Luciano Canfora ha ormai tirato i remi in barca [SGA].
Delio Cantimori, Gastone Manacorda:
Amici per la storia. Lettere 1946-1966, Carocci
Risvolto
Nelle lettere di due protagonisti della
storiografia moderna e contemporanea, Cantimori e Manacorda, sono
discusse molte vicende dell'organizzazione culturale del Partito
comunista italiano e dei suoi rapporti con gli intellettuali negli anni
Cinquanta Sessanta: le riviste "Movimento operaio", "Società" e "Studi
storici", l'Istituto Gramsci, la commissione culturale. Al centro del
denso carteggio è principalmente il rapporto fra la politica e la
cultura: il ragionare dei due studiosi verteva sulla convinzione che la
ricerca dovesse essere, come sosteneva Gramsci, tanto più "interessata"
quanto più "impegnata", e sull'interrogativo se fosse possibile svolgere
in maniera indipendente la propria attività pur aderendo a un partito.
Su questo le loro posizioni divergeranno, dopo l'invasione sovietica
dell'Ungheria, Cantimori uscirà dal PCI, mentre Manacorda, convinto che
fosse possibile condurre la ricerca e dirigere riviste autonomamente,
rimarrà iscritto. Dalle lettere e dal confronto con altre fonti private e
del PCI emergono significative novità in merito ad alcuni passaggi di
quegli anni, soprattutto, la complessità degli eventi e la drammaticità
con la quale venivano vissute scelte personali o decisioni imposte: una
complessità che conferma quanto sia necessario studiare il Novecento
superando le barriere ideologiche della guerra fredda.
Cantimori e la politica un naufragio in due atti
Fascismo e comunismo, delusioni annunciate
di Luciano Canfora Corriere 27.6.13
«Mi pare che se dovessi ora uscire di carcere, non saprei più orientarmi
nel vasto mondo, non saprei più inserirmi in nessuna corrente
sentimentale, ma continuerei a vivere col solo cervello e con la sola
volontà, vedendo in tutti gli uomini (anche in quelli che dovrebbero
essermi vicini) non degli esseri viventi ma dei problemi da risolvere.
Io non voglio pretendere che la ragione di questo mio imbozzolamento sia
da ricercare solo fuori di me, il fatto è che da me stesso non so
superare questa condizione che in un solo modo, rifugiandomi nel puro
dominio dell'intelletto astratto, facendo cioè del mio isolamento la
esclusiva forma della mia esistenza. Non ho voluto più oltre tenerti
celato questo aspetto della mia vita».
Questo abbozzo di lettera alla moglie, scritto da Antonio Gramsci con
tutta probabilità nel novembre 1931 — edito già da Felice Platone su
«Rinascita» (aprile 1946) e da ultimo da Gianni Francioni (2007) — può
essere accostato alla lettera nella quale Gramsci, scrivendo a Tania,
definisce «un grande errore, un dirizzone» l'intera propria vita (27
febbraio 1933). Entrambi i testi gramsciani, che sono palesemente in
reciproca correlazione, trovano rispondenza in un altro appunto, inedito
e autobiografico: quello di Delio Cantimori, datato 28 marzo 1956,
intitolato «I miei grandi sbagli». Lo aveva pubblicato Luisa Mangoni, e
ora lo ripubblica Albertina Vittoria nell'introduzione, assai ben fatta,
al carteggio tra Cantimori e Gastone Manacorda (Amici per la storia,
Carocci). In tale appunto, si affollano autocritiche di carattere
privato e di carattere politico. Qui premono queste ultime, indicanti
appunto i «grandi sbagli» che Cantimori si rimprovera: «1. Credere di
capire qualcosa di politica»; «4. Saltare tra i comunisti. 5. Iscrivermi
al Pci. 6. Lasciare i miei studi per tradurre Marx». E come rimedio
indica: «Per il resto ritirarsi nei propri studi. L'unico rimedio».
L'abbozzo di Gramsci del novembre '31, vergato alla c. 23r-v del
cosiddetto Quaderno B, rimase fuori dalla stesura definitiva della
lettera cui inizialmente apparteneva (30 novembre 1931 a Giulia, Lettere
dal carcere, edizione Fubini-Caprioglio, pp. 532-533). Pur avendo
scritto «non ho voluto più oltre tenerti celato questo aspetto della mia
vita», alla fine Gramsci decise di non scrivere a Giulia quelle parole
pesantissime. Pesantissime anche sul piano politico, in quanto
dichiarano comunque chiusa la sua vicenda politica, pur nell'eventualità
che «dovessi ora uscire di carcere». Sarebbe un puerile autoinganno non
leggere in termini politici la frase «non saprei più inserirmi in
nessuna corrente sentimentale». (Libero, beninteso, chi lo vuole, di
pensare che con quelle parole Gramsci si dichiarasse incerto se aderire,
una volta fuori del carcere, al romanticismo alla Berchet o allo
stilnovismo o alla scuola siciliana di Cielo d'Alcamo).
La politica intesa come culmine dell'azione morale (non come mestiere
più o meno estemporaneo o, peggio, lucrativo) è esperienza totalizzante,
coinvolge tutti gli aspetti dell'esistenza. Ciò si verifica tanto più
quando si tratti di una politica sorretta da idee e concezioni grandi e
impegnative: quelle che taluni da ultimo chiamano, con sussiegosa
ignoranza, «le ideologie». In tali scelte, specie se attuate in momenti
storici quali quelli vissuti da Gramsci (prima del carcere) e da
Cantimori (dopo la Liberazione), si investono e si bruciano tutte le
energie di un individuo, intellettuali e pratiche. È quasi immancabile
la delusione soggettiva; e merita rispetto. Essa nasce dalla
constatazione di non aver potuto comprendere appieno le ragioni profonde
delle vicende pur così intensamente vissute e la vera natura delle
forze agenti nei conflitti, nei quali ci si è tuffati a capofitto,
seguendo un archetipo che fu già alla base del primo proselitismo
cristiano («Lascia tutto e seguimi!»). Sono soprattutto i militanti
dotati di grandi risorse intellettuali che alla fine non reggono; e solo
alcuni di essi serbano in sé la convinzione che, pur non potendo andare
le cose diversamente da come sono andate, ne valeva la pena.
«Rifugiarsi nel puro dominio dell'intelletto astratto, facendo del mio
isolamento la esclusiva forma della mia esistenza» è l'approdo di
Gramsci nel novembre 1931. E non ridiremo qui le tempeste e le brucianti
delusioni, provenienti dalla propria parte, che lo avevano indotto a
tale dichiarazione programmatica. «Ritirarsi nei propri studi. L'unico
rimedio» è l'approdo di Cantimori alla fine di marzo del 1956.
Chi — come Cantimori — aveva scelto il comunismo lasciandosi alle spalle
l'esperienza, a lungo coltivata, di «fascista di sinistra di matrice
mazziniana» (come il fantomatico signor Cappa della mirabile e
autobiografica introduzione cantimoriana al primo tomo del Mussolini di
Renzo De Felice); chi — come lui — passava al comunismo sul finire della
guerra mondiale, cioè nel momento di massima identificazione del
comunismo in Stalin; chi dunque «saltava tra i comunisti», come
Cantimori si esprime in quel prezioso appunto, prendendo tardive
distanze dalla rivoluzione «sbagliata» (quella fascista e anche quella
nazionalsocialista) non poteva non rimanere travolto da quel terremoto,
mai risarcito, del comunismo mondiale che fu il XX Congresso del Pcus,
culminato nella demolizione — storiograficamente frettolosa, ma
politicamente incalzante — della figura e dell'opera di Stalin (inclusa
la gestione sua della «grande guerra patriottica»). Uno storicista
integrale come Togliatti poté, non senza scricchiolii, reggere il colpo;
un ex «fascista di sinistra» molto meno: soprattutto nella convinzione,
facile da prodursi in quella circostanza, di aver commesso per la
seconda volta lo stesso errore politico.
Il XX Congresso era già stato, nelle sue sedute pubbliche (febbraio
1956), una prova sconcertante (istruttivo il Diario del XX Congresso di
Vittorio Vidali, Vangelista Editore, 1974), specie quel misterioso
martellamento contro gli «errori» di «una certa personalità» (cioè
Stalin, innominato). Ma il rapporto «segreto», nella sua sommaria e
talora maldestra foga iconoclastica, era molto di più: scardinava fedi e
certezze consolidate, fedi e certezze per le quali milioni di uomini
erano andati incontro alla morte inneggiando a Stalin. La prima notizia
del «rapporto segreto» la diede Harrison Salisbury sul «New York Times»
il 16 marzo 1956; il suo articolo fu tradotto in Italia quasi
immediatamente da «Relazioni internazionali» (autorevole settimanale
dell'Ispi di Milano) in edicola il 24 marzo; e la sostanza del rapporto
la diffuse poco dopo il quotidiano dei comunisti jugoslavi «Borba» a
Belgrado, ripreso in tutto il mondo. L'appunto di Cantimori è del 28
marzo.
Cantimori aveva svolto un ruolo direttivo nella politica culturale ed
editoriale del Pci nel decennio 1945-55. In quegli anni, disse Gastone
Manacorda in un importante convegno su Cantimori svoltosi nella natia
Russi nel 1978, i «classici del marxismo» da pubblicare, studiare e
diffondere erano quattro: Marx, Engels, Lenin e Stalin. E tale era il
convincimento di Cantimori (e dello stesso Manacorda, a quel tempo). Il
tracollo di tutto ciò, implicito — per chi avesse la sensibilità di non
autoingannarsi — nel «rapporto segreto», era troppo forte perché una
scelta di vita non ne venisse messa in crisi in radice. È quello che
accadde allora a Cantimori e che determinò le sue scelte intellettuali e
pratiche successive, fino alla morte precoce nel 1966. Del che dà conto
questo importante carteggio egregiamente curato da Albertina Vittoria,
una delle migliori nostre studiose di quell'importante capitolo della
storia culturale d'Italia che fu la politica culturale del Pci.
Gramsci e Cantimori: c’è un abisso tra quei due
di Bruno Gravagnuolo l’Unità 3.7.13
CANTIMORI E GRAMSCI NAUFRAGHI DELUSI? L’ACCOSTAMENTO NON REGGE Nessun
destino parallelo «plutarcheo» tra i due. Né esistenziale, né politico.
Perciò è stravagante l’accostamento che Luciano Canfora sul Corsera del
27-6, stabilisce tra le due figure, recensendo il carteggio tra Delio
Cantimori e Gastone Manacorda a cura di Albertina Vittoria (Amici per la
storia. Lettere 1942-1966. Carocci).
Dunque da un lato c’è il Gramsci del novembre 1931 e del 27 febbraio
1933, che in un appunto alla moglie (non inoltrato) e nella celebre
lettera a Tatiana dichiara: di rifugiarsi nel «puro dominio
dell’intelletto» e di non riuscire più a inserirsi «in nessuna corrente
sentimentale» (1931). Nonché di avere l’impressione che la sua vita sia
stata «un grande errore, un dirizzone» (1937). Dall’altro c’è Cantimori,
ex fascista di sinistra, schiacciato dal XX Congresso, che in una nota
autobiografica del 28 marzo 1956, si rimprovera l’iscrizione al Pci e
l’addio agli studi per tradurre Marx. Ma Cantimori vive un tracollo e
ripudia la sua opzione comunista (muore nel 1966). Gramsci invece,
piegato dagli eventi e isolato dal partito, nella tenaglia
Mussolini-Stalin, non mollerà mai. Continua a credere in una liberazione
per via diplomatica. Mantiene per vie dirette e indirette un rapporto
con il suo partito, e cerca sempre di influenzarlo. Dagli scontri nel
carcere di Turi, contro il «social-fascismo». Alla strenua elaborazione
teorica, dove c’è posto persino per una nota (1932-35) che critica
Trotzsky come meccanicista e dogmatico, a petto di Stalin-Bessarione,
internazionalista a radici nazionali! Fino all’ultimo biglietto del 1937
a Sraffa per Togliatti: il fronte popolare è la Costituente. E fino
alla probabile, e ultima, intenzione di andare in Urss. Certo, Gramsci
era eretico e isolato. Ma non molla mai e fa da spina nel fianco del suo
mondo. Soffre, dubita, si chiude nel suo guscio e rilancia. «Eroico
Gramsci», come diceva Della Volpe, significa questo. Il resto ci pare
chiacchiera.
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