mercoledì 22 maggio 2013

Un modo originale per riaffermare la superiorità dell'Occidente laico e scettico su quei beduini degli iraniani senza sembrare razzisti

Una psicoanalista a Teheran
Gohar Homayounpour: Una psicoanalista a Teheran, Cortina pagg. 148 euro 13.50

Risvolto

È possibile praticare la psicoanalisi nella repubblica islamica dell'Iran? Gohar Homayounpour, psicoanalista iraniana formatasi in Occidente, risponde di sì. Tutta la cultura iraniana ruota attorno al racconto. Perché mai, se gli iraniani avvertono con tale forza la necessità di parlare, non dovrebbero essere capaci di libere associazioni? Inizia così una narrazione affascinante, in cui il racconto autobiografico si intreccia con le storie dei pazienti. L'autrice evoca il piacere e il dolore di ritornare nella terra natale e le angosce che assillano lei, per prima, e altri iraniani. Nella narrazione si aprono di continuo scorci che lasciano intrawedere le sedute con i pazienti: una celebre artista sogna di essere abbandonata e vuole sedere sulla sedia dell'analista anziché stare sdraiata sul lettino, una giovane donna avvolta nel chador dice la propria vergogna per aver perso la verginità... Prefazione di Abbas Kiarostami. Postfazione di Lorena Preta.

L’ayatollah sul lettino
Psicoanalisi e Islam, parlare di Freud a Teheran

di Vanna Vannuccini Repubblica 22.5.13

Gohar Homayounpour racconta in un libro la sua esperienza di terapeuta in Iran Storie di pazienti laici e religiosi, tradizionalisti e modernizzatori, fedelissimi al regime e accesi dissidenti

Pochi paesi al mondo hanno una reputazione internazionale peggiore di quella dell’Iran. Almeno da quando Bush lo inserì nell’Asse del Male, il nome del-l’Iran è associato a uno Stato guidato da fanatici religiosi e retrogradi, a un nuovo medioevo, ogni volta rinfocolato dalle sentenze che il presidente Ahmadinejad non ci fa mai mancare, tanto da essersi conquistato il titolo di «uomo più pericoloso al mondo».
Accanto a questa corrente maggioritaria c’è poi un gruppo ristretto di occidentali “illuminati”, per i quali gli iraniani sono in blocco un popolo oppresso che aspetta solo di liberarsi da una dittatura religiosa. Non abbiamo visto tutti le foto di ragazze truccatissime e poco vestite che ballano in party sfrenati in qualche casa di Teheran? Non abbiamo letto che i conducenti di taxi collettivi quando possono evitano di prendere a bordo un mullah? Gli iraniani non hanno più nulla a che vedere con la religione, concludono. Ebbene, entrambi hanno torto, ci fa capire il libro — uscito da Cortina — di Gohar Homayounpour, che da sei anni fa l’analista a Teheran e insegna psicologia all’Università Shahid Beheshti della capitale. Non che tutte le idee che l’Occidente si fa dell’Iran siano false, ma spesso sono così incomplete da travisare la realtà.
Il libro è di per sé una sfida alle percezioni occidentali.
Una psicoanalista a Teheran?
Gli ayatollah sul lettino? Le teorie freudiane sulla sessualità e l’islam? Ma non sapevamo che la psicoanalisi cozza contro ogni mondo religioso determinato, e non è allo stesso tempo la religione una delle fonti dei più violenti problemi psichici? Una amica a cui Homayounpour aveva fatto leggere una prima bozza le aveva risposto: ma gli ayatollah dove sono? E le aveva proposto di cambiare il titolo in Diventare matti a Teheran.
In realtà la psicoanalisi in Iran ha una storia breve ma un lungo passato, dicono gli iraniani. Già Avicenna aveva scoperto l’effetto delle emozioni sulla salute fisica e raccontava la storia di un principe la cui febbre nessuno riusciva a curare finché, pronunciando nomi di città e strade e fanciulle, il medico scoprì chi era la bella di cui il principe non voleva fare il nome; consigliò al re di consentire al matrimonio e la febbre sparì. Anche i mistici iraniani come Hafez e Rumi hanno espresso molte idee sulla psiche e il maestro sufi è in fondo una specie di psicoanalista.
Subito dopo la rivoluzione la psicoanalisi fu vista negativamente, come tutto ciò che veniva dall’Occidente, ma già verso la fine degli anni Ottanta riebbe un posto nell’Università di Teheran e perfino in una serie di programmi televisivi e radiofonici. Oggi le pratiche psicoterapeutiche negli ospedali includono analisi transazionale e cognitiva-comportamentale, terapia di gruppo, terapia sessuale e familiare e terapia di coppia (i divorzi sono saliti in Iran da 50.000 nel 2000 a più di 150.000 nel 2010 e “La Giornata del Matrimonio”, in cui si ricorda il matrimonio di Zarah, la figlia del Profeta, con l’Imam Ali più di 1400 anni fa, è stata rinominata “Giornata contro il Divorzio”). Le cause principali di disagio psichico per i giovani sono di origine economica: disoccupazione, povertà, mancanza di prospettive.
Nei suoi anni di pratica psicoanalitica Homayounpour ha visto arrivare nel suo studio religiosi e laici, tradizionalisti e modernizzatori, uomini e donne (pare in numero piuttosto equilibrato, tranne che nelle terapie di gruppo, dove le donne prevalgono), fedeli al regime e dissidenti, e soprattutto persone che non si lasciano inquadrare in nessuna di queste categorie. Queste persone coesistono nella società iraniana come nello studio di Gohar, gli uni accanto agli altri. C’è la ragazza di ventiquattro anni di famiglia tradizionalista che ha perso “l’unica cosa che una donna non dovrebbe mai perdere” e perciò vuole abbandonare la casa paterna per non disonorarla, e Homayounpour, arrivata a Teheran dopo vent’anni passati in Occidente, lì per lì non capisce a che cosa la ragazza si riferisca — evidentemente non ha fatto caso al numero di cliniche specializzate nel restituire la verginità che ci sono a Teheran.
C’è anche la studentessa di Isfahan a cui piace molto fare sesso ma solo se prende lei l’iniziativa e «non lo fa in posizione passiva». Non deve essere una rarità a sentire quanti occidentali al loro arrivo in Iran ti raccontano degli occhi di fuoco con cui si sentono guardati dalle signore in chador. Ma pare che agli uomini iraniani l’intraprendenza femminile non piaccia perché pensano che si adatti solo alle prostitute (così aveva detto alla studentessa il fidanzato ormai perduto). C’è perfino un camionista macho da cui Homayounpour — colpevolizzandosi per dare a prima vista un così avventato giudizio di valore — non si aspetta che «voglia capire meglio se stesso». Lui ha paura del buio e sogna di andare a letto con la madre (anche con la sorella e la cognata). E c’è un giovane intellettuale a cui l’amata (sposata) permette ad ogni incontro di conquistare solo qualche centimetro del proprio corpo.
I pazienti diventano narratori di storie che svelano realtà non dette e s’intrecciano con la storia personale dell’autrice, come in una seduta psicoanalitica. Homayounpour racconta il piacere e la sofferenza del proprio ritorno nella madrepatria. Era nata a Parigi da genitori iraniani che si erano poi trasferiti in Canada, e come succede in questi casi ha un dilemma d’identità. «Lontana dall’Iran, nessuno era più iraniano di me; qui in Iran, nessuno lo è di meno». Una vecchia storia, di cui discute con una paziente, bellissima e famosa pittrice, che in Occidente aveva vissuto come l’analista in una penombra di esotismo lamentandosi della «solitudine e della mancanza di relazioni umane».
Homayounpour cerca conforto nella lettura di Kundera (e non resiste alla tentazione di impelagarsi in una dotta critica letteraria dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, a imitazione di Leggere Lolita a Teheran, cosa che le si perdona solo perché il padre è stato il traduttore in persiano di Kundera, e quindi rientriamo in ambito psicoanalitico).
Di complessi di Edipo e sogni incestuosi l’autrice ne ha analizzati a decine. Il complesso di Edipo è rovesciato nei miti iraniani, sono i padri a uccidere i figli. «La fantasia collettiva iraniana è fissata in un’angoscia di disobbedienza che desidera l’obbedienza assoluta. Nel momento in cui desiderano ribellarsi i figli sanno inconsapevolmente che ponendo in essere quel desiderio saranno probabilmente uccisi… La cultura greca, viceversa, sembra incentrata sulla conquista e il rovesciamento del potere, e la fantasia collettiva reagisce alla paura della castrazione consentendo di prendere le distanze dal padre e eliminarlo, al fine di assumere potere e controllo». Alla fine occorrerà ricordare che al di là delle sanzioni e delle minacce di guerra gli iraniani vivono vite che si lasciano analizzare con gli stessi strumenti di quelle degli occidentali, e che l’orizzonte sociale, culturale e perfino religioso di una famiglia borghese a Teheran — i film, i programmi tv, i temi di cui si discute in privato, le automobili, le droghe, i fanatismi politici, le professioni, i rapporti tra i sessi — è meno lontano da quello di una famiglia borghese europea di quello di chi vive in uno slum a mezz’ora di distanza in automobile dalla casa dell’autrice.




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