Le eccezioni non mancano e vedono protagonisti piccoli gruppi
intellettuali o movimenti sociali. Preziosa nello svelare il carattere
immanente delle disuguaglianze nel capitalismo è, ad esempio, l'analisi
che da anni conduce il filosofo francese Etienne Balibar, di cui vanno
segnalati, oltre il recente Cittadinanza (Bollati Boringhieri), i
volumi La proposition de l'égaliberté e Citoyen Sujet, entrambi
pubblicati dalla casa editrice Puf. Questo nulla toglie al fatto che,
tanto la precarietà che la disuguaglianza, sono tornate a infoltire di
titoli una pubblicistica impegnata nel riproporre, in forma innovata,
dispositivi keynesiani che hanno garantito al capitalismo oltre
trent'anni di sviluppo. Tra quest'ultimi vanno ricordati il Nobel per
l'economia Joseph Stiglitz, il tedesco Ulrich Beck, l'inglese Anthony
Giddens, il polacco Zygmunt Bauman, lo statunitense Richard Sennett,
cioè i «senza partito» ritenuti le punte di diamante del pensiero
democratico. Tra queste due posizioni, occorre affiancarne un'altra,
che sviluppi una critica alle politiche di austerità, considerando i
«senza partito» democratici interlocutori, senza rinunciare
all'obiettivo di una sintesi tra eguaglianza e libertà, all'interno di
una superamento del lavoro salariato, di cui la precarietà è solo
l'ultima manifestazione, in ordine di tempo.
La costante neoliberista
Rilevante a questo fine è prendere atto che, sia nello spazio nazionale
che in quello europeo, la condizione precaria e le disuguaglianze sono
oggetto di politiche sociali che tendono a contenere gli effetti
destabilizzanti all'interno del modello di accumulazione capitalistica
neoliberista. Come ha argomentato Maurizio Lazzarato nella raccolta di
scritti da poco pubblicata dalla casa editrice ombre corte, Il governo
delle disuguaglianze è da considerare una costante del neoliberismo,
sgomberando così il campo della retorica dello stato minimo che ha
accompagnato il lungo inverno della controrivoluzione neoliberale. Lo
stato, argomenta in maniera convincente l'autore, è lo strumento per
assicurare la gestione e la legittimità delle disuguaglianze, ma anche
per plasmare un «uomo nuovo», quell'individuo proprietario che doveva
diventare il perno su cui far ruotare l'insieme delle relazioni sociali e
attorno al quale costruire un nuovo progetto di società dove l'insieme
delle tutele sociali e i diritti sociali della cittadinanza siano
merce da acquistare sul mercato della protezione sociale. Che questo
sia lo scenario che ha caratterizzato il neoliberismo non ci sono molti
dubbi. Soltanto che dal 2008 il dominante governo delle disuguaglianze
è entrato in crisi.
Il capitalismo ha visto non solo crescere la povertà, ma anche una
diffusa indisponibilità di uomini e donne a fare proprio l'incubo
dell'individuo proprietario. Indisponibilità che si è tradotta nelle
forme ambivalenti del populismo, nell'esplosione di rivolte sociali che
hanno attraversato gli Stati Uniti e l'Europa. E nella crescita, in
alcuni paesi del vecchio continente, come l'Italia, la Spagna e la
Grecia, dell'astensionismo elettorale. Ed è proprio in Europa e negli
Stati Uniti che l'attenzione e la denuncia della precarietà e delle
disuguaglianze è più forte. Anche in questo caso, le posizioni che si
contendono l'arena pubblica si concentrano sulle politiche adeguate per
affrontare una «questione sociale» che viene spesso paragonata a
quella di fine Ottocento o a quella successiva alla «grande crisi» del
'29. E se la troika europea subordina l'accesso ai diritti sociali di
cittadinanza all'accettazione della precarietà, negli Stati Uniti le
disuguaglianze sono l'esito di una economia di mercato andata fuori
controllo.
Nel suo ultimo libro - Il prezzo delle disuguaglianza, Einaudi, pp.
473, euro 23 - Joseph Stiglitz denuncia la crescita del reddito dei
dirigenti di impresa e quello del lavoro dipendente. Il panorama
sociale al di là dell'Atlantico vede una minoranza di super ricchi e
una numeroso esercito costituito da ceto medio impoverito e working
poor. Per il premio Nobel per l'economia, se continuano così, gli Stati
Uniti non solo sono destinati a un lento declino economico, ma
vedranno lo sbriciolamento delle sue stesse fondamenta democratiche. Da
qui, la sua valorizzazione di Occupy Wall Street, cioè un movimento
che ha come collante proprio la denuncia della polarità esistente tra
il 99 per cento della popolazione impoverita e il restante un per
cento. La via d'uscita proposta è il ritorno a politiche redistributive
del reddito, a un limitato intervento dello Stato in economia per lo
sviluppo delle infrastrutture necessarie a rendere competitive imprese
sempre più globali, investimenti nella formazione e politiche volte a
garantire una diffusa assistenza sanitaria.
Al di qua dell'Atlantico, gli fa idealmente eco il pamphlet di Zygmunt
Barman che denuncia la falsità della retorica dominante seconda la
quale La ricchezza di pochi avvantaggia tutti (Laterza, pp. 100, euro
9). Anche in questo caso, il dito è puntato contro il crescente divario
di reddito che caratterizza le società europee e statunitensi. A
differenza di quella svolta da Stiglitz, ci troviamo però di fronte a
un'analisi che lega disuguaglianze e precarietà, dove il secondo
termine indica l'esito di quel dissolvimento delle istituzioni della
modernità che Barman ha più volte posto come esito dell'avvento della
società liquida.
Cacciatori di innovazione
Quello che però né Stiglitz né Bauman affrontano è il venir meno del
nesso tra cittadinanza e lavoro. Nella condizione precaria, infatti,
l'accesso ai diritti di cittadinanza garantiti dallo stato nazionale è
interdetto, mentre il regime di accumulazione ha necessità di attivare
un ciclo continuo di innovazione, sempre più delegato al lavoro vivo.
La precarietà, dunque, va considerata come la condizione propedeutica
affinché le imprese possano attingere a un bacino di expertise in un
mercato del lavoro che non prevede più la stabilità nel rapporto
professionale. È dunque un dispositivo che consente la «cattura» della
capacità innovativa del lavoro vivo.
In una importante analisi delle tesi di Bauman e Sennett, la filosofa
italiana Ilaria Possenti ne delinea, nel volume Flessibilità (ombre
corte, pp. 195, euro 18), alcuni dei tratti distintivi. Adattabilità a
cambiamenti repentini del processo lavorativo, gestione individuale del
rischio, sviluppo e cura delle rete sociali che consentono di poter
gestire l'intermittenza della presenza nel mercato del lavoro. Se per i
neoliberisti, tutto ciò significa diventare «imprenditori di se
stessi», per Ilaria Possenti queste sono le caratteristiche del
«precario», figura lavorativa che sembra calzare a pennello per le
giovani generazioni, ma che Sennett considera prerogative dell'antica
figura dell'artigiano ritornata in auge nel capitalismo contemporaneo.
Nei suoi ultimi scritti - L'uomo artigiano e Insieme, entrambi
pubblicati da Feltrinelli - Richard Sennett afferma che stiamo
assistendo alla rivincita del lavoro concreto sul lavoro astratto, che
dovrebbe consentire di far tornare a un livello socialmente accettabile
le diseguaglianze. Ciò che non convince dell'analisi di Sennett non è
solo la sua apologia del lavoro artigiano, ma la rimozione del fatto
che sono proprio quelle caratteristiche che egli assegna al lavoro
concreto ad entrare in campo nei processi di valorizzazione
capitalistica. Più la precarietà diviene norma generale, più il
processo di espropriazione della capacità innovativa del lavoro vivo è
quindi garantito. La precarietà è cioè il dispositivo che regola i
rapporti tra capitale e lavoro vivo.
Le linee del colore, la differenziazione generazionale, la
contrapposizione tra permanenti e temporanei sono dunque da considerare
forme di governance del mercato del lavoro, scandito appunto dalla
precarietà. In altri termini, le differenziazioni generazionali, di
razza e sessuali sono parte integrante di quel governo delle
disuguaglianze che, anche se in crisi, è lo sfondo entro cui collocare
il tema della precarietà.
La missione impossibile
Tutto ciò può servire a quell'attraversata del deserto che il pensiero
critico sta compiendo. Va detto che molte altre sono le acquisizioni
che ha tratto dal neoliberismo, meglio dal capitalismo contemporaneo.
Tra queste, l'impossibilità di un ritorno alle norme che regolavano il
rapporto tra capitale e lavoro nel passato. La precarietà non è infatti
un incidente di percorso, ma il presente e il futuro del lavoro vivo.
L'altro aspetto che è stato reso evidente dai movimenti sociali di
questi anni è l'indisponibilità a funzionare come oggetto passivo. Ci
sono stati processi di organizzazione del precariato, mentre il tema del
reddito di cittadinanza è entrato a far parte del lessico politico
tanto in ambito nazionale che sovranazionale. Il rischio che si corre è
che precarietà e reddito siano ridotti a significanti vuoti da riempire
secondo i vincoli dettati, appunto, dal «governo delle
disuguaglianze».
In ambito europeo, ad esempio, precarietà e continuità di reddito sono
temi affrontati all'interno di politiche di workfare: si accede al
reddito solo se si è disponibili a svolgere un lavoro qualunque esso
sia. La precarietà è qui declinata secondo le politiche di austerità
imposte dalla troika ai paesi dell'Unione europea. In ambito nazionale,
il reddito di cittadinanza è relegato da forze ritenute antisistema -
il movimento cinque stelle - nell'ambito di un misero sussidio di
disoccupazione al quale gli «intermittenti» del mercato del lavoro hanno
diritto, additando i dipendenti del settore pubblico come dei
«privilegiati».
La posta in gioco, tuttavia, è di prospettare il reddito di
cittadinanza come un flessibile strumento per quella mission impossible
che è la sintesi tra eguaglianza e libertà, all'interno di un
superamento del regime fondato sul lavoro salariato.
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