giovedì 27 giugno 2013
Michele Ciliberto su Machiavelli
Nettamente superiore alle incursioni di cronaca politica [SGA].
La relazione del professor Ciliberto ieri all’Istituto Italiano di Cultura di Berlino Un dibattito sulla figura del pensatore fiorentino all’interno del ciclo di incontri «Tra Rinascimento e Riformazione»
Il pensiero politico di Machiavelli
Le conseguenze etiche e l’attualità de «Il Principe» a 500 anni di distanza
di Michele Ciliberto l’Unità 27.6.13
MACHIAVELLI ELABORA UN SISTEMA TEORICO COMPATTO INCENTRATO SUL RAPPORTO
ORGANICO TRA ANTROPOLOGIA E POLITICA; sul conflitto come principio
dinamico, in questo contesto dell’agire politico; sulla funzione della
legge; su una visione tragica, in ogni caso, dell’uomo, della natura e
anche della politica.
Ho dunque voluto insistere sulla questione dei «limiti» attraverso cui
si sviluppa la riflessione di Machiavelli per abbozzarne una
interpretazione differente da quella consegnata in genere alle
genealogie moderne; ma questo non toglie, ovviamente, che Machiavelli
abbia una considerazione massima per la politica come forza e che se
essa non si configura come tale è destinata all’insuccesso radicale. Per
il Segretario fiorentino si può essere un politico di grande qualità ma
essere travolti dagli avversari e dalla storia se non si dispone di una
forza, cioè di armi adatte ai propri obiettivi. In questo senso è
veramente esemplare la valutazione che Machiavelli da su Girolamo
Savonarola, un grande personaggio ai suoi occhi, autore oltre che delle
grandi prediche in San Marco anche di un testo fondamentale, ispirato a
una polemica violentissima contro il tiranno, come il Trattato sul
governo di Firenze.
I giudizi di Machiavelli su Savonarola sono una sorta di radiografia
della sua concezione della politica, oltre che del rapporto tra politica
e religione. I documenti su cui intendo concentrarmi sono
essenzialmente tre: la lettera, famosa, a Ricciardo Becchi, del 1498; il
giudizio su Savonarola nel I libro dei Discorsi; la valutazione sulla
ragione della sconfitta del frate espressa nel III libro dello stesso
testo. Tutte queste posizioni hanno in comune un punto: sono di
carattere strettamente politico e riguardano il modo con cui il frate
utilizza la sua forza in un momento a lui favorevole e la maniera con
cui viene sconfitto in una situazione che invece gli è avversa secondo
quella relazione tra virtù e fortuna alla quale si è sopra fatto
riferimento. Nel primo caso Machiavelli dimostra come Savonarola
utilizzando in modo spregiudicato il testo biblico, e paragonandosi
implicitamente a Mosé, cerchi di guadagnarsi il popolo fiorentino quello
colto e quello rozzo aizzandoli contro un nemico che sarebbe pronto,
nelle sue parole, a farsi loro tiranno, ma mirando solamente a
salvaguardare il proprio potere, e facendolo con successo «colorando» le
proprie bugie come meglio gli conveniva.
Nel secondo caso si serve di Savonarola per mostrare la potenza della
religione come forza – e sottolineo il termine: forza – genuinamente
politica. Sarebbe interessante insistere su questo punto ma la stessa
insistenza di Machiavelli poche pagine prima sulla figura di Numa come
fondatore della potenza di Roma più dello stesso Romolo e proprio per il
modo in cui aveva saputo usare la religione, è probabile che fosse
stata generata proprio dal’aver visto all’opera Savonarola, concepito
qui e sempre, anzitutto come grande politico.
LE QUALITÀ DI SAVONAROLA
Nel terzo caso invece Machiavelli si interroga sulle ragioni della fine
di Savonarola pur continuando a riconoscergli, ed è questo l’importante,
qualità di grande politico, privo però della forza necessaria per farsi
valere. È spietato, ma paradigmatico e perfino didattico il paragone
che in queste pagine Machiavelli stabilisce fra Savonarola e Pier
Soderini: il primo grande politico privo di forza; il secondo pieno di
forza ma incapace di usarla. Paragone che ci consente di scavare
ulteriormente nell’argomento perché dimostra, anzi conferma, come per
Machiavelli la forza a sé presa, cioè infondata, non sia in grado di
conseguire successi se non è animata da una vigorosa azione politica la
quale può essere tale solo quando sgorghi da una radice più profonda
nella quale si intrecciano elementi civili, culturali ed anche
religiosi.
Come è noto queste posizioni di Machiavelli hanno rappresentato nella
cultura italiana, variamente articolate, un vero e proprio paradigma:
sono state riprese, per fare qualche nome, da Giordano Bruno o da Pietro
Giannone mentre sono state invece radicalmente rifiutate da Fra’ Paolo
Sarpi che sostiene una concezione della politica, della religione e dei
loro rapporto polarmente estranea a quella di Machiavelli.
C’è però un dato, che emerge invece in modo particolare dal rapporto con
Bruno e che conferma la estraneità di Machiavelli alle tematiche
ermetiche e magiche. Giordano Bruno nello Spaccio della bestia
trionfante riprende molti temi di Machiavelli, come ormai è diventato
ordinario sottolineare, ma li situa in un contesto in cui la magia ha un
valore decisivo. Per Bruno il politico è un cacciatore d’anima, un
vincolatore, un sapiente: appunto un mago; e così del resto Bruno
interpretava sé stesso. Machiavelli invece espunge ogni considerazione
di questo tipo dalla sua analisi della politica, della potenza, che
invece è sviluppata secondo criteri rigorosamente naturalistici, di
ascendenza sostanzialmente lucreziana.
A differenza di Bruno che pure riprende a larghe mani Lucrezio ma lo
complica alla luce di problematiche neoplatoniche e neopitagoriche
aprendosi la strada a una concezione della natura in cui la dimensione
magica, sia pure concepita in termini naturali, assume valore centrale.
Questa differenza non toglie, però anzi conferma la centralità del
paradigma machiavelliano nella storia italiana che lo stesso Bruno
svolga una concezione della religione in cui gli elementi civili di
matrice machiavelliana hanno un valore essenziale.
Alla luce di quanto si è cercato finora di dire si vede come sia
complessa la concezione machiavelliana della politica e come essa abbia
connotati caratteristici della cultura rinascimentale, come del resto
dimostra ampiamente il paradigma biologico-qualitativo che caratterizza
la sua concezione del sorgere, dello svolgersi e del finire delle
civiltà. Tanto più colpisce come lungo secoli moderni Machiavelli sia
stato progressivamente espropriato dei suoi aspetti fondamentali e sia
stato decifrato secondo criteri che appartengono al pensiero politico
moderno di Bodin, di Hobbes, ma non a quello propriamente
rinascimentale.
Per quanto possa apparire paradossale è stato proprio Antonio Gramsci a
sottolineare con energia che l’effettivo fondatore della concezione
moderna dello stato va individuato in Bodin e nei libri della
repubblica, e non in Machiavelli. Osservazione ineccepibile; eppure
lungo i secoli moderni la lezione di Machiavelli, confondendosi con
l’esperienza della ragione di stato, è venuta diluendosi
progressivamente nel machiavellismo con una perdita radicale della sua
originalità e novità.
Fenomeni che si sono particolarmente accentuati soprattutto nei momenti
di crisi politica e statuale quando la sua lezione è sembrata imporsi
con imprevedibile forza ed attualità. Machiavelli non ha però niente in
comune con il machiavellismo e neppure con l’ideologia della ragion di
Stato. Quello che a noi tocca oggi fare è confrontarsi con la sua opera
per quello che essa è stata ed ha voluto essere senza deformare i suoi
lineamenti alla luce di vicende che con la sua esperienza umana e
intellettuale hanno poco da spartire.
Ma per fare questo, ed è la mia ultima notazione, va riconsiderata la
generale interpretazione del Rinascimento che è arrivata fino al
Novecento e che ora va rimessa in discussione fin dalle fondamenta.
Simul stabunt, simul cadent.
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