Accesso alla conoscenza
Vitale polemizza, sulla base di osservazioni storiche passate
sbrigativamente in rassegna, con il paragone cui fanno ricorso Negri,
Hardt ed altri, tra le enclosures, le recinzioni dei campi aperti tra
il XV e il XIX secolo, soprattutto in Inghilterra, e i processi di
privatizzazione neoliberisti. Non vi era bisogno di scomodare gli
storici per capire che si tratta di un espediente illustrativo e di un
riferimento teorico esemplare al posto che Marx aveva conferito alla
privatizzazione delle terre nella genesi del capitalismo. E che mira
semplicemente a evidenziare due fatti.
Il primo è che la cosiddetta accumulazione originaria e cioè il ricorso
a mezzi extraeconomici e di natura violenta per istituire determinate
condizioni di produzione non è il peccato originale del capitalismo,
consumato una volta per tutte, ma un fatto ricorrente, una necessità
ciclica. Il secondo è che non stiamo parlando della sottrazione di
saperi ancestrali ed erbe magiche a questo o quel gruppo etnico, ma di
un sistema di brevetti, copyright e diritti proprietari che fanno
costare assai caro, quando non ostacolano direttamente, il progresso
dell'«illuminismo» così caro al nostro autore. Di questo fenomeno diede
una descrizione per nulla oscura e molto pragmatica Jeremy Rifkin in
un libro di diversi anni fa: L'età dell'accesso. Non vogliamo usare il
termine enclosure? Pazienza. Fa lo stesso.
L'inclusione del sapere nel catalogo dei «beni comuni» minacciati di
recinzione o è una pura e semplice banalità o significa opporsi
all'estensione e al rafforzamento del controllo delle multinazionali
sull'«accesso» alle conoscenze, ai dati e alle procedure. Tendenza alla
quale, si deve convenire con l'autore, risponderebbe in maniera
efficace e del tutto indenne da pulsioni comunitariste anche il
costituzionalismo di diritto privato sostenuto da Luigi Ferrajoli, che
distingue tra beni patrimoniali e beni fondamentali non negoziabili, i
quali non sono solo «comuni», ma anche personali e sociali.
Fatto sta che il confine tra queste categorie non è fissato nel cielo
delle idee e delle forme giuridiche, ma determinato storicamente dai
rapporti di forza nella società. È insomma oggetto di conflitto. Un
conflitto messo in moto, fra l'altro, dall'esperienza del «male
comune», che non è affatto, come sostiene il proverbio, un mezzo
gaudio, ma, per esempio, lo sfruttamento o l'appropriazione privata in
quanto riduzione delle nostre libertà. E, stando all'antico testamento,
anche il lavoro.
Vitale rimprovera i cosiddetti «benecomunisti» di ignorare allegramente
la lezione del realismo politico. Una volta stilato l'elenco sempre
più vasto ed eterogeneo dei beni comuni, ritenuti tali per loro natura,
si pretende semplicemente il riconoscimento giuridico del loro
primato. Si omette così il fatto che il carattere «comune» non esisteva
già da sempre, ma prende forma attraverso l'appropriazione, materiale
prima ancora che politico-giuridica, da parte di un soggetto
collettivo.
Così è per le terre, per un centro sociale, per un edificio o per
l'accesso ai contenuti culturali e informativi nella rete. E così è
anche per quella cooperazione sociale e produttiva che, come ci
spiegava Marx, si dà come potenza del capitale, come proprietà del
padrone, fino a quando le soggettività che vi partecipano non se la
appropriano eliminando il potere che la controlla e la sua forma
giuridica.
Il «comune» ha una origine extralegale non meno dell'accumulazione
capitalistica. Qui usciamo dall'universo conciliativo della favola per
entrare in quello ruvido della storia e lasciarci alle spalle qualsiasi
pretesa di innocenza.
Il rischio del cortocircuito
Il famoso slogan del 99% dell'umanità contro l'1%, per quanto possa
ritenersi vacuo, rivela una inattesa contiguità dei movimenti con il
punto di vista di Trasimaco, l'interlocutore di Socrate nella
Repubblica platonica e che Vitale ci presenta come campione del
realismo, secondo cui la giustizia è l'utile del più forte. Ci vuol
poco a immaginare chi, data una simile proporzione, sia, in
prospettiva, il più forte.
Ma se il comune è, con pochissime eccezioni naturalistiche, una pratica
o una conquista della soggettività, allora si fa cruciale la domanda: a
chi è comune il comune? Possiamo facilmente immaginare un quartiere
che in nome del «bene comune» si organizzi per cacciare gli zingari o
una intera nazione che consideri bene comune la propria purezza
razziale. Solo principi di carattere universalistico, i diritti
inalienabili dei singoli e la razionalità dell'agire politico possono
contrastare queste derive che il diritto non avrebbe, per parte sua,
grande difficoltà a formalizzare. Laddove universale significa appunto
comune all'intera umanità, che fortunatamente mai si lascerà
rinchiudere in una dimensione comunitaria, e proprio di ogni singolo.
In proposito è assai curioso che Vitale diffidi proprio di quella idea
di moltitudine, sia pur maggiormente definita per ciò che non è che per
quello che dovrebbe essere, che ha il suo valore principale nel
respingere ogni forma di comunitarismo fusionale e di trascendenza del
potere inclini a calpestare la libertà dei singoli.
Veniamo però a questioni più immediatamente politiche. Vi è una
tendenza fortemente consolidata a far coincidere il pubblico con lo
stato e con le sue sottoarticolazioni e, in misura minore, il privato
con il mercato. Il tema del comune (che in Negri e Hardt è strettamente
e sensatamente connesso con quello del potere costituente) nasce in
contrasto con questa coincidenza e con le pratiche politiche che ne
discendono. Le domande allora possono essere riformulate in questo
modo, forse più vicino allo spirito illuminista cui si richiama Vitale:
possiamo pensare una dimensione pubblica non statale che non sia la
riedizione del partito-stato? E possiamo pensare una piena libertà del
singolo che non sia legata alla proprietà, come tutta la tradizione del
pensiero borghese la ha pensata? Da questa angolazione pubblico può
designare non un potere trascendente, bensì un comune che non è dettato
da «madre natura» o imposto dalla comunità, ma pensato dalla politica e
praticato dai soggetti che la esercitano nella loro eterogeneità. E,
privato, non forza lavoro costretta a vendersi sul mercato, ma anche
libertà di non farlo. Non diritto garantito dalla proprietà, ma diritto
individuale al benessere.
Al bando la nostalgia
Sul versante opposto a quello del liberalismo costituzionale, un altro
punto di vista prende di mira l'economia dei beni comuni con le sue
implicazioni autogestionarie, decentrate e reticolari. Riproponendo
l'economia pianificata. Non si capisce perché in polemica con la
dottrina della decrescita e della riconversione ecologica del tutto
conciliabili con un dispotismo illuminato alla Hardin o con lo
stalinismo ecologico alla Wolfgang Harich. Di questa posizione è un
esempio molto chiaro l'intervento di Luigi Cavallaro su il manifesto
del 26 aprile scorso. La sua tesi è la seguente: «non è vero che non è
più possibile ritornare al paradigma novecentesco fondato sulla
compresenza di forme capitalistiche e socialiste di produzione e
riproduzione sociale con le seconde in posizione di relativa
dominanza». Tant'è che paesi rimasti dentro quel paradigma (la Cina?)
non hanno patito la crisi. È assai discutibile interpretare la Cina
contemporanea in questi termini novecenteschi e ancor meno fare un
modello desiderabile dello sfruttamento forsennato che trascina lo
sviluppo cinese. Ed è fin troppo banale ricordare che ciò che grava
sull'economia pianificata dall'alto non è un pregiudizio, ma una
esperienza storica. Anche chi apprezzava quel modello dovrebbe prendere
atto della sconfitta che ha subito. Ma soprattutto dove stanno i
soggetti capaci di ricostruire quel paradigma? Non basta dire il
capitale e il lavoro. L'uno e l'altro cambiano, come composizione
tecnica, come natura politica, come terreno di possibile compromesso.
La rivoluzione d'ottobre è molto lontana, i precetti del socialismo ben
distanti dalle forme di vita contemporanee e la nostalgia dei nonni un
po' patetica.
Tra la statolatria e la dittatura del mercato il discorso sul comune ha
ottime ragioni di affermarsi e proprio perché non si tratta di una
dottrina o di un sistema, ma di un problema politico attraversato da
numerose e forti tensioni, gli si può pur riconoscere incertezze e
incongruenze. Il ritorno al Medioevo è ancora più improbabile di quello
del socialismo di stato. Il nostro amico illuminista può dormire sonni
tranquilli.
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