lunedì 17 giugno 2013
Giotto e la pittura su tavola
I restauratori dei Musei Vaticani hanno studiato i sarcofagi La tecnica della pittura su tavola non è mai cambiata in duemila anni
di Lauretta Colonnelli Corriere La Lettura 16.6.13
Giotto «copiava» i pittori vissuti al tempo dei faraoni. La tecnica dei
suoi dipinti su tavola è identica a quella usata dagli artisti che nel
primo millennio avanti Cristo decoravano i sarcofagi in legno realizzati
sulle rive del Nilo per accompagnare nell'aldilà i corpi dei sacerdoti
di Amon. Come è possibile? Si sapeva che le conoscenze degli egizi erano
passate ai greci e poi ai romani. Ma non c'erano prove che quelle
conoscenze fossero arrivate praticamente intatte fino alle botteghe del
Medioevo. Eppure il procedimento era lo stesso: si stendeva con le mani
sul supporto ligneo un fondo composto da argilla e gomma arabica, si
passava con il pennello una mano di colore a base di orpimento (giallo
d'arsenico) per garantire l'effetto della doratura, si tracciava il
disegno preparatorio con la sanguigna, si eseguivano le campiture di
colore con pigmenti minerali e leganti vegetali, infine si copriva tutto
con una vernice trasparente per proteggere il dipinto.
Perfino il significato simbolico dei fondi in oro era stato tramandato
lungo i secoli: aveva la funzione, sia nell'antico Egitto sia
nell'Europa del Medioevo, di divinizzare le immagini. Se i pittori
cristiani raffiguravano con i volti circonfusi d'oro la divinità e i
santi della Chiesa, quelli egizi avvolgevano in un alone dorato il corpo
del defunto ritratto sul coperchio del sarcofago e ne illuminavano di
giallo le mani e il volto per trasformarlo in un dio e avviarne il
processo di rigenerazione.
La prova del legame tra Giotto e gli artisti di tremila anni fa arriva
adesso dal laboratorio di diagnostica dei Musei Vaticani, dove la
pittura dei sarcofagi è stata analizzata e ha rivelato una stratigrafia
identica a quella della pittura su una tavola del Trecento. «Le immagini
di queste stratigrafie, messe a confronto, sembrano due copie della
stessa fotografia», conferma Ulderico Santamaria, direttore del
laboratorio. Del modo di dipingere su tavola al tempo di Giotto è
rimasta la testimonianza di Cennino Cennini, che a cavallo fra Trecento e
Quattrocento scrisse Il libro dell'arte, ancora oggi il più famoso
trattato sulle tecniche artistiche che ci sia stato tramandato. Cennini,
che celebra Giotto come il maestro che «rimutò l'arte del dipingere dal
grecho in latino e ridusse al moderno», descrive per la prima volta le
tecniche di esecuzione fino allora probabilmente tramandate di bottega
in bottega: dalla tavola preparata con uno strato di gesso alla finitura
con la vernice trasparente. «Ora — ribadisce Santamaria — abbiamo
trovato nella pittura dei sarcofagi il riscontro di queste tecniche
teorizzate all'interno delle corporazioni medievali».
