giovedì 16 maggio 2013

Keynesismo dei sogni "alla Repubblica": per una botte piena e una moglie ubriaca, e pure bona

Per un capitalismo sostenibile
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini Repubblica 16.5.13

Circa un mese fa è scoppiato un nuovo scandalo fiscale, Offshore leaks, che coinvolge politici e uomini d’affari di tutto il mondo. Si tratta di un fenomeno assolutamente prevedibile, insito nella natura del capitalismo finanziario che si è affermato dai primi anni ’80. Per capire come si è arrivati a questo punto è utile richiamare le grandi trasformazioni del sistema capitalistico.

Nella prima fase che segna l’affermazione del capitalismo industriale, il profitto viene estratto dallo sfruttamento del lavoro. Il conflitto sociale nasce dalla contrapposizione tra gli interessi capitalistici e quelli della democrazia politica: da una parte i rendimenti del capitale, dall’altra i redditi da lavoro sostenuti dal sindacato e promossi dallo sviluppo della democrazia. La composizione tra queste due esigenze è affidata a politiche dei redditi che si esprimono attraverso una distribuzione proporzionale all’aumento della produttività. La libertà nello scambio delle merci è “compensata” da controlli di varia natura sul movimento dei capitali. L’insieme di queste politiche sociali, commerciali e finanziarie permette di promuovere una fase caratterizzata da crescita economica e maggiore eguaglianza: l’età dell’oro (1945-1973). Dopo il primo shock petrolifero, la situazione muta radicalmente: si scatena una controffensiva capitalistica segnata dalla liberazione del movimento dei capitali. Agli inizi degli anni ’80 si verifica dunque una transizione dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario mentre il profitto è realizzato sempre più attraverso la mobilità del capitale che assicura rendimenti più elevati. La tassazione dei capitali da parte dello stato viene contrastata con un progressivo occultamento dei redditi nei “paradisi fiscali”. Nel luglio 2012 uno studio di James Henry McKinsey, stimava il patrimonio nascosto dai super-ricchi nei paradisi fiscali in oltre 32mila miliardi di dollari, una cifra equivalente alla somma delle economie degli Stati Uniti e del Giappone. In questa fase, il capitalismo realizza l’obiettivo mancato dal movimento operaio: una vera e propria “internazionale capitalistica” che provoca enormi diseguaglianze tra capitale e lavoro e minaccia di deprimere la domanda. Questa minaccia viene fronteggiata con un indebitamento sistematico che dà luogo a una “grande sbornia” del credito: una vera e propria inflazione finanziaria. L’indebitamento delle famiglie e delle imprese che ne risulta viene sistematicamente rinnovato così da rendere il nuovo capitalismo finanziario un sistema nel quale i debiti non si rimborsano mai. Una scommessa chiaramente insostenibile eppure incentivata dai governi e avallata dalle agenzie di rating contro ogni logica. Ma le onde del debito che si accavallano l’una sull’altra, prima o poi si infrangono sulla riva. È il momento della crisi. L’immensa liquidità creata dalle banche e dagli altri intermediari finanziari si essicca di colpo. La liquidità sparisce. Le banche cessano dal farsi credito tra di loro. Ma i debiti restano e devono essere pagati.
Per salvare il capitalismo dal collasso vengono mobilitate risorse pubbliche di una portata mai vista nella storia contemporanea. A differenza degli anni Trenta, quando vi furono massicci interventi statali nell’economia reale (protezionismo, nuove regole, nazionalizzazioni), la crisi attuale è stata fronteggiata attraverso la sostituzione del debito privato con quello pubblico e con l’espansione della moneta da parte delle banche centrali. L’intervento dello Stato ha privilegiato il salvataggio delle banche mentre è stato molto debole sul lato della crescita. E così che i governi sono “puniti” per i loro disavanzi dalle agenzie di rating e riducono le spese sociali addossando i costi della crisi ai ceti più deboli.
In conclusione: gli interventi finora attuati sono stati insufficienti e dannosi. Oggi sarebbe quanto mai necessario un nuovo compromesso storico tra il capitalismo e la democrazia, del tipo di quello che contraddistinse, alla fine della Seconda guerra mondiale, l’età dell’oro. Abbandonare il capitalismo finanziario sregolato per tornare a un capitalismo governato. Costruire un nuovo sistema di relazioni internazionali in cui il dollaro non sia più la moneta dominante. Contenere i movimenti di capitale di brevissimo termine con misure fiscali del tipo Tobin tax e dichiarare una vera “guerra” ai paradisi fiscali. Ridurre i divari nella distribuzione della ricchezza non solo perché diseguaglianze troppo marcate sono moralmente inaccettabili ma perché costituiscono un freno allo sviluppo dell’economia.
Uno sviluppo economico sostetato si deve fondare su investimenti, crescita della produttività e dei salari reali. Per questo la politica dei redditi deve ritornare al centro
della politica economica.


Nella storia Usa i maggiori deficit sono frutto dei governi di destra
I conti sbagliati dei conservatori
di Paul Krugman Repubblica 16.5.13

La dottrina keynesiana afferma che nei periodi di recessione occorre aumentare la spesa pubblica Ma anche che i tempi di crescita sostenuta siano il momento giusto per ripianare i debiti

A questo punto l’argomentazione economica a favore dell’austerità – del decurtare gli interventi statali a dispetto di un’economia debole – è crollata. La convinzione secondo la quale i tagli alla spesa avrebbero di fatto incentivato l’occupazione promuovendo la fiducia è venuta meno. La presunta esistenza di una sorta di linea rossa del debito che i Paesi non oserebbero oltrepassare ha dimostrato di poggiare su dei calcoli confusi e per certi versi, semplicemente, sbagliati. Le previsioni di una crisi fiscale continuano a non avverarsi, mentre quelle di un disastro determinato dalle stringenti norme di austerità si sono dimostrate sin troppo accurate.
E tuttavia, gli appelli che invocano un’inversione della distruttiva rotta verso l’austerità continuano a cadere nel vuoto, o quasi. Ciò riflette, in parte, gli interessi acquisiti – dal momento che una politica di austerity giova agli interessi dei ricchi creditori; e in parte la riluttanza delle persone influenti ad ammettere i propri errori. Ritengo però che vi sia un ulteriore ostacolo al cambiamento, rappresentato da un cinismo diffuso e profondamente radicato rispetto alla capacità dei governi democratici di cambiare rotta una volta che hanno intrapreso una politica di stimolo economico.
Perlomeno in America, ci siamo quasi sempre comportati in maniera fiscalmente responsabile, con una sola eccezione – ovvero, nel caso dell’irresponsabilità fiscale che prevale quando, e solo allora, al potere vi sono degli irriducibili conservatori.
Negli Stati Uniti le iniziative di intervento statale mirate a incoraggiare l’economia sono di fatto rare – il “New Deal” di Roosevelt e, in misura assai minore, il “Recovery Act” del presidente Barack Obama rappresentano gli unici esempi di rilievo. E nessuna di queste due iniziative è diventata permanente – anzi: entrambe sono state ridimensionate decisamente troppo presto. Roosevelt ridusse radicalmente la propria nel 1937, gettando nuovamente l’America nella recessione; quanto agli effetti del “Recovery Act”, dopo aver raggiunto il loro culmine nel 2010 si sono affievoliti – e questo affievolimento è una delle cause principali della nostra lenta ripresa. Che dire inoltre delle iniziative pensate per aiutare coloro che sono stati colpiti da un’economia depressa? Non rischiano forse di diventare permanenti? Anche in questo caso la risposta è negativa. I sussidi di disoccupazione hanno fluttuato con il fluttuare del mercato del lavoro, e rappresentano una percentuale del Pil che è addirittura la metà rispetto alla soglia da loro raggiunta durante un recente picco.
L’intera nozione di permanenza degli stimoli è dunque una fantasticheria camuffata da cocciuto realismo. Tuttavia, anche se non pensate che gli stimoli durino per sempre, l’economia keynesiana non afferma solo che nei momenti difficili occorre spendere in deficit, ma anche che in tempi di prosperità sia necessario ripianare i debiti.
Inoltre, ripercorrendo la storia degli Usa dalla seconda Guerra mondiale in poi, scopriamo che dei dieci presidenti che hanno preceduto Barack Obama sette hanno terminato il proprio mandato con un rapporto tra debito e Pil più basso di quello che avevano trovato al loro arrivo alla Casa Bianca. Quali sono state le tre eccezioni? Ronald Reagan e i due George Bush. Gli aumenti del debito pubblico non riconducibili a una guerra o a una crisi finanziaria straordinaria sono dunque del tutto associati a dei governi irriducibilmente conservatori. Tale associazione ha un motivo: da tempo i conservatori Usa seguono la strategia dell’“affamare la bestia” – ovvero: decurtare le tasse in modo da privare il governo delle entrate di cui ha bisogno per finanziare le proprie iniziative sociali.
Il buffo è che oggi questi stessi conservatori irriducibili dichiarano che in un momento di crisi economica aumentare il deficit non sia possibile. Perché mai? Perché, dicono, nei momenti di prosperità i politici non faranno ciò che sarebbe giusto fare, ovvero ripianare il debito. A quali politici irresponsabili si riferiscono? Lo avete indovinato: a loro stessi.
Mi sembra una versione “fiscale” della classica definizione del termine yiddish chutzpah – la sfacciata impudenza di colui che dopo aver ucciso i propri genitori esige comprensione perché rimasto orfano. Nel nostro caso, ci troviamo di fronte a dei conservatori che ci dicono che dobbiamo stringere la cinghia, a dispetto della disoccupazione di massa, perché in caso contrario, una volta che l’emergenza sarà terminata, i conservatori a venire continueranno ad allargare i deficit.
Messa in questi termini, naturalmente, la situazione appare ridicola. Ma non lo è. È tragica. La disastrosa svolta verso l’austerità ha distrutto milioni di posti di lavoro e rovinato molte famiglie. È arrivato il momento di invertire la rotta.
(Traduzione di Marzia Porta)


POST-AUSTERITY
La fine di un’ideologia moralista che ha aggravato la crisi

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