giovedì 27 giugno 2013

Magna la Carta e non solo... Egemonia della destra?

Margherita Movarelli: Think tank all'italiana. Storia della Fondazione Magna Carta, Rubbettino

La cultura di destra ha vinto Ma non diventa mai politica
Un libro ripercorre le vicende decennali del "think tank" Magna Carta e mostra come le idee conservatrici abbiano conquistato la società ma non il Parlamento Alessandro Gnocchi - il Giornale Gio, 27/06/2013


Contrordine compagni l’egemonia culturale adesso sta a destra
Dall’edonismo reaganiano al berlusconismo: così si è rovesciata un’idea forza gramsciana
di Massimiliano Panarari La Stampa 26.6.13

C’era una volta, in Italia, l’egemonia culturale della sinistra. Durata a lungo - anche se tutt’altro che incontrastata e indiscussa - e dotata di radici abbastanza salde. Il tutto fino all’inizio degli Anni Ottanta, quando, puf!, è svanita – forse anche perché, come avrebbe commentato il Karl Marx di una celebre citazione divenuta il titolo di un testo di Marshall Berman, «tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria».
E alquanto solido, infatti, era risultato l’ascendente degli intellettuali delle varie famiglie della sinistra nel soft power dell’Italia degli scorsi decenni (dall’editoria ai giornali, sino al cinema), mentre il «potere duro» e i centri decisionali politici ed economici rimanevano fermamente in mano ad altri. Poi, con l’avvento della sempre più liquida epoca del riflusso, gli equilibri, anche in campo culturale, sono cambiati, e si è assistito, in certo qual modo, all’avvento del gramscismo rivisto (e massicciamente applicato) da destra. Un tema tornato recentemente d’attualità, tra libri, polemiche culturali e voci (da Gianni Cuperlo a Fabrizio Barca) che tornano sull’argomento in un Pd da anni assai distratto.
Le avvisaglie della «controrivoluzione» dell’egemonia si son viste, naturalmente, oltre Atlantico, dove il reaganismo arrivò al potere attraverso un articolato progetto di reconquista dell’immaginario e della cultura, sviluppato con efficacia anche mediante una fitta rete di think tank, riviste, centri di ricerca, giornali e teste d’uovo. In La società dell’uguaglianza (Castelvecchi, pp. 371, € 25), il professore del Collège de France Pierre Rosanvallon descrive la crisi delle società liberaldemocratiche nei termini di un cambio di paradigma che ha legittimato la disuguaglianza e l’esclusione sociale (con il disastroso «effetto collaterale» del populismo), indotto proprio dall’egemonia culturale del neoliberismo.
Diversi anni dopo l’affermazione del primato ideologico dell’edonismo reaganiano, a giudizio di alcuni studiosi, il berlusconismo arrembante è riuscito a compiere un’operazione analoga dalle nostre parti – e anche se la sua spinta propulsiva sembra essersi arrestata sotto il profilo politico (come sottolineava ieri sulla Stampa Marcello Sorgi), la sua onda lunga nel costume e nelle culture è destinata a rimanere ancora assai duratura.
Di egemonia culturale della destra aveva parlato, qualche tempo fa, Marc Lazar, professore a Sciences Po e presidente della Luiss School of Government, oltre che attento osservatore delle vicende nazionali. Analoga è la posizione dello storico (e parlamentare Pd) Miguel Gotor, per il quale «negli ultimi trent’anni, c’è stata un’egemonia neoliberista a livello mondiale – che la lunga crisi economica ha messo in crisi – i cui elementi fondamentali sono stati l’automatismo del mercato, il ritorno al privato, il rifiuto dell’intervento pubblico in economia (a parte il salvataggio delle banche), il progressivo smantellamento del welfare, la flessibilità/precarietà delle attività lavorative, il passaggio da una cittadinanza dei diritti e dei doveri a una dei desideri e dei consumi. In Italia, questa egemonia è stata interpretata in modo originale da Berlusconi, che vi ha aggiunto una torsione populista favorita dalla proprietà dei mezzi televisivi e dalla conseguente influenza diretta e indiretta sull’opinione pubblica».
Lo storico Gabriele Turi si spinge oltre e, nel suo La cultura delle destre (Bollati Boringhieri, pp. 192, € 14), analizza quella che considera una precisa operazione culturale al servizio di una strategia politica, prestando particolare attenzione alla narrazione e «reinvenzione» del passato effettuata da think tank come la Fondazione Magna Carta, la Fondazione Liberal e la Fondazione Nova Res Publica, e da riviste quali Ideazione, Nuova storia contemporanea, l’ Occidentale eIl Domenicale. La presa berlusconiana del potere si è saldata, sostiene, con l’idea del superamento delle distinzioni tra destra e sinistra e con un lavoro manipolatorio sullo spirito dei tempi, tra revisionismo storiografico, un’interpretazione identitaria e tradizionalista del cristianesimo e la rilettura del fascismo e della seconda guerra mondiale.
Una tesi opposta a quella illustrata dal libro dello storico Giovanni Orsina nel saggio Il berlusconismo della storia d’Italia (Marsilio, pp. 239, € 19,50), per il quale il capo del centrodestra avrebbe puntato a rappresentare ilPaese reale, senza alcuna vocazione pedagogica. Al riguardo, secondo lo storico delle dottrine politiche Alessandro Campi (già direttore scientifico della finiana Fondazione Fare Futuro): «A partire dal 1994, anche grazie a Berlusconi, la destra (anzi, le destre) ha sicuramente avuto uno spazio di agibilità pubblica che non aveva più avuto sin dagli Anni Cinquanta. In realtà, già all’epoca di Craxi la cultura della destra – in coincidenza non causale con il collasso ideologico della sinistra – aveva acquisito uno status di piena cittadinanza. Ma da qui a parlare di egemonia francamente ce ne corre, a meno di non confondere, nel caso di Berlusconi, quella culturale in senso gramsciano, capace di sedimentare nuovi equilibri politico-sociali e di contribuire alla costruzione di un nuovo senso comune, con quella mediatica, per definizione effimera e fragile, veicolata dai programmi di intrattenimento e dai rotocalchi, e che si limita a spettacolarizzare l’esistente. Il Cavaliere non è mai stato interessato alla battaglia delle idee, presupposto necessario per impostare una strategia di conquista culturale della società. Egli si è trovato a spadroneggiare politicamente in un vuoto di culture politiche e di appartenenze che non ha creato lui e che ha riempito con le uniche cose che gli siano mai interessate: donne poppute, intrattenimenti comici e feste danzanti».

E, allora, nel caso in cui si consideri l’Italia berlusconiana un unicum, sorge spontaneo il quesito: si è trattato di egemonia culturale in senso proprio o, piuttosto, di qualcosa di natura differente, profondamente intriso delle dinamiche della società dello spettacolo e, dunque, di un caso di (penetrante) egemonia «sottoculturale» (che si è avvalsa delle armi di distrazione di massa del gossip, dei programmi tv trash e dell’idolatria del corpo e dell’estetica)? Agli storici, giustappunto, e ai posteri, l’ardua sentenza.

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