lunedì 3 giugno 2013

"Rivolta degli alberi", "Primavera turca", "giovani liberali" in cerca di diritti umani...

l’Unità 3.6.13

Turchia. La sfida di piazza Taksim
Amnesty international denuncia due morti ma non ci sono conferme ufficiali
Nuove manifestazioni ad Ankara, sulla spinta dei social network
Il premier: «Raccontano bugie»
di Umberto De Giovannangeli

La «Primavera turca» potrebbe avere già i suoi primi martiri. Amnesty denuncia la morte di due manifestanti e un migliaio di feriti: sarebbe questo il bilancio degli scontri scoppiati a Istanbul e in altre città turche durante le proteste contro il governo, anche se non ci sono state finora conferme ufficiali. L’organizzazione per i diritti umani ha reso noto di aver messo a disposizione una ventina di medici nella propria sede di Istanbul, che si trova poco distante da piazza Taksim, per curare i feriti negli scontri. Anche per Human Rights Watch le cifre sono molto più alte di quelle indicate dalle autorità che parlando solo di 53 cittadini e 26 poliziotti feriti in tutto il Paese. Il direttore di Amnesty per l’Europa, John Dalhuisen, ha osservato che gli eccessi della polizia in Turchia sono ormai un’abitudine ma ha aggiunto che «la repressione della protesta pacifica di piazza Taksim è stata veramente vergognosa». La polizia ha riferito del fermo di 939 manifestanti, molti dei quali poi rilasciati, mentre sono state 90 le iniziative di protesta organizzate in 48 città turche.
ATATURK COME SIMBOLO
Il movimento di rivolta, partito lunedì scorso da una protesta contro lo smantellamento del parco di Gezi, nel cuore di Istanbul, per far posto ad un centro commerciale e a una moschea, si è esteso a tutto il Paese. Migliaia di persone hanno manifestato sabato notte ad Ankara, a migliaia sono scesi in strada per contestare il governo del premier islamico, Recep Tayyip Erdogan. Lungo la centrale arteria commerciale di Tunali nella capitale turca una folla variopinta, molti con la bandiera turca rossa con la mezza luna bianca o con stendardi rossi con le sigle del fondatore della Turchia moderna e laica, Moustafah Kemal Ataturk, sulle spalle, ha sfilato cantando «Tayyp vattene».
Moltissimi tenevano in mano bottiglie di birra, simbolo della resistenza contro il partito islamico Akp del capo del governo, che la settimana scorsa ha imposto un duro giro di vite sul consumo di bevande alcoliche. Su un marciapiede di Tunali i manifestanti hanno depositato una dietro l’altra una cinquantina di bottiglie, alcune decorate con lumini accesi. Lungo la via diverse le coppie che, a mo' di contestazione delle autorità islamiche, si sono baciate sulla bocca. La settimana scorsa la polizia di Ankara aveva tentato di impedire una «protesta del bacio» in una stazione del centro della capitale, convocata dopo che le autorità locali avevano invitato i passeggeri della metropolitana ad un «comportamento morale». Le telecamere a circuito chiuso avevano infatti ripreso alcuni giovani che si erano baciati.
Ma il centro della protesta resta la «Piazza Tahrir» di Istanbul: Piazza Taksim. Dopo due giorni di scontri, è calma tesa. Nel primo pomeriggio, migliaia di oppositori del premier Erdogan hanno rioccupato la piazza teatro l’altro ieri di violenti scontri con la polizia. Un fiume di manifestanti, autoconvocatisi sulle reti sociali, molti con bandiere turche e ritratti di Ataturk, è confluito verso la celebre piazza nel cuore della Istanbul europea.
Intanto, dai siti arriva una valanga di denunce della estrema brutalità l’altro ieri della polizia turca, che ha coperto i manifestanti di gas lacrimogeni e pallottole di gomma sparati ad altezza d’uomo. Sui social network circolano migliaia di video e foto di feriti gravi, di scene di caccia all’uomo e di grande brutalità da parte delle forze dell’ordine. C’è anche quello che mostra un manifestante travolta prima dal getto di un idrante e poi da un blindato, a sua volta circondato dai manifestanti subito dopo. Quattro manifestanti, colpiti agli occhi hanno perso la vista.
Chi siano i protagonisti di «Occupy Taksim», lo racconta uno dei più noti giornalisti turchi, Alì Isingor: «Tra di loro ci sono giovani arrabbiati, studenti, intellettuali, tifosi del Besiktas, la squadra di calcio del quartiere, e persino ragazze con il velo...».
Una moschea sarà costruita in piazza Taksim e il governo non chiederà il permesso all’opposizione o ai dimostranti. Lo ha ribadito Erdogan, che ieri ha attaccato la comunicazione on line: «Il cosiddetto Twitter è una minaccia, che finora ha causato problemi perchè è pieno di menzogne», ha detto. «Non chiederò il permesso (dell’opposizione, ndr) o di una manciata di teppisti», ha avvertito il premier. «Se chiamano dittatore chi ha servito il popolo, non hanno capito niente. Sono il servo del popolo». Ai manifestanti si è rivolto, via twitter, anche il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, chiedendo loro di porre fine alle proteste. La preoccupazione di Davutoglu non è la fondatezza o meno delle richieste ma il danno di immagine alla Turchia: «La prosecuzione di queste proteste non porterà alcun beneficio ma anzi danneggerà la reputazione del nostro Paese che è ammirato nella regione e nel mondo».
La tensione resta alta. La Farnesina mette in guardia «i connazionali a prestare la massima prudenza, evitando di recarsi in zone soggette a manifestazione» in particolare a Istanbul e Ankara.

Corriere 3.6.13
«Una rivolta contro l'islamizzazione strisciante»
«La crescita economica è illusoria senza le istituzioni democratiche»
di Mo. Ri. Sar.

«Ci sono mille ragioni per cui finora non abbiamo voluto la Turchia nell'Europa, però chiediamoci veramente come sarebbe l'Unione Europea se avesse vicino un Paese che assomiglia all'Iran». Francesco Giavazzi, professore di Economia alla Bocconi ed editorialista del Corriere, è arrivato a Istanbul sabato scorso nel mezzo della protesta contro il governo Erdogan: si è recato in piazza Taksim, ha parlato con la gente che manifestava ed è rimasto impressionato dall'atmosfera che si respira nel Paese. «Di sicuro — dice al telefono — quello che sta succedendo non ha nulla a che fare con il parco Gezi e con gli alberi. Qui se uno si guarda in giro vede tante donne, anche anziane, che ce l'hanno con il primo ministro per il suo tentativo di far diventare la Turchia uno Stato islamico».
L'impressione è che Erdogan stia diventando proprio come Putin, un autocrate insofferente: «La gente di questo se ne accorge. Ho visto ragazzi che vanno in giro con le lattine di birra per sfidare il divieto sull'alcol e ragazze che mostrano il capo scoperto in segno di sfida. Ma come? La Costituzione voluta da Atatürk vietava il velo in ufficio e ora diventa quasi un obbligo? Molte donne mi hanno detto che a scuola costringono le bambine a indossarlo».
Anche negli ambienti universitari c'è molta preoccupazione per il futuro. Giavazzi in questi giorni terrà delle lezioni di politica fiscale alla Koç University: «Mi hanno detto — racconta — che Erdogan preme per diventare il nuovo sultano del Medio Oriente, che insiste con gli americani perché entrino in Siria. Il problema è che quando un Paese cresce economicamente la gente è pronta a chiudere gli occhi su molte cose ma le ultime decisioni hanno un po' passato il limite».
Secondo i sondaggi Erdogan ha ancora fra il 40% e il 50% delle intenzioni di voto. Ma il suo elettorato non è monolitico. Ci sono i religiosi, le grandi masse dell'Anatolia cui il governo islamico ha ridato orgoglio e parola, ma c'è anche una fetta di elettori che lo vota perché dal 2002 ha dato stabilità al Paese, triplicato il reddito pro capite, fatto della Turchia la 17esima economia mondiale. «Queste persone — dice Giavazzi — non sono pronte a rinunciare alla laicità per una Repubblica islamica. È interessante vedere che cosa accade all'élite perché finora ha accettato di avere un Paese un po' più musulmano in cambio di buoni affari ma oggi non ci sta più e manda le figlie a studiare all'estero per non far mettere loro il velo».
Anche la crescita potrebbe essere illusoria. «Stanno costruendo dappertutto forsennatamente ma la Storia ci dice — è l'analisi del professore — che questi grandi boom immobiliari poi finiscono male se dietro non ci sono istituzioni che funzionano. È un po' quello che accade in Cina con la differenza che qui la democrazia c'è ma sempre di meno. Oggi il numero di giornalisti in prigione nel Paese è secondo solo alla Russia».
Le colpe di quanto sta accadendo sono anche dell'Europa. «Sicuramente la decisione di Bruxelles di non lasciar entrare Ankara nell'Unione o di rallentarne il processo di adesione ha messo la Turchia sulla strada dell'Islam radicale. Un ragazzo mi ha detto: se diventiamo come l'Iran sarete voi i responsabili, se ci aveste lasciato entrare nella Ue oggi saremmo un altro Paese».

Repubblica 3.6.13
In piazza con i “giovani turchi” che lottano contro divieti e censure
“Basta con la religione al potere”
di Marco Ansaldo

ISTANBUL IL DETTO del massimo poeta turco, inviso al potere e morto lontano dalla patria, si legge chiaro sui cartelli innalzati a Piazza Taksim, simbolo della rivolta turca.
E si adatta bene qui, davanti al Gezi Park, dove i 600 alberi da sacrificare per far posto a un grande centro commerciale, appaiono per ora al sicuro nonostante abbiano costituito la miccia di una colossale protesta laica che infiamma Istanbul e tutto il Paese contro gli islamici al governo.
«Tayyip, noi siamo qui. Tu dove sei?», scandiscono a migliaia al ritmo di un tamburo che attraversa lo slargo dove si erge il monumento ad Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, scolpito dall’italiano Pietro Canonica. Tayyip Erdogan, il primo ministro che ha alzato le tasse su tabacco e alcolici, che vuole vietare i baci in pubblico e le gambe delle modelle nelle pubblicità, accusato piuttosto di pensare troppo agli affari e a progetti faraonici, è da sette giorni e sette notti il bersaglio della piazza.
«Dimettiti, fascista!». «Vattene in Arabia Saudita». «Basta con la religione al potere». Parole come sassi, scritte di fuoco sui muri, mentre la polizia da un giorno ha infine lasciato il campo a una folla che impugna, come finora visto solo a Smirne, il centro più laico del Paese, la bandiera nazionale con impressa l’immagine simbolo di Ataturk.
E’ una massa adesso padrona della piazza. Con una protesta che si esprime in mille forme. Sono arrivati qui anche dalla parte anatolica, battendo i cucchiai contro le pentole, appendendo asciugamani bianchi alle finestre, accendendo e spegnendo la luce di notte nelle case in segno di perenne vigilanza.
«Il governo — dice Deniz, un giovane che indossa una maglietta senza maniche — fa pressioni su tutto: non fate due figli, ma fatene tre. Non baciatevi nelle stazioni della metropolitana. Non fumate. Non bevete. Ma io sono un figlio di Ataturk, accidenti, e mi oppongo». Spiega Ayshe, una donna sulla trentina: «Questa è la Turchia, è il mio Paese, dobbiamo difenderlo da chi vuole distruggerlo con divieti assurdi e con costruzioni che alterano l’immagine di Istanbul. Ora basta. La nostra è la “Primavera turca”». «A Erdogan è partito il cervello — aggiunge un altro dimostrante che tiene in mano una birra — dopo il terzo mandato ricevuto alle elezioni pensa essere il padrone della Turchia. Per lui la critica non esiste. Adesso è evidente a tutti che ha in mente una “agenda islamica”».
Non è facile arrivare fino a Taksim, fulcro di un Istanbul solitamente preda di un traffico ben superiore a quello di Roma. L’accesso è solo a piedi. Le vie in salita, dove spesso arrancano autobus colmi di turisti, sono ora sbarrati da barricate composte da mattoni divelti dai marciapiedi. Oppure da blindati della polizia, rivoltati, vuoti, come cadaveri gettati in mezzo alla strada. Vetri dappertutto, pezzi di cemento rimossi. E’ un’atmosfera da battaglia, mentre ristagna l’odore acre dei gas lacrimogeni, e le aiuole sono colme dei limoni a spicchi con cui i manifestanti hanno tentato di proteggersi il respiro.