Le recenti scoperte sulla tecnica pittorica dei sarcofagi verranno
presentate alla First Vatican Coffin Conference, ai Musei Vaticani dal
19 al 22 giugno, davanti a centocinquanta egittologi provenienti da
tutto il mondo. La conferenza segna la prima tappa del Vatican Coffin
Project, avviato nel 2008 e diretto da Alessia Amenta, che cura il
Reparto antichità egizie dei musei del Papa. Scopo del progetto a cui
hanno aderito anche il Louvre di Parigi e il Rijksmuseum van Oudheden di
Leida: studiare i sarcofagi lignei policromi del cosiddetto terzo
periodo intermedio (1070-712 a.C.). «Fino a oggi non si conosceva in
maniera approfondita la tecnica della pittura egizia su legno», racconta
Amenta. «L'idea della ricerca è nata quasi per caso, mentre ci
apprestavamo ad affrontare una campagna di restauro dei ventitré
sarcofagi custoditi in Vaticano. Si tratta di veri e propri capolavori
di pittura su tavola: raffinati nel dettaglio, eleganti nella
composizione e nella scelta cromatica, complessi nella scelta
iconografica». Il lavoro è iniziato sui sarcofagi di cui si avevano
maggiori notizie: i cinque provenienti dal nascondiglio di Bab el-Gasus
(la porta dei sacerdoti) a Luxor. Il 5 febbraio 1891, il francese Eugène
Grébaut e il suo assistente Georges Daressy trovarono l'ingresso di una
tomba ancora sigillata, dove erano stati nascosti, perché si salvassero
dai saccheggi, 153 sarcofagi lignei, appartenenti ai sacerdoti di Amon
vissuti durante la XXI dinastia (primo millennio a.C.). In soli nove
giorni la tomba fu svuotata, i sarcofagi caricati su imbarcazioni e
spediti sul Nilo verso il Cairo. Ma il museo della città non era in
grado di ospitare una così grande quantità di reperti, arrivati tutti
insieme. Il governo egiziano decise perciò di donare ai diciassette
Paesi che avevano partecipato alla festa per l'incoronazione del nuovo
Khedivè altrettanti lotti di sarcofagi. Il Vaticano ricevette il lotto
numero 17. Un'altra parte dei ritrovamenti fu destinata al mercato
antiquario. Oggi queste opere sono disperse in almeno trenta musei del
mondo.
Ricorda Amenta che i sarcofagi di Bab el-Gasus appaiono particolarmente
ricchi di decorazioni perché appartengono al momento storico che segue
il cosiddetto Nuovo Regno (1550-1070 a.C.), quello in cui il faraone
Ramesse II aveva trasformato il Paese nella superpotenza del Vicino
Oriente. Al tempo di Ramesse II anche le tombe erano dipinte
magnificamente. La gravissima crisi economica che incombeva sull'Egitto
all'inizio del primo millennio a.C. non permetteva più simili lussi. Le
tombe diventarono di tipo familiare, l'apparato decorativo fu ridotto e
trasferito dalle pareti della sepoltura alle superfici sia esterne che
interne dei sarcofagi in legno, che oggi rappresentano «un dizionario
enciclopedico della religione egizia», secondo la definizione
dell'archeologo Gaston Maspero. Ma chi realizzava questi oggetti? Come
era organizzato il lavoro degli artigiani coinvolti? C'era un maestro
pittore? C'erano delle botteghe? E dove? Chi sceglieva l'apparato
testuale e quello iconografico? Dove si acquistavano i pigmenti? Come ci
si procurava il legno in una regione dove gli alberi hanno sempre
scarseggiato? I ricercatori del Progetto Vaticano stanno inseguendo le
risposte. Sono convinti che i sarcofagi racchiudano una miniera enorme
di informazioni.
Alcune sono già venute alla luce. Il legno usato era di fico sicomoro,
acacia nilotica, tamerice: piante locali che fornivano assi lunghe e
molto leggere. I falegnami cercavano di non sprecarle, recuperando anche
i frammenti, utilizzati spesso per realizzare gli ushabti, le statuine
dei servitori rinvenute nei corredi funebri. Santamaria, con l'aiuto di
Fabio Morresi, ha scoperto che l'effetto dorato dei sarcofagi dei
sacerdoti era talvolta ulteriormente accentuato dalla presenza di
pigmento giallo nella vernice. Si tratta di polveri minerali come
l'orpimento (tra l'altro usato in abbondanza anche da Giotto) e
impiegato dai pittori egizi per le mani e il volto dei sarcofagi a
imitazione della pelle dorata degli dei. Lo studioso ha infine
riprodotto nei laboratori dell'Università della Tuscia, a Viterbo, un
campione del leggendario blu egizio, profondo e luminoso come nessun
altro. Anche la ricetta di questo pigmento, prodotto artificialmente
dagli artisti dei faraoni, era stata tramandata attraverso greci,
etruschi e romani fino a Giotto. Il blu egizio scomparve a partire da
Masolino e Masaccio, sostituito dai più banali blu smalto e azzurrite e
dal prezioso blu lapislazzuli. Nei secoli successivi si cercò invano di
ricrearne la formula esatta.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento