Nel 2010 Robert Skidelsky, il biografo di Keynes, scrisse per il Financial Times un articolo ripreso anche dal Sole 24ore nel quale si prendeva la responsabilità di sottoporre non al vaglio arbitrario dei filosofi, ma alla prova dei fatti, le politiche di austerità adottate con pochissimo distinguo in Europa.
lunedì 17 giugno 2013
Buone intenzioni ma scarsa praticabilità del keynesismo continentale. Soprattutto: cosa c'entra il PD?
Le prove di Keynes e i pentiti dell’austerità
di Massimo Adinolfi l’Unità 16.5.13
Nel 2010 Robert Skidelsky, il biografo di Keynes, scrisse per il Financial Times un articolo ripreso anche dal Sole 24ore nel quale si prendeva la responsabilità di sottoporre non al vaglio arbitrario dei filosofi, ma alla prova dei fatti, le politiche di austerità adottate con pochissimo distinguo in Europa.
E concludeva il suo articolo con queste fatidiche parole: «Stiamo per
imbarcarci in un importantissimo esperimento per scoprire quale delle
due storie sia vera. Se il risanamento dei conti pubblici si dimostrerà
la via per la ripresa e una crescita rapida, allora potremo seppellire
Keynes una volta per tutte. Se al contrario i mercati finanziari e i
loro portabandiera politici si riveleranno degli «asini matricolati»,
come pensava Keynes, bisognerà prendere di petto la sfida che
rappresenta, per il buongoverno, il potere finanziario».
Keynes faceva simili, cattivi pensieri di fronte al modo in cui la Gran
Bretagna, sotto la pressione dei mercati finanziari, si era infilata in
una spirale recessiva, a colpi di tagli alla spesa pubblica e
rassicurazioni sulla tenuta della sterlina. E Skidelsky, di fronte alla
reazione analoga tenuta dall’Unione Europea dopo il 2008 e la crisi
dell’euro, proponeva a titolo di esperimento di mettere il keynesismo su
un banco di prova: vedremo fra qualche anno, diceva, se si abbia torto o
ragione nel condannare, sull’esempio di Keynes, le misure di austerità e
il pensiero economico che le ispira.
Ora non so se gli anni trascorsi siano sufficienti per giudicare
concluso l’«importantissimo esperimento», e se siamo pronti o meno per
rifilare l’appellativo di «asino matricolato» agli economisti dei nostri
giorni, che hanno orientato le condotte politiche europee; però ieri,
su Il Sole 24ore, con una excusatio petita e assai gradita, Roberto
Perotti ha esordito così: «Gli effetti delle politiche di austerità
sulle economie europee sono tornati al centro del dibattito. Oltre
quindici anni fa scrissi con Alberto Alesina due lavori nei quali
sostenemmo che le riduzioni della spesa pubblica facevano bene
all’economia. Oggi credo che la metodologia statistica che usammo allora
fosse errata». Il minimo che si possa fare è mandare un telegramma a
Robert Skidelsky, di questo tenore: «Dear Sir, experiment has been
successfull!». Roberto Perotti sceglie invece di polemizzare con chi
dall’esperimento vorrebbe trarre qualche conseguenza. Si lamenta perciò,
restando nei confini domestici, di Guido Rossi e del suo inutile
sfoggio di umanistica cultura: per prendersela con l’austerity, osserva
Perotti, Rossi infarcisce i suoi articoli di citazioni di poeti,
antropologi, filosofi della politica e del diritto, ma non adduce prove
scientifiche a conforto della sua tesi, che cioè i tagli alla spesa
pubblica tutto fanno meno che rilanciare l’economia.
Questa orgogliosa difesa del metodo scientifico merita il massimo
rispetto. L’ammissione di aver sbagliato quindici anni orsono anche.
Diamogli perciò man forte, e lasciamo perdere lo Zibaldone di Leopardi e
l’ermeneutica di Gadamer: in un dibattito su cause ed effetti della
crisi con gli economisti seri, scientifici, non possono avere spazio.
Guido Rossi se ne faccia una ragione. Ma i dati che possiamo raccogliere
negli ultimi tre anni: nemmeno quelli? Ha qualche valore la sfida
lanciata da Skidelsky nel 2010, e la sua molto empirica disponibilità ad
accettare che le politiche di austerity praticate dai governi europei
confutassero le parole di Keynes contro l’efficacia dei tagli nel bel
mezzo di una recessione? Quella confutazione, però, non è arrivata ed
anzi le parole di John Maynard Keynes ne sono uscite, a quanto pare,
corroborate. E adesso che facciamo? Togliamo di mezzo Leopardi e
Gadamer: e poi? Ci prendiamo per caso altri quindici anni di
sperimentazione sul corpo vivo della società, in attesa che qualcun
altro, come il Sigalev dei «Demoni» di Dostoevskij, confessi di essersi
imbrogliato con i dati? La domanda è pertinente, credo, anche al netto
della citazione letteraria.
E soprattutto sposta l’attenzione sul punto politico. Perotti e Alesina
hanno tutto l’agio di cui hanno bisogno gli studiosi per mettere a punto
nuove metodologie statistiche, a prova di Guido Rossi o figuriamoci del
sottoscritto: alla fine, dei moltiplicatori fiscali verranno a capo. Ma
la politica dovrebbe invece portare subito, nel dibattito politico del
Paese (e dell’Europa) le parole di Keynes, contro quegli spiriti
semplici (o quegli «asini matricolati») che considerano scontati «i
vantaggi del non spendere soldi», e perciò vanno giù di forbici. Se lo
si fosse fatto nel 2010, se un arco di forze consistenti, in Italia e in
Europa, avesse scelto il banco di prova indicato con forza da
Skidelsky, non avremmo oggi una chiara indicazione sul futuro politico
del continente? Se, invece del combinato disposto di severa austerity
economica e sobrie e responsabili dirigenze tecnocratiche, si fosse
scelta la strada di un conflitto politico chiaro sulle politiche
europee, non ci si sarebbe trovati oggi molto più vicini al cambiamento
di rotta tanto auspicato? E non ne avrebbe tratto giovamento anche lo
slogan del «più Europa», che rimane invece inutile, oppure vuoto, finché
viene declinato diversamente da francesi e spagnoli, tedeschi e
italiani, senza trovare un comune terreno sul quale consolidarsi e
offrirsi al giudizio dell’opinione pubblica? Si dirà, è il senno di poi.
Ma quello di Skidelsky era il senno di prima. E, per la verità, siamo
ancora prima delle elezioni europee del 2014, e di un nuovo ciclo
politico che, forse, potrebbe ancora aprirsi.
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