
Hannah Arendt, Joachim Fest:
Eichmann o
la banalità del male. Interviste, lettere, documenti, Giuntina, pp. 214, € 14
Risvolto
Una violenta polemica a livello internazionale
avevano scatenato gli articoli sul processo svoltosi a Gerusalemme
contro il criminale nazista Adolf Eichmann raccolti da Hannah Arendt nel
suo celebre quanto controverso libro "La banalità del male". Come
poteva un semplice burocrate essere responsabile dello sterminio di
milioni di persone? Come poteva il "male" essere definito "banale"? Per
discutere e chiarire queste e altre inquietanti domande non c'era forse
interlocutore più adatto che lo storico Joachim Fest, già noto per i
suoi studi sui gerarchi del Terzo Reich e che si fece presto apprezzare
come autore delle monumentali biografie su Hitler e Speer. Le complesse
questioni storiografiche e filosofiche che s'intrecciavano nel libro su
Eichmann le troviamo approfondite in tutta la loro vitalità e attualità
anche in questo volume, che oltre ai principali documenti della
controversia intorno al libro di Hannah Arendt pubblica l'intervista del
1964 con Joachim Fest, ritrovata solo di recente, e le inedite lettere
che i due si sono scambiati fino al 1973.
Arendt e Eichmann la stupidità del maleCosì, a confronto con Joachim Fest, la filosofa approfondì la sua analisi su uno dei maggiori responsabili della Shoah
di Gian Enrico Rusconi La Stampa 28.5.13
«Più che della “banalità del male” si dovrebbe parlare della banalità
delle conclusioni della signora Arendt. Il processo ad Eichmann fu fatto
da ignoranti, voluto da Ben Gurion per giustificare la fondazione dello
Stato di Israele. Hannah Arendt, che aveva seguito tutto da lontano,
racconta un sacco di assurdità». Queste parole pronunciate giorni fa a
Cannes, con la consueta passione, da Claude Lanzmann, autore del film
Shoah, ripropongono la polemica violentissima scoppiata negli Anni 60
all’uscita dell’ormai celebre libro della filosofa ebrea, tedesca,
americana Hannah Arendt, La banalità del male, appunto.
È una polemica «fuori tempo»? No. C’è infatti il rischio che la
ricezione di questo libro diventi essa stessa banale (è inevitabile
questo gioco di parole perché fa parte del problema). Che l’opera sia
citata quasi esclusivamente per il suo titolo, ignorandone la
complessità, la tortuosità e la problematicità.
Siamo quindi grati all’editore Giuntina d’avere tradotto in italiano un
libro che inquadra e fa la sintesi di questa problematica ( Hannah
Arendt, Joachim Fest, Eichmann o la banalità del male. Interviste,
lettere, documenti, pp. 214, € 14). In esso troviamo una documentazione
accurata della polemica iniziata nel marzo 1963 in America
dall’Organizzazione degli ebrei emigrati dalla Germania e proseguita con
moltissimi interventi tra cui quelli di personaggi di spicco come Golo
Mann e Mary McCarthy.
Si è trattato di un vero e proprio processo alle intenzioni e ad alcune
tesi del libro che investono non soltanto la personalità di Eichmann ma
anche la corresponsabilità dei Consigli ebraici nell’organizzazione
della deportazione e quindi della eliminazione degli ebrei. Hannah
Arendt lo ha definito «il capitolo più fosco di tutta quella fosca
storia». In effetti è un tema terrificante e tuttora controverso, in cui
guazzano anche incorreggibili antisemiti e negazionisti. Quanto a
Eichmann, «altro che burocrate ottuso: era un demonio: violento,
corrotto, furbissimo», prosegue oggi Lanzmann, respingendo tutti i
tentativi della Arendt di darne un’immagine diversa, anche se negativa.
