domenica 9 giugno 2013

Il lascito di Berlinguer


La nostalgia berlingueriana è radicata nell'accademia, e induce ad atti di estrema generosità mnestica che in altri casi non avverrebbero. Carlo Galli non vede perciò, per quanto ne capisco io, il vero lascito di Berlinguer... [SGA].

Una sinistra che serve all’Italia Il lascito di Berlinguer
Il leader del Pci morì a Padova l’11 giugno 1984
Dal compromesso storico alla questione morale: la politica come attività alta e potente, fondata su un pensiero forte per trasformare storia e società
di Carlo Galli l’Unità 9.6.13

Non c’è solo la questione morale nel lascito politico di Enrico Berlinguer. Quell’accusa contro la corruzione dei partiti, la segmentazione corporativa della società, la chiusura delle istituzioni, il venir meno dello spirito pubblico, che andava di pari passo con un’ammissione di sconfitta storica del sistema politico democratico, che coinvolgeva in parte anche il Pci e che lo isolava in uno spazio vuoto di partner e di dialettica, è diventato giustamente famosa. Ma non può essere considerata la madre delle odierne indignazioni perché al contrario di queste suggella una parabola di pensiero e di azione politica di un’intensità senza pari, negli anni centrali e finali della prima Repubblica.
È in quel pensiero e in quell’azione dalla metà degli anni Sessanta alla morte di Moro il cuore della prestazione storica, politica e intellettuale di Berlinguer. Che ci consegna una costante declinazione democratica dell’orizzonte comunista quale egli lo interpretava, una costante sottolineatura del ruolo inclusivo, radicalmente innovatore e insieme profondamente nazionale perché impegnato a risolvere le questioni storiche del Paese -, che egli attribuiva alla sinistra. Una sinistra «di parte», ovviamente, eppure vocata a parlare a larghe masse anche esterne al perimetro della sua azione diretta; di una parzialità che riusciva a elaborare un orizzonte generale, un disegno per l’Italia.
Una politica di movimento e di trasformazione, in due direzioni: la prima fu la progressiva presa di distanze dall’Urss, fra il 1976 e il 1981 dall’accettazione del pluralismo democratico come specificità del socialismo italiano alla dichiarazione della fine della spinta propulsiva dell’Ottobre sovietico -, a cui si accompagnò l’elaborazione dell’eurocomunismo e il riconoscimento del ruolo positivo della Nato. La seconda fu la marcia d’avvicinamento rispetto alla Dc; non certo a fini consociativi, ma perché l’incontro fra la cultura cattolica e quella della sinistra doveva correggere l’impaludarsi della vita politica italiana, che si profilava alla metà degli anni Settanta. Un incontro non di gestione ma di cambiamento, che doveva porre le basi per una reale alternanza di potere (tanto reale da essere un’alternativa); un incontro non con la Dc regressiva ma con quella ispirata e guidata da Moro.
Fu questo il progetto di compromesso storico, l’aggiornamento della strategia di democrazia progressiva e delle larghe alleanze che apparteneva alla storia del Pci, e che non si era potuta realizzare nelle prime fasi del dopoguerra a causa della guerra fredda. Nonostante quella frattura, la sinistra comunista e le maggioranze si incontrarono di fatto, implicitamente, nella costruzione dello Stato democratico e anche dello Stato sociale, nella realizzazione della modalità italiana del «compromesso socialdemocratico». Ma il «compromesso storico» voleva essere di più che una coabitazione; voleva essere, per Berlinguer, il ritorno del Pci nel perimetro delle istituzioni repubblicane, in piena legittimità, per correggere le contraddizioni della nostra democrazia e per opporre alla «società dei consumi» un ideale civile e sociale di sobrietà e di rigore: l’austerità, destinata a scontrarsi con le potenti dinamiche dell’individualismo desiderante, che saranno il motore del consenso di massa al nuovo ordine neoliberale.
Questa politica come trasformazione paziente accanita e lungimirante delle condizioni date tanto in politica interna quanto in politica internazionale -, questa politica come forza democratica capace di intercettare in un movimento progressivo gli interessi e i bisogni pratici e morali dei cittadini, fu ciò che Berlinguer portò all’incontro con Moro; il quale preferiva parlare, anziché di «compromesso storico», di «terza fase» della politica democristiana: l’incontro con i comunisti, dopo quello con i centristi e con i socialisti. Non era proprio la stessa cosa: c’erano in gioco due progetti egemonici ciascuno però animato dall’acuta percezione che la Repubblica declinante doveva essere rifondata dal nuovo incontro fra i vecchi fondatori, che la storia aveva separato e che ora la politica tornava a unire.
Non ci fu né compromesso storico, né terza fase: la collaborazione fra Dc e Pci non avvenne sotto il segno dell’energia politica ma dell’emergenza, non del rinnovamento ma di un’unità nazionale difensiva, per salvare le libere istituzioni dalla minaccia terroristica. I molti poteri che volevano conservare lo status quo interno e globale, o che progettavano di uscire dalla crisi della democrazia uscendo dalla democrazia, vollero colpire Moro, vedendovi il portatore di un disegno troppo ardito, sovversivo. E con una Dc priva di Moro, impegnata in una cieca gestione del potere, Berlinguer non poté certo pensare al compromesso storico: la sua proposta dell’alternanza fu obbligata, ma non trovò la sponda socialista. E fu la fine, per il Pci, rimasto senza alleati e senza prospettive, e per l’intero sistema politico italiano.
Il molto che il tempo ha allontanato da noi, di questa temperie politica, non è recuperabile. Leninismo e democrazia non coesistono, il progresso non è una certezza, la polemica contro il consumismo, oggi, è quanto meno fuori fase; l’assetto del mondo è cambiato, e con esso il sistema politico italiano. Ma resta, di Berlinguer, una grande lezione di metodo: la politica come attività alta e potente, fondata su un pensiero forte e duttile; come strategia a lungo termine, cioè come progetto di trasformazione che ha radici in una lettura (concreta e di lungo periodo) della società e della storia; che non rimuove parzialità e contraddizioni in narrazioni edulcoranti o in proteste scomposte ma ne fa una leva per il cambiamento; che ha come centro il partito, come riferimento lo Stato, come orizzonte l’Europa; una politica popolare che sa unire le grandi tradizioni della storia d’Italia per contribuire con responsabilità e coraggio allo sviluppo della società e della democrazia, nella direzione di vero umanesimo del lavoro. Se poi questo metodo e questi obiettivi sembrano oggi lontani e improponibili, spaesati e velleitari, è un problema non di Berlinguer, ma nostro.

Nessun commento: