva a forme organizzate di difesa anticomunista
interna.
Ma gli effetti sulla geopolitica mondiale di quel conflitto
marginale furono anche più rilevanti, perché la Corea impresse una
accelerazione formidabile al più incredibile revirement della storia
contemporanea.
I piani di «umiliazione» della Germania e del
Giappone, ad esempio, furono di colpo accantonati. La punizione prevista
per entrambi era stata severissima: azzeramento di ogni organizzazione
militare; industrializzazione limitata; riduzione di quei territori a
poco più di «colonie agricole» Così si era pensato di devitalizzare i
loro spiriti guerrieri. Ma ora proprio quegli Stati diventavano il
cardine della strategia di contenimento anticomunista. Così, dopo gli
anni della più dura amministrazione americana, il Giappone fu
riconvertito nella più moderna nazione asiatica. E la Germania federale
fu aiutata a diventare un modello di società alternativo a quello della
Germania comunista. Persino il tabù del riarmo tedesco fu abilmente
aggirato.
Quanto all’Italia, sede del più grande partito comunista
occidentale, fu spinta a quella rivoluzione economica che l’avrebbe
portata al quinto posto tra le nazioni industriali del mondo. La sorte
insomma finì per essere, in proporzione, più magnanima per i vinti che
per i vincitori. Con buona pace dei morti e dei combattenti che, per la
vittoria, avevano rischiato la vita.
Ma oggi, quali novità ci porta la Corea?
Il
19 marzo, un attacco informatico da Nord ha paralizzato centri
nevralgici della Corea del Sud con modalità che le norme internazionali
equiparano a una dichiarazione di guerra. E si piazzano missili a lunga
gittata contro l’America con dichiarata volontà offensiva. Forse è un
bluff, ma non tale da lasciare indifferenti Russia, Cina e Usa che, da
sempre divisi, stanno ora convergendo per evitare che una «nuova Monaco»
permetta a Stati come Corea e Iran di usare tecnologia informatica e
missili con futura testata atomica per i loro fini.
Come andrà a
finire non sappiamo. Anche in questo caso la «razionalità della storia»
produrrà effetti non razionalmente prevedibili. Ma certo, tra una
cinquantina d’anni, gli storici, occupandosi di noi, torneranno
fatalmente a parlare di Corea.
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