mercoledì 22 maggio 2013
Ricordo di Furtwängler
Wilhelm Furtwängler
Il maestro custode della cultura tedesca e quel rapporto ambiguo con il nazismo
di Matteo Persivale Corriere 22.5.13
«La questione dell'interpretazione è, allo stesso tempo, complessa e
semplice. Come in tutti i casi nei quali l'amore gioca un ruolo
fondamentale. Fare musica — come compositore o come interprete — è
soprattutto un atto d'amore». Così parlò — «Also sprach», come avrebbe
preferito lui, uomo dalle sentenze oracolari — Wilhelm Furtwängler,
direttore musicale dei Berliner Philharmoniker dal 1922 al 1945 e dal
1952 fino alla morte (avvenuta due anni dopo).
La fama di intellettuale raffinatissimo cresciuto fin da tenera età a
contatto con artisti e filosofi e storici, il meglio della cultura
tedesca tra Ottocento e Novecento nel salotto di casa (era figlio di
Adolf, il sommo archeologo), le filippiche a alta voce contro i
direttori (generalmente si riferiva a von Karajan) che secondo lui non
conoscevano l'Idealismo tedesco abbastanza bene da poter dirigere
Beethoven. Tutta la mitologia nata intorno a Furtwängler:
quell'apparentemente gelido maestro autore di interpretazioni tra le più
«calde» e dall'impatto emotivo più sconvolgente. Le scelte di tempi
inconsuete, il suono orchestrale inimitabile, la capacità analitica. Ma
se la magia del Furtwängler direttore ha un che di inafferrabile, è
sfuggente anche la scelta centrale della sua vita e della sua carriera.
Quella di restare in Germania dopo il 1933, sotto il Reich: perché al
contrario di grandi colleghi come Erich Kleiber (che andò in Sudamerica,
dove suo figlio Karl divenne Carlos), Furtwängler scelse di restare.
Senza tessera del partito, certo. Presentando certificati medici fasulli
per essere esentato dagli eventi di partito. Non facendo, di regola, il
saluto nazista. Evitando di aggiungere alle lettere il post scriptum
«Heil Hitler». Non amato dai vertici del partito (dei quali lui, per
nascita e cultura prima ancora che per questioni politiche o etiche,
disprezzava la volgarità). Ma scelse di restare fino all'ultimo, finendo
processato dopo la guerra nella sua Germania denazificata, assolto dopo
un'inchiesta umiliante che ha dato vita a una piéce e un film
appassionanti (Taking Sides del drammaturgo Ron Harwood: il film si
chiama A torto o a ragione, la piéce in Italia è stata portata in scena
da Luca Zingaretti col titolo La torre d'avorio).
Perché la questione irrisolta è proprio che uno dei dati
incontrovertibili — il maestro protesse musicisti ebrei — è anche
l'accusa più pesante: da che cosa voleva proteggerli, se davvero non
aveva idea delle mostruosità hitleriane? Perché accettò di conferire il
suo immenso prestigio al regime? Perché diresse concerti nelle fabbriche
belliche sotto una gigantesca svastica, per i gerarchi? I suoi
difensori — subito dopo la guerra, Menuhin e Schönberg; in anni recenti,
Barenboim e Gergiev — sostennero e sostengono che il quarto direttore
della storia dei Berliner (prima di lui soltanto i più grandi, nel
Valhalla: von Brenner, von Bülow, e Nikisch) non voleva lasciare
l'orchestra in mani indegne, a un pupazzo del Führer.
Chi in quegli anni, per sua fortuna, non c'era, ammira il coraggio
luminoso della scelta di Kleiber padre (e di Toscanini che lasciò
l'Italia), ma sa anche che condannare è sempre più facile che cercare di
capire, ha una via d'uscita. Ascoltare una delle ultime esecuzioni del
maestro, malato e prossimo all'addio. Lucerna, 22 agosto 1954. La Nona
di Beethoven, con la Philharmonia. A chi ama Beethoven, generalmente
basta dire «la Nona di Lucerna», non c'è bisogno di nominare il
compositore, né il direttore, l'orchestra o la data. La Nona di Lucerna.
Immortale. Senza bisogno di processi. O di scegliere da che parte
stare.
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