Già nel 1964 Golo Mann aveva riconosciuto che la Arendt aveva tracciato
un ritratto a suo modo fedele di Eichmann. «Non si trattava di un
mostro, di un sadico, nemmeno di un fanatico antisemita, bensì di un
uomo oltremodo comune: ambizioso quanto altri, obbediente, scaltro e
stupido quanto altri; rispetto alle persone più colte era animato da un
misto di ammirazione e risentimento; fiutò delle opportunità per una
nuova carriera bramoso di svolgere il grande compito omicida in maniera
puntuale come qualsiasi altro compito gli fosse assegnato». Dove sbaglia
allora l’autrice? Il fatto che fosse un essere razionale e non un
idiota, che fosse un marito tenero e un padre amorevole, nonché un amico
disponibile non giustifica - scrive Golo Mann - che Eichmann venga
presentato «così innocuo e bonario come lo dipinge la Arendt. Con
osservazioni del genere non si risolve il problema della crudeltà e
diabolicità dell’uomo».
Ecco il punto: il contrasto tra la «normalità persino bonaria
dell’individuo e la mostruosità e diabolicità del suo comportamento» non
può essere liquidato come «banalità del male». Questa definizione è
frutto di una «saccente dialettica che genera una notte in cui i buoni
non sono buoni e i cattivi non sono cattivi».
Non era certamente questa l’intenzione della Arendt. Ma per sostenere la
sua tesi non usa argomenti del tipo: sì, anche l’uomo comune - immesso
in un meccanismo più grande e potente di lui - si deresponsabilizza
arrivando a comportarsi come un mostro. L’autrice non descrive Eichmann
come un impotente automa. Analizza puntigliosamente quanto sia lucido e
consenziente, accetti e si identifichi consapevolmente con la funzione
che esercita perché lo fa sentire «potente» al punto che senza di essa
perde la sua stessa identità. L’autrice non dice neppure che «un
Eichmann alberga in noi, ciascuno di noi ha dentro di sé un Eichmann».
No. La sua spiegazione è più impegnativa anche se a prima vista
sconcertante: Eichmann - dice - è «stupido». Lo spiega in una
conversazione radiofonica con Joachim Fest dopo aver raccontato un
episodio (ripreso da Ernst Jünger) di «normali» contadini tedeschi che
trattano come esseri subumani prigionieri russi perché questi per fame
rubano il cibo dei porci. Era questa «la stupidità scandalosa» che pure
Eichmann condivideva in un universo di rapporti diverso. «Ed è questo
che propriamente ho inteso quando parlai di banalità. In ciò non c’è
nulla di abissale, cioè di demoniaco. Si tratta semplicemente della
mancata volontà di immaginarsi davvero nei panni degli altri».
È facile immaginare quanto insoddisfacente suoni questa risposta,
soprattutto per le vittime che si sono trovate davanti alla brutalità e
al sadismo di questi «uomini comuni», «stupidi», «incarnazione della
persona media». La nostra insoddisfazione è mitigata se leggiamo e
inquadriamo queste tesi, che suonano un po’ astratte, nel contesto delle
conversazioni tra Hannah Arendt e Joachim Fest, che si svolgono nel
periodo in cui quest’ultimo sta lavorando e pubblicando le sue biografie
su Hitler e Albert Speer. È evidente che i due autori si scambiano
simpateticamente riflessioni che nella diversità delle sensibilità hanno
in comune l’interesse di conoscere quel mondo «borghese» o
semplicemente quel «tedesco medio» che è stata la vera spina dorsale del
regime nazionalsocialista. Apparentemente c’è poco in comune tra il
burocrate Eichmann e il brillante architetto Speer, intimo di Hitler. Ma
si intuisce lo stesso universo di seduzione e complicità che porta in
grembo la nuova tipologia criminale, che la Arendt ha creduto di fissare
nel concetto di «banalità del male».
Lanzmann riabilita quel rabbino «ultimo degli ingiusti»
Giuseppina Manin Corriere 20 maggio 2013
Anna Foa Avvenire 31 maggio 2013
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