lunedì 8 aprile 2013

Vitiello e l'Unità consolano Cacciari ma trovano tempo per la seconda recensione a un libro di De Giovanni in due mesi

Ma solo perché nella scuola heideggeriana - anche quella di casa nostra - poche sono le cose degne di essere pensate. Anzi in fondo è una sola [SGA].

Il potere e la massa
A confronto i libri di Cacciari e De Giovanni L’uno parte da Rousseau, per analizzare quel fenomeno complesso che ha soppiantato il popolo L’altro muove da più lontano: ovvero dal concetto paolino di «katéchon»


DUE LIBRI ESSENZIALI PER COMPRENDERE QUESTO NOSTRO MONDO. PUBBLICATI L’UNO A RIDOSSO DELL’ALTRO, Alle origini della democrazia di massa. I filosofi e i giuristi (Editoriale Scientifica, Napoli, 2013) di Biagio de Giovanni, e Il potere che frena (Adelphi, Milano 2013) di Massimo Cacciari, distanti per stile, metodo di analisi, temi ed autori di riferimento, s’incontrano in un punto, fondamentale: quello della «mediazione». Ma il punto d’incontro è anche quello che segna la massima distanza.
De Giovanni parte da Rousseau, per analizzare quel fenomeno complesso che ha fatto irruzione nell’età moderna: la «massa» – la massa non il «popolo»; Cacciari muove da più lontano: dal concetto paolino di katéchon (da cui il titolo del libro), per disegnare, per tratti essenziali, la storia teologico-politica dell’Occidente. Inizio dal secondo testo per porre a fuoco il tema.
LA RIVELAZIONE DEL MALE
Nella II Lettera ai Tessalonicesi (scritta non da Paolo, ma certamente nel suo spirito) il potere che frena segna la penultima età della storia del mondo: l’età dominata dall’uomo dell’iniquità, che pretende sostituirsi a Dio, l’età del male assoluto, che solo Cristo distruggerà. Cosa frena il katéchon? Cosa arresta? La rivelazione piena dell’Empio, del Male assoluto. Ritarda quindi anche l’apocalisse, la rivelazione del Signore, la sconfitta dell’iniquo. È allora a servizio del Male il potere che frena? Troppo semplice. Il potere che frena ha certamente rapporto col male assoluto, ma non è riducibile a suo strumento. Serve, infatti anche il Bene, impedendo che nell’attesa dell’ultimo, dell’éschaton, gli uomini che hanno scelto Cristo si considerino già puri, perfetti, al riparo dell’Empio. Il katéchon è strumento del potere tout-court. Meglio, è il potere: sia quello che deriva immediatamente dall’alto, che è a servizio dalla Universale Legge di Dio, sia quello che nascendo dal basso, dalla volontà e dall’intelligenza dell’uomo avverte la necessità di un Ordine superiore, universale. Le due Città, la Celeste e la terrena non sono separate. Il katéchon è ciò che le tiene insieme. Ma per tenerle in uno deve partecipare di entrambe. La «mediazione» è questa «doppiezza» che si espande in tutta la storia, caratterizzando le istituzioni nei loro rapporti esterni come al loro interno. L’Impero non regge senza il potere che frena l’anomìa, che dà stabilità alle sue leggi, che s’oppone a quanto gli è esterno e lo minaccia; ma neppure regge se non dà spazio al nuovo, se in qualche modo non cede al potere avverso, aprendosi all’altro. Invero, col dare spazio al potere avverso, all’anomia del cambiamento, all’altro da sé, il potere che frena si difende dall’avversario che gli è cresciuto dentro, e cioè, da se stesso, dal puro esercizio del potere d’arresto che porta alla morte. Il medesimo va ripetuto riguardo alla Chiesa, che dev’essere al contempo nel secolo e contro, dovendo far uso del potere dell’Avversario per contrastarlo e vincerlo. Non possiamo qui soffermarci sulle varie figure della storia teologico-politica tracciata da Cacciari; ciò che in questa sede ci interessa rilevare è che, in questa fenomenologia del potere illustrata per exempla, il katéchon scandisce il ritmo del tempo storico, l’Evo, l’Aión dell’Occidente, definendone gli orizzonti, le epoche. Sino..., sino al suo tramonto.
Al tramonto del katéchon, della «mediazione» con cui inizia il pieno disvelamento dell’homo iniquitatis, l’età della pura anomìa, dell’assenza di legge, che è insieme l’età della tirannia, della legge del più forte. Difficile leggere queste pagine senza che ci sorgano innanzi le più desolanti immagini del nostro tempo, in particolare del «qui ed ora» del nostro Paese. La conclusione di Cacciari è amara: «Prometeo si è ritirato – o è stato di nuovo crocefisso alla sua roccia. E Epimeteo scorrazza per il nostro globo, scoperchiando sempre nuovi vasi di Pandora». I nomi di antiche mitologie alludono a un ricorso storico? La domanda è legittima, non differenziandosi poi tanto l’età di Epimeteo dal «bazar di costituzioni» come Platone definiva quella forma degenere di vita politica, «donde nasce la tirannide».
Alla scrittura nervosa di Cacciari: periodi brevi, connessioni inattese e ribaltamenti continui del fronte dell’argomentazione, affermazioni decise – «il katéchon sa che questa Ora è l’ultima, e non ce ne saranno altre» –, fa da contrasto il periodare disteso, calmo di de Giovanni: ampia trama argomentativa, analisi dettagliate di testi, insistiti confronti tra autori diversi, scelte ermeneutiche cautamente presentate come soggettive prospettive di lavoro.
S’avverte la lunga frequentazione di testi giuridici, e la passione per il diritto come luogo privilegiato dell’esperienza di vita. Ed infatti nel rapporto tra filosofi e giuristi la ragione, per de Giovanni, sta più dalla parte di questi, che non di quelli. La ‘ragione’, vale a dire: la capacità di riconoscere il potere di mediazione delle forme che danno stabilità ed ordine all’ingens sylva della vita immediata. È questo il centro focale dell’amplissimo panorama storico e teorico di questo libro, in cui sono esaminate e discusse non solo le grandi figure del pensiero filosofico e giuridico dal Settecento ad oggi – sino Foucault e a Heller, per intenderci –, ma anche autori minori, e quando non minori trascurati, come Santi Romano, che de Giovanni studia in rapporto diretto con Kelsen, confrontando la dottrina istituzionalista del diritto con quella formalista: «in Romano – conclude – l’identità tra Stato e diritto era pensata in modo tale da escludere ogni visione statalistica e legalistica del diritto stesso. In Kelsen, in fondo, il diritto produce lo Stato e solo lo Stato. Ma per ambedue il diritto è potenza produttiva, creatrice di realtà».
LA COMUNITÀ DI CIVES
Di quale realtà? La realtà della trasformazione della «massa» informe in popolo, in comunità di cives. Trasformazione possibile solo per il potere della forma che dà ordine e stabilità al magma della vita. L’“algido formalismo” della Dottrina pura del diritto superato e vinto in virtù dell’informe ricchezza della vita che agita la «massa»? È l’opposto, il disordine della materia, che accende la potenza della forma, che mette in opera il potere che frena?
De Giovanni ha ben presente il pericolo della democrazia di massa, il cesarismo (già denunciato da Max Weber, al quale dedica un capitolo fondamentale del libro), insito nella concezione organica dello Stato, e cioè nel rifiuto della rappresentanza politica; apre infatti l’Introduzione con queste parole: «Il dispotismo non è il rovescio patologico della democrazia, ne è piuttosto (...)un compagno che sta annidato nel suo stesso principio». Anche qui s’ode la voce del nostro tempo. Ma se così stanno le cose, come ancora aver fiducia nel katéchon delle forme giuridiche? Talora nella pagina di de Giovanni s’affaccia l’idea che la forma sia già in potenza nell’ingens sylva della massa. È la concezione classica di storia e di politica, che qui ricorre: l’idea del circolo virtuoso tra physis e telos, natura e ragione, materia e teleologia. Ma è compatibile la massa descritta in tutto il libro da de Giovanni con questa idea, e con la prassi che questa idea fonda e presuppone: la mediazione?
I giorni che stiamo vivendo danno una risposta fortemente negativa.

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