A Piazza Taksim aleggia adesso un profumo di vittoria. E’ la piazza simbolo della sinistra repubblicana. Qui si sono tenute le rivolte del 1 maggio. Qui gli istanbulioti hanno dimostrato tutta la solidarietà ai concittadini ospitandoli e riscaldandoli nelle notti passate all’addiaccio nel terremoto del 1999. In una mattina di domenica in cui gli scontri sembrano essersi presi un giorno di tregua, decine di ragazzi si sono armati di scope, palette e sacchi, ripulendo gli angoli dai pezzi di vetro, dai proiettili di gomma, dai candelotti lacrimogeni esplosi, insieme a montagne di rifiuti lasciati da una settimana di occupazione.
La rivolta si è invece trasferita di giorno ad Ankara, dove un assembramento è stato disperso da una carica della polizia che ha fatto uso di lacrimogeni e idranti: almeno 8 i feriti. E poi a Smirne, considerata dagli integralisti “gavur”, l’infedele, dove cortei di auto hanno marciato per il centro suonando i clacson ed esponendo la bandiera nazionale. In 7 giorni, più di 1.700 le persone arrestate. «La maggior parte — ha riferito il ministro dell’Interno, Muammer Guler, che ha infine obbedito all’ordine del capo dello Stato, Abdullah Gul, di far ritirare la polizia — sono state rilasciate». Due persone sono state uccise, sostengono i dimostranti. Ma è una notizia che non trova conferma a livello ufficiale, e anche Amnesty International riferisce unicamente di «cinque persone in pericolo di vita per ferite alla testa».
Prima di sera è Erdogan a farsi vivo in tv con un discorso. «Dicono che Tayyip Erdogan è un dittatore — esordisce, riferendosi a sé stesso —. Se vogliono chiamare dittatore uno che serve il popolo, mi mancano le parole». Poi, in tono di sfida, contro i socialdemocratici, suoi avversari in Parlamento: «Il principale partito di opposizione è la causa di queste proteste, che hanno una motivazione ideologica e non riguarda invece lo sradicamento di una dozzina di alberi. Naturalmente, non chiederò a loro né ai saccheggiatori il permesso per andare avanti. In realtà, sono incapaci di sconfiggere il governo alle urne». In ultimo, dopo aver accusato Twitter e i social network di fomentare la rivolta, l’attacco ai dimostranti ma con una sostanziale marcia indietro sul progetto che ha scatenato la rivolta: «Bruciano, danneggiano negozi, è questa la democrazia? Il problema sono gli alberi? Qui nessuno vuole tagliare gli alberi. Non c’è nessuna decisione finale sulla costruzione di un centro commerciale. Forse ci sarà un museo cittadino».
Eppure, il “cahier de doleances” dei laici nei confronti del premier, nonostante le 3 indiscutibili vittorie alle elezioni nei 10 anni in cui è al potere, è lungo: il velo ammesso nei luoghi pubblici e negli uffici statali, le scuole coraniche pure per i bambini, le tv controllate e i media sotto scacco, i procedimenti a intellettuali e giornalisti critici. Il giro di vite sull’alcol è solo l’ultima goccia. Assieme agli imbarazzi e agli attentati subiti per la vicina crisi siriana. Gli alberi di Gezi Park, la miccia finale.
E’ ormai buio quando da Piazza Taksim la battaglia si trasferisce al porto di Besiktas, nei
pressi dei grandi alberghi per i turisti. Dove l’altro ieri, in un’inedita riunione, i tifosi delle 3 squadre di Istanbul, Galatasaray, Fenerbahce e Besiktas, si sono ritrovati vestiti delle magliette dei propri club, mischiandosi fra loro e intonando cori contro il leader: «Tayyip, dimissioni! Viva la Turchia laica». Ma questa è un’altra notte di battaglia. Spari, urla, ancora lacrimogeni, ancora rulli di tamburi. Elicotteri della polizia si alzano in volo. Creata dai gas, una nuvola nera staziona sopra il Bosforo. I dimostranti si disperdono, mentre scatta la caccia all’abitazione di Erdogan, presidiata dalla polizia.

Repubblica 3.6.13
La Primavera di Istanbul
Addio al “modello turco” la Primavera di Istanbul mette in crisi il mondo arabo
di Gilles Kepel

LE MANIFESTAZIONI a Istanbul, Smirne e Ankara sono il primo esempio di una massiccia disobbedienza civile nei confronti del potere di Erdogan.
E ANCHE nei confronti del partito islamico Akp che dirige il Paese da più di dieci anni. Queste manifestazioni che potrebbero rappresentare l’inizio di una “primavera turca” costringono il premier a ridisegnare l’immagine e il ruolo della Turchia, tenendo conto delle sue pretese di servire come esempio “islamo-capitalista” a quei Fratelli musulmani che hanno conquistato il potere in Egitto e Tunisia.
Paradossalmente, però, se per quei regimi arabi nati con le recenti rivoluzioni la Turchia è diventata il modello di sviluppo economico da imitare, le rivolte di Istanbul, Smirne e Ankara evocano le manifestazioni del Cairo contro l'autoritarismo del presidente Morsi o quelle di Tunisi dopo l’assassinio dell'avvocato laico Chokri Belaid da parte di un gruppo islamico radicale. La prosperità turca si è infatti scontrata a diversi ostacoli interni e regionali, che hanno rotto gli equilibri di quella “democrazia islamica” che predicava Erdogan, spingendo il Paese verso una deriva dittatoriale e un coinvolgimento sempre più rischioso nella guerra in Siria.
Sul piano interno, ad allontanare le classi medi democratiche che avevano votato l’Akp, e a farle scendere nelle piazze, sono state sia le leggi recentemente annunciate per limitare severamente la vendita di alcol, sia la volontà di Erdogan di presentarsi nel 2014 alle elezioni presidenziali (e, una volta eletto, trasformare la costituzione in modo da gestire da solo tutto il potere). Ora, il successo dell’Akp fu provocato dal rifiuto del popolo turco dell’onnipotenza dei militari, i quali dagli inizi della repubblica, e con un guanto di ferro, avevano controllato ciò che i turchi stessi chiamano “lo Stato profondo”.
A queste ragioni interne di scontento e di timore si sono aggiunti gli interrogativi sui rischi che fa correre alla Turchia un suo coinvolgimento sempre più importante nel conflitto civile che sta dilaniando la Siria e che ormai sconfina un po’ ovunque dal suo territorio.
Basterebbe citare il fatto che le forze del presidente Bashar al Assad hanno effettuato più volte dei provocatori bombardamenti sul territorio turco e che l’esercito di Ankara, fino a pochi anni fa sovraequipaggiato dalla Nato, è sempre stato colto di sorpresa, fino allo schieramento sul suo confine di una batteria di missili Patriot. L a situazione è tanto più preoccupante che oggi gran parte dei generali dello Stato maggiore turco è in prigione, dove l’ha rinchiuso l’Akp per il ruolo svolto dai militari nello “Stato profondo”.
La Turchia si trova confrontata a una crisi che potremmo definire di “crescita” e bisognerà vedere se riuscirà