mercoledì 22 maggio 2013
Luciano Canfora tra materialismo e revisionismo storico
Nonostante la palese strumentalità, gli apprezzamenti di Cofrancesco nei confronti di Canfora e del suo metodo sono importanti: c'è il riconoscimento del fatto che una scuola di pensiero ha conservato una sua legittimità scientifica, e non è poco in questi tempi di ostracismo. Anche la contrapposizione del marxismo al ribellismo individualista o al moralismo o populismo radical chic della sinistra contemporanea è corretta. L'impressione è però - anche a prescindere da una serie di prese di posizione sulle questioni internazionali, o dall'affaire Gramsci - che Canfora tenda a interpretare sempre più questa impostazione nei termini di un moderatismo rassegnato che si va facendo programma consapevole [SGA].
Dino Cofrancesco - il Giornale Mer, 22/05/2013
La lettura dell'Intervista sul potere
rilasciata da Luciano Canfora ad Antonio Carioti (Laterza) genera
ammirazione nei confronti di un antichista la cui cultura spazia dalla
polis alle rivoluzioni atlantiche, dal Medio Evo all'Europa postfascista
e postcomunista. Peccato che tale massa di sapere sia posta al servizio
di una causa persa, quella di una vecchia sinistra mai riconciliata col
«Congresso di Bad Godesberg, in cui la Spd aveva sposato l'economia
di mercato, riducendo il marxismo a una delle fonti d'ispirazione».
«Non vorrei passare per un cantore dell'Urss - avverte il professore -
dico solo che non c'è un solo modello di sviluppo e che l'organizzazione
dell'economia può avere molte declinazioni diverse. Chi teorizza il
contrario, ammesso che sia in buona fede, è di parte, ha una visione
unilaterale. Vogliamo consentire qualche forma di dissenso o dobbiamo
irreggimentarci dietro il culto del massimo profitto fine a se stesso,
facendo credere alla gente che è addirittura benefico?».
Già, ma se
«l'economia può avere molte declinazioni diverse», perché squalificare,
con l'arma dell'ironia, le «vecchie gloriose teorie» di Benjamin
Constant? Perché identificare la difesa del mercato - e dell'etica che
lo sostiene - con «l'esaltazione di un egoismo esasperato, individuale e
collettivo»? La retorica ideologica di Canfora ha un cuore antico:
consiste nel pareggiare i vizi di un'economia collettivista con quelli
di un'economia liberale, ignorando che i primi - come a esempio il
calmiere dei prezzi che fa ritirare le merci dal mercato - sono la
conseguenza di leggi e provvedimenti di governi che vogliono realizzare
l'eguaglianza e la giustizia, mentre i secondi si iscrivono in una
società caratterizzata dal non intervento massiccio dei pubblici poteri
sui processi produttivi, nel timore di dover redistribuire la miseria
(ciò che non esclude la necessità di leggi sociali volte ad alleviare le
condizioni dei meno abbienti, come persino Friedrich Hayek
riconosceva).
Canfora non sarà un nostalgico dell'Urss, ma è un
antipatizzante di Giovanni Paolo II, il quale contribuì a far cadere il
blocco sovietico. Quest'ultimo aveva tanti difetti, ma almeno «non c'era
l'asservimento delle donne come merce di esportazione. Le ucraine e le
romene affollano i marciapiedi dell'Occidente perché è stato sfasciato
quel mondo. Per fortuna nell'aldilà potranno confidare
nell'intercessione di Wojtyla». Evidentemente l'antichista non ha mai
sentito parlare dei turisti sessuali che si recavano in Russia sicuri di
passare indimenticabili notti d'amore, cavandosela con qualche paio di
calze di seta.
Questi aspetti dell'Intervista non debbono ingannare.
Canfora non è solo un post-stalinista: è uno studioso che, avendo
conservato le robuste, per quanto unilaterali, categorie interpretative
del materialismo storico, non va confuso con quella sinistra antagonista
che non trae più ispirazione da Marx ma da don Gallo. Rispetto ai
Rodotà, agli Zagrebelsky, alle Urbinati, alle Spinelli, il suo discorso è
il trionfo del politicamente scorretto, sia quando fa rilevare, da
togliattiano, la necessità per i grandi partiti politici, usciti
malconci dalle ultime elezioni, di trovare un accordo in nome
dell'interesse nazionale - «È una visione faziosa quella di chi dice:
arrivo primo, vinco e governo da solo», specie quando è arrivato primo
grazie a una legge elettorale che avrebbe fatto vergognare quella
fascistissima di Acerbo -; sia quando, ricordando le domande a
Berlusconi pubblicate, nel 2009, per sei mesi consecutivi sulla prima
pagina della Repubblica, commenta «La politicizzazione della
magistratura, che sia un fenomeno spontaneo o provocato da fattori
esterni, ha svilito quel corpo, lo ha reso un soggetto tra gli altri e
il bilancio è davvero sconfortante». E che dire della sua analisi del
fascismo e dei movimenti totalitari di destra e di sinistra del '900,
più vicina a Renzo De Felice che a Guido Quazza o a Nicola Tranfaglia? I
fascisti, a suo avviso, sono «l'equivalente dei socialisti
rivoluzionari russi» e «la marcia su Roma fu un evento molto serio: è la
forma che assume l'eversione concorrenziale rispetto a quella di
matrice comunista, che pensava di vincere e venne sconfitta».
Aveva
ragione De Felice quando faceva notare che l'interpretazione marxista
del fascismo ne afferrava la natura assai più di quella azionista.
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