"Se per vincere si deve diventare un’altra cosa, mi chiedo se valga la pena di vincere. E vincere non è una bella parola, nemmeno per un pensatore del conflitto. La sfida è conquistare il consenso, democratico, necessario per governare, rimanendo se stessi, incardinati nelle ragioni storiche della propria parte. Innovando, certo e nel profondo, rispetto alle grandi trasformazioni in atto, nelle forme, nelle idee, nei comportamenti, nella qualità, soprattutto nella qualità, degli uomini e delle donne. Ma in piena libera autonomia. Senza andare a rimorchio del dominante spirito del tempo".
giovedì 4 aprile 2013
Tronti conosce le ragioni per le quali non avrebbe dovuto candidarsi nel PD ma non le riconosce nella realtà
Parole sante, che proprio il PD ha disatteso più di ogni altro partito:
"Se per vincere si deve diventare un’altra cosa, mi chiedo se valga la pena di vincere. E vincere non è una bella parola, nemmeno per un pensatore del conflitto. La sfida è conquistare il consenso, democratico, necessario per governare, rimanendo se stessi, incardinati nelle ragioni storiche della propria parte. Innovando, certo e nel profondo, rispetto alle grandi trasformazioni in atto, nelle forme, nelle idee, nei comportamenti, nella qualità, soprattutto nella qualità, degli uomini e delle donne. Ma in piena libera autonomia. Senza andare a rimorchio del dominante spirito del tempo".
"Se per vincere si deve diventare un’altra cosa, mi chiedo se valga la pena di vincere. E vincere non è una bella parola, nemmeno per un pensatore del conflitto. La sfida è conquistare il consenso, democratico, necessario per governare, rimanendo se stessi, incardinati nelle ragioni storiche della propria parte. Innovando, certo e nel profondo, rispetto alle grandi trasformazioni in atto, nelle forme, nelle idee, nei comportamenti, nella qualità, soprattutto nella qualità, degli uomini e delle donne. Ma in piena libera autonomia. Senza andare a rimorchio del dominante spirito del tempo".
Sinistra, non si cavalca uno tsunami
di Mario Tronti l’Unità 4.4.13
Vediamo.
Intanto riassumiamo. Perché c’è un percorso da ricostruire: molto
eloquente e che fa chiarezza. C’è stata una lunga campagna elettorale,
durata per tutto il tempo del governo Monti in carica. Le elezioni,
anticipate, erano infatti all’ordine del giorno al momento della caduta
rovinosa del governo Berlusconi. Non furono concesse.
Da quelle
sarebbe uscita con tutta probabilità una maggioranza certa, con
governabilità assicurata per cinque anni. Magari con una manovra di
salvataggio senza massacro sociale. Cominciò invece un balletto, con una
musica in crescendo fino al 24 febbraio ultimo scorso. Lo scenario: da
una parte una forza politica destinata ad assumere il governo del Paese,
dall’altra tutte le altre forze politiche, e annessi moVimenti, intente
a impedire, o a limitare, o ad azzoppare, con tutti i mezzi, quella
soluzione. Operazione infine riuscita.
Operazione, però, riuscita a
metà. Perché dalle elezioni esce un centro-sinistra con una maggioranza
assoluta alla Camera e una maggioranza relativa al Senato. Il pericolo
dunque, di una sinistra in qualche modo al governo, era ancora presente.
Di qui, la seconda fase della manovra di ostruzione da opporre a questa
eventualità. Un governo di minoranza era possibile. I precedenti ci
sono e la Carta costituzionale non chiede una maggioranza assoluta per
la fiducia al governo. La coalizione di centro-sinistra aveva diritto e
dovere di andare in Parlamento a presentare la sua proposta di governo. E
bene ha fatto Bersani a chiedere con determinazione questo passaggio.
Non è stato concesso. A mio parere la proposta del governo di minoranza,
monocolore, non di legislatura, ma nemmeno di emergenza, in carica solo
per mettere mano ad alcune urgenze politico-istituzionali ed
economico-sociali, andava presentata da subito all’intero arco delle
forze politiche, con la premessa di un accordo sulle cariche
istituzionali, la presidenza di Commissioni, e il progetto, giusto, del
doppio registro.
Questa era l’iniziativa che spettava a chi, indicato
dalle primarie, aveva condotto la campagna elettorale e vinto appena di
misura nel voto. A mancare l’obiettivo pieno non è stato Bersani.
L’abbiamo mancato tutti: in primo luogo, collegialmente, un partito,
privo di antenne in grado di cogliere lo stato d’animo diffuso nel Paese
reale. E che, qui veramente come tutti gli altri, si affida alla
falsità, manovrata, dei sondaggi. Bersani ha mostrato all’Italia la
faccia della politica seria, responsabile, competente, pulita, di
impronta popolare e capace di governo. Il messaggio è calato in un
contesto malato, inquinato da demagogie populiste, lasciate crescere e
accarezzate fino all’ultimo minuto. Ma con questo contesto, era
esattamente quella faccia che si voleva oscurare. Tanto più che dietro
di essa c’era una storia, che tutto quanto sta avvenendo è incaricato
adesso di portare alla fine. Tutto, compresa quella verità sul voto, da
tutti riprovata, che ha pronunciato, in libertà, un socialdemocratico
tedesco: in Italia hanno vinto due clown. Vittoria, appunto, non
spontanea, ma costruita, con una comunicazione di scopo.
Poi,
qualcosa non è andata nel verso giusto, anche nella nostra iniziativa.
Può darsi che non sia così, ma quanto si è percepito è che, nella
proposta, si è voluto privilegiare la parte meno disponibile a qualsiasi
tipo di accordo, mirando su questo versante alcune proposte di
programma, e risolvendo in quel senso le figure delle cariche
istituzionali. Ora, io penso che alle pulsioni antipolitiche non bisogna
concedere niente, mai. All’irruzione grillina, la risposta era quella
di uno scatto di orgoglio politico. Quello è un vento, forte, un’onda
anomala. Lo tsunami arriva, distrugge e passa. Lascia sul terreno solo
macerie. Tentare di cavalcarlo è impossibile, e ci si fa solo male. Va
semmai previsto, in modo da prendere le misure necessarie per ridurre i
danni. Starei attento a darne la lettura corrente: un evento che,
comunque, opportunamente scuote e costringe a cambiare. Da quella sponda
non si cambia, si abbatte. Qualcuno ricorda queste espressioni? E come
non vederci l’altra faccia della rottamazione? È lo stesso vento. Questo
plebeismo nichilista arriva, ripeto, non a caso, ma come esito naturale
di un’intera stagione.
Tolleranza zero sul linguaggio. Non si parla
con chi parla in quel modo. Il linguaggio politico è importante. Lì si
specchia sempre, anche senza volerlo, quel che si è. E starei attento a
vederci, anche qui, la rappresentazione di domande giuste: ad esempio
l’espressione di una comprensibile rabbia. Se si rappresentano così,
quelle domande, non sono giuste, sono sbagliate. Non vanno assunte,
vanno corrette. Prenderle per buone come tali, porta a risposte
subalterne. Esempio: la rabbia oggi diffusa è sacrosanta, e però male
indirizzata. Ecco, qui luoghi e tempi dell’azione politica. Se per
salire a una carica pubblica si deve presentare al concorso il titolo di
non essere stato, di non essere, di non voler essere un «politico», si
innesca una deriva senza fondo. Se il quarto di nobiltà che devi portare
nella sfera pubblica consiste nel pronunciare la frase liberatoria: non
sono mai stato iscritto a un partito, guardate, qui non c’è il finale
di partito, c’è la fine della Repubblica. Sono molto preoccupato. Non
vorrei essere tornato in Parlamento per assistere, con angoscia, alla
distruzione dell’edificio costituzionale-popolare, di rappresentanza e
non di mandato, a tutti i livelli, che i nostri padri hanno costruito,
combattendo e pensando. Bisogna reagire, indignarsi da questa parte,
dare battaglia. Insisto su questo: spetta alla politica, e in prima
persona alla politica della sinistra, chiarire il punto.
E il punto,
drammatico, è che il disagio sociale, fortissimo, vera e propria
eccezionale emergenza, non si esprime oggi con la politica, ma con
l’antipolitica. Come, perché? Ecco la prima cosa da capire. E da
rimediare. La condizione oggettiva è quella di un disorientamento
politico di massa. Il brodo di coltura viene da lontano, non
contrastato, anzi benevolmente accompagnato, per tutta la vicenda di
questa devastante cosiddetta seconda Repubblica. Di nuovo, c’è un esito
finale, che arriva a colpire le fondamenta del sistema istituzionale.
Alla base c’è il patto di sindacato stretto tra le élites
economico-finanziarie al governo della globalizzazione neoliberista e,
appunto, il populismo antipolitico gestito dalla grande comunicazione.
Esattamente il blocco dominante da combattere e da sconfiggere. Un
lavoro, pratico, ricostruttivo, e di cultura, di lunga lena. Abbiamo
bisogno di tempo. Non farei precipitare la situazione. In questo
frangente è il nostro campo che è stato prima di tutto disordinato.
Bisogna riorientarlo, riorganizzarlo, rimotivarlo. Non ci serve
un’offerta pubblicitaria, superpersonalizzata, formattata secondo i
canoni del mercato elettorale, che ti permetta di competere meglio,
subito, sul terreno dell’avversario. L’ultima cosa da fare adesso è
mettersi a cercare un grillo per la sinistra. Anzi, la penultima. Perché
l’ultima è la pretesa di averlo già trovato, pronto lì a scattare dai
nastri di partenza. Come si dice spesso, per motivi più futili: non
scherziamo!
Se per vincere si deve diventare un’altra cosa, mi chiedo
se valga la pena di vincere. E vincere non è una bella parola, nemmeno
per un pensatore del conflitto. La sfida è conquistare il consenso,
democratico, necessario per governare, rimanendo se stessi, incardinati
nelle ragioni storiche della propria parte. Innovando, certo e nel
profondo, rispetto alle grandi trasformazioni in atto, nelle forme,
nelle idee, nei comportamenti, nella qualità, soprattutto nella qualità,
degli uomini e delle donne. Ma in piena libera autonomia. Senza andare a
rimorchio del dominante spirito del tempo. Raccomanderei ai
trenta/quarantenni, giustamente emergenti, meno giustamente scalpitanti,
di badare, con scrupolosa attenzione, a non far coincidere il ricambio
generazionale con una mutazione genetica. Dietro la fine di una storia
c’è sempre il pericolo di un cambio di campo. Responsabilità e
cambiamento devono valere per noi, prima che per gli altri. E ricordarsi
sempre di stare, anzi di mettersi, sotto gli occhi del nostro popolo.
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