lunedì 8 aprile 2013
Ricorda sempre che il populista di oggi potrebbe essere il grande statista di domani
Come per il Corriere della Sera accadde con Berlusconi [SGA].
Populisti per paura del nuovo
Denunciano le trame occulte di ricchi e potenti ma il loro autentico nemico resta la modernità
di Sergio Romano Corriere La Lettura 7.4.13
Uno
studioso del fenomeno (Ludovico Incisa di Camerana nel Dizionario di
politica a cura di Bobbio, Matteucci e Pasquino) sostiene che il
populismo è soprattutto una «sindrome», vale a dire uno stato d'animo
caratterizzato da sintomi, percezioni, emozioni. Non esiste una
ideologia del populismo, non esiste un «manifesto dei populisti», non
esistono programmi organici per un futuro populista. La sindrome è
fondata su due convinzioni: che il popolo sia depositario della verità e
che sia, al tempo stesso, vittima di raggiri, inganni, persecuzioni.
Sempre secondo Incisa, il populismo è una religione neopagana in cui il
Popolo è Dio e adora se stesso.
Ma accanto al popolo-Dio vi è Satana
che cerca di sfruttarne le virtù e di usarle per i suoi fini. Nella
sacre rappresentazioni populiste Satana veste abiti diversi. Può essere,
a seconda delle circostanze, lo Stato dei padroni e dei politicanti, la
grande finanza, il complesso militare-industriale, i «savi di Sion», la
massoneria, i «poteri forti». Generalmente il populismo sonnecchia
docilmente, salvo risvegliarsi per brevi periodi nelle chiacchiere delle
osterie, dei bar e degli stadi. Ma risale impetuosamente alla
superficie e assume maggiori proporzioni quando Satana, con gli abiti
della modernità, irrompe nella vita sociale, ne modifica gli equilibri,
mette in pericolo la condizione economica di alcuni ceti.
Quasi tutti
i fenomeni populisti dell'Ottocento e della prima metà del Novecento
sono collegati all'industrializzazione e alle sue conseguenze. Vi fu un
populismo americano dopo la guerra di Secessione, quando la costruzione
delle ferrovie ruppe le enclave rurali e cambiò il volto del Paese. Vi
fu un populismo russo (i narodniki, gli slavofili), quando l'impero
zarista attraversò, qualche anno dopo, una fase di promettente crescita
economica. Vi furono nuovi fenomeni populisti negli Stati Uniti (il
nativismo) quando l'impetuoso sviluppo dell'industria americana richiamò
masse d'immigrati provenienti soprattutto dalla Cina, dal Giappone,
dall'Europa meridionale e orientale. Il «popolo» si sentì minacciato e
attribuì subito la responsabilità delle proprie sventure a un nemico: i
baroni americani con i denti d'acciaio, i banchieri e gli ebrei arrivati
dall'impero zarista dove i pogrom di Kišinëv, Odessa, Kiev e Bialystock
furono fenomeni populisti, anche se spesso orchestrati e manipolati
dalla polizia e dai servizi segreti. Negli anni seguenti furono in parte
populisti, negli Stati Uniti, anche il movimento «America First»,
contro l'ingresso del Paese in guerra nel 1917, e la «Red Scare», la
paura dei rossi, che esplose contro comunisti e anarchici dopo la fine
della Grande guerra.
In Europa, negli anni Venti e Trenta, il
populismo venne catturato e addomesticato dai partiti e dai movimenti
autoritari. Il caso del fascismo è particolarmente interessante. Mentre
il dannunzianesimo ha una forte componente estetizzante e la Carta del
Carnaro (la costituzione scritta da Alceste De Ambris nel 1920 per la
Libera Città di Fiume) è un raffinato testo politico, Mussolini non
esita a raccogliere e sfruttare tutti gli umori populisti che circolano
nel Paese alla vigilia della Grande guerra e dopo la fine del conflitto.
Vi è un ammiccamento populista nella testata del suo giornale («Il
Popolo d'Italia») e i suoi primi messaggi politici, agli inizi del 1919,
non sono indirizzati a una classe sociale, ma al «popolo delle
trincee». Vi è molto populismo, durante il regime, nell'esaltazione
della vita rurale, nella battaglia del grano, nei raduni «oceanici» di
piazza Venezia, nei dialoghi con la folla, nella denuncia della
plutocrazia «giudaica», nelle grandi iniziative popolari come quella di
Italo Balbo per il trasferimento di trentamila coloni italiani in Libia.
Ma
il fascismo fu un movimento gerarchico, poté contare su una nutrita
pattuglia di intellettuali, volle creare lo «Stato nuovo» e realizzò
alcune delle sue istituzioni. A differenza del populismo, il fascismo
sapeva che il popolo non è un insieme indistinto. È composto da classi
sociali, distinte per mestiere e livello di vita, che il leader vuole
costringere a collaborare nell'ambito di un sistema corporativo dove
tutti, imprenditori e operai, saranno «produttori». Il
nazionalsocialismo esaltava la forza del popolo (Volk) e aveva un
giornale ufficiale, diretto da Alfred Rosenberg, che si chiamava
«Osservatore del Popolo» («Völkischer Beobachter»). Ma il popolo del
Führer era una razza armata, pronta a distruggere o asservire i popoli
minori, a combattere e a morire per un Reich millenario. Il comunismo,
non appena Lenin conquistò il potere, liquidò con la violenza tutti i
suoi concorrenti prerivoluzionari, dagli Sr (i Socialisti rivoluzionari)
ai menscevichi e agli anarchici. Stalin sapeva che il popolo dei
movimenti populisti russi era quello delle campagne e trattò i
contadini, quindi, alla stregua di nemici dell'unico popolo riconosciuto
dal regime: la classe operaia. Quelli che sopravvissero alle carestie e
alle deportazioni divennero impiegati dei kolkhoz. Avevano un
retroterra populista anche i regimi di Antonescu in Romania, di Perón in
Argentina e di altri caudillos latino-americani sino a Hugo Chávez. Non
fu populista invece il franchismo spagnolo, nel quale alcuni alleati
del regime (la Chiesa, le forze armate, l'aristocrazia) appartenevano
ancora all'Ancien Régime. E non fu populista, per ragioni in parte
simili, nemmeno il regime del maresciallo Pétain, creato nella Francia
di Vichy dopo la sconfitta del 1940.
Come i populismi dell'Ottocento e
della prima metà del Novecento, anche quelli apparsi tra la fine del
secondo millennio e l'inizio del terzo sono il risultato di un grande
processo modernizzatore. La globalizzazione abbatte le frontiere,
favorisce la libera circolazione delle merci, del denaro, della
forza-lavoro, e mette a dura prova le vecchie economie nazionali. La
rivoluzione informatica cambia il modo di lavorare, distrugge vecchi
mestieri e ne crea di nuovi, accelera prodigiosamente la diffusione
delle idee, dei miti, delle proteste populiste. La rivoluzione sessuale e
le applicazioni della biotecnologia cambiano i tradizionali rapporti
fra i sessi e rendono possibili nuovi modi di nascere, procreare,
morire. Ciascuna di queste innovazioni può essere percepita, a seconda
della circostanze, come straordinaria occasione o grande minaccia.
Questa
triplice rivoluzione — globalizzazione, informatica, bioetica —
colpisce società in cui vi è stata, nei decenni precedenti, una forte
promozione sociale. Alle occupazioni più umili, ma pur sempre
necessarie, provvedono quindi legioni di nuovi arrivati usciti dai
barrios e dalle favelas dell'America Latina, dalle periferie delle città
nordafricane, dalle campagne dell'Africa nera, dalle megalopoli
asiatiche. Nel giro di due decenni le democrazie industriali
dell'Occidente accolgono e assorbono, alla meglio, parecchi milioni di
immigrati (nell'Unione Europea più di 33 al 1° gennaio 2011), molto
spesso musulmani nel caso dell'Europa, latino-americani in quello degli
Stati Uniti. I nuovi arrivati sono spesso visti e rappresentati come un
corpo estraneo, una minaccia all'identità e alla tradizione dei
«nativi».
Per meglio fare fronte alla concorrenza dei nuovi
capitalismi, l'Unione Europea ha realizzato due grandi riforme: il
mercato unico e la moneta comune. Ma questa strategia della modernità ha
avuto l'effetto di raffigurarla, agli occhi di molti europei, come la
sorella gemella della globalizzazione. Le prime rivolte «no global»
coincidono spesso con i vertici della World Trade Organization
(l'Organizzazione per il commercio mondiale), costituita per diventare,
nelle intenzioni dei fondatori, l'Onu dell'economia di mercato. Sono
manifestazioni metanazionali ispirate da una ideologia ambientalista. Ma
in una fase immediatamente successiva cominciano ad apparire o a
risorgere, in quasi tutti i Paesi dell'Ue, partiti che si proclamano
«difensori del popolo» contro le minacce dell'economia globale e la
tecnocrazia di Bruxelles. Oggi il populismo euroscettico può contare su
una galassia di forze politiche che rappresentano insieme più di un
quinto dell'opinione pubblica dell'Ue: il Partito austriaco della
libertà, diretto a suo tempo da Jörg Haider; il Partito popolare danese
fondato nel 1995 da Pia Kiærsgaard: il Partito dei veri finlandesi di
Timo Soini; il Fronte nazionale di Marine Le Pen in Francia; Alternative
für Deutschland in Germania; il Partito della libertà di Geert Wilders
nei Paesi Bassi, il partito Diritto e giustizia dei gemelli Jaroslaw e
Lech Kaczynski in Polonia (Lech fu presidente della Repubblica e morì in
un incidente aereo nell'aprile del 2010); il Partito per l'indipendenza
del Regno Unito di Nigel Farage; i Democratici svedesi di Jimmie
Åkesson, il partito Jobbik di Gergely Pongrátz in Ungheria e per certi
versi anche Fidesz di Viktor Orbán nello stesso Paese. Alcuni appoggiano
il governo e influiscono sulla sua politica, altri sono all'opposizione
e non tutti, comunque, sono egualmente populisti o razzisti. Ma tutti
pescano i loro voti fra coloro per cui la globalizzazione e
l'integrazione europea sono i nuovi «nemici del popolo».
Esiste poi
un altro fenomeno che soffia sul fuoco del populismo. La Rete, vale a
dire il maggior simbolo della modernità, è ormai il veicolo che più
contribuisce a diffondere le paure del «popolo buono» e le sue
fantasticherie sulle bugie e i raggiri dei suoi diabolici nemici. Grazie
alla Rete sappiamo che l'attacco alle Torri Gemelle è un'operazione
montata dalla Cia e che il Pentagono non è mai stato distrutto. Grazie
ai blog e alle reti sappiamo che gli incontri annuali di Bilderberg,
(un'associazione fondata dal principe Bernardo d'Olanda nel 1954) e
quelli della Trilaterale (il club euro-americano-giapponese creato da
Giovanni Agnelli, Henry Kissinger e David Rockfeller 40 anni fa) sono le
occasioni che permettono ai potenti della Terra di tessere le loro
trame e meglio dominare il mondo degli umili, dei perseguitati, dei
servi della gleba. Mancano le prove e i documenti, ma la loro assenza,
per il populismo della Rete, è la migliore conferma dell'esistenza del
Male. Quanto più è difficile trovare le prove di un complotto, tanto più
i congiurati dimostrano, agli occhi di una opinione pubblica populista,
la loro diabolica abilità.
Esiste anche un populismo degli
intellettuali, molto più raffinato e seducente. Ve ne sono tracce (cito a
caso) in alcuni testi di Giuseppe Mazzini, nelle poesie di Walt
Whitman, negli scritti di Ezra Pound sull'usura, nei romanzi di Knut
Hamsun, nell'abbondante letteratura sull'«identità» e le «radici», molto
alla moda negli ultimi decenni. E vi è un populismo colto, infine,
anche in certi inviti all'indignazione che hanno ultimamente riempito la
Puerta del Sol a Madrid, Wall Street a New York e il sagrato della
cattedrale di San Paolo a Londra.
Di fronte a queste ondate di rabbia
popolare gli Stati democratici sembrano a tutta prima sconcertati e
impotenti. Ma negli ultimi anni sono spesso riusciti ad assorbire i
contestatori, a «imborghesirli», a inserirli nel sistema. Come usa dire
all'inizio di certi film, ogni riferimento al Movimento 5 Stelle, in
questo articolo, è puramente casuale.
Gli strumenti per orientarsi nel caos Italia
di Antonio Carioti Corriere La Lettura 7.4.13
Nel
quadro di generale difficoltà delle democrazie europee l'Italia è forse
un caso limite. Per gli studiosi si tratta di un fertile campo
d'indagine e i primi frutti delle loro ricerche possono aiutare a
orientarsi in un contesto eccezionale, sia per la portata
dell'insorgenza populista, sia per la crisi galoppante dei partiti. Già,
i partiti: un tempo erano il perno del sistema. Ora invece anche chi
continua a considerarli indispensabili, come il politologo Piero Ignazi
nel saggio Forza senza legittimità (Laterza), sottolinea che la loro
credibilità è in caduta libera, mentre altri, come Marco Revelli in
Finale di partito (Einaudi), li vedono ormai al capolinea, nella
convinzione che solo nuove forme di mobilitazione dal basso possano
rivitalizzare la partecipazione popolare. Di certo entrambi gli
schieramenti che si sono alternati al governo in Italia negli ultimi
vent'anni appaiono in uno stato di salute precaria, anche perché,
secondo diversi autori, risulta difficile distinguerli l'uno dall'altro
sul piano dei comportamenti e anche degli ideali. È la tesi affermata da
Piero Sansonetti, sin dal titolo, nel pamphlet La sinistra è di destra
(Bur), cui si associa il saggio Contro riforme (Einaudi) di Ugo Mattei,
ideologo dei «beni comuni», che accusa l'Ulivo e il Pd di aver operato
un «costante tradimento» dei valori costituzionali attraverso una
politica economica privatizzatrice di stampo neoliberale. Non a caso tra
le prossime uscite di un editore votato alla denuncia come
Chiarelettere ci sono due libri di critica corrosiva al centrosinistra
(Rossi di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara) e a uno dei suoi
leader più influenti, Massimo D'Alema (Il peggiore di Giuseppe
Salvaggiulo e Ferruccio Sansa). Se Atene piange, Sparta non ride, poiché
il parziale recupero elettorale non basta certo a nascondere i guai del
centrodestra. Oltre all'impietosa rassegna delle sue magagne contenuta
nel libro di Antonio Polito In fondo a destra (Rizzoli), ne dà conto in
un'analisi di prossima uscita per Marsilio, dal titolo Il Cavaliere, la
destra e il popolo, Giovanni Orsina, che fa risalire l'esaurimento della
fase espansiva del berlusconismo già al 2006, quando il suo messaggio è
passato «dal sogno alla paura», cioè dalla promessa di più libertà e
benessere agli allarmi contro la sinistra livellatrice e classista.
Invece Filippo Astone, nel saggio La disfatta del Nord (Longanesi) in
uscita l'11 aprile, inserisce il declino di Berlusconi nel complessivo
fallimento della classe dirigente che si era candidata a guidare
l'Italia in nome delle regioni più ricche, di cui la Lega rappresentava
la punta avanzata. Più specificamente al Carroccio è poi dedicata
l'indagine di Gianluca Passarelli e Dario Tuorto Lega & Padania (Il
Mulino), che dà ampiamente la parola alle camicie verdi. Com'è ovvio
però il grande fenomeno nuovo da esplorare è il Movimento 5 Stelle. Alla
pionieristica inchiesta di Matteo Pucciarelli L'armata di Grillo
(Alegre), di taglio giornalistico, si aggiungono contributi d'impianto
politologico: Il partito di Grillo di Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta
Gualmini (Il Mulino); Politica a 5 Stelle di Roberto Biorcio e Paolo
Natale (Feltrinelli). Si tratta però di lavori precedenti al boom
elettorale grillino, su cui avvia la riflessione la rivista «ComPol» in
un numero monografico a cura di Ilvo Diamanti e Paolo Natale, mentre
Filippo Tronconi dell'Istituto Cattaneo pubblicherà uno studio sulla
provenienza del voto al M5S nel prossimo fascicolo del «Mulino». Arriva
intanto il primo pamphlet contro il comico genovese, Grillo vale uno di
Mauro Carbonaro (Iacobelli), assieme a E io non ci sto (Longanesi) del
presidente siciliano Rosario Crocetta, artefice della prima esperienza
di collaborazione tra centrosinistra e 5 Stelle. Per quanto riguarda poi
il peso dei nuovi media sul voto, offre dati interessanti l'ebook
Social Winner, a cura di Riccardo Luna e Marco Pratellesi (Il
Saggiatore). Nel contempo lo stallo uscito dalle urne sollecita una
riflessione sui meccanismi elettorali, che lo studioso George G. Szpiro
esplora nel saggio La matematica della democrazia (Bollati Boringhieri).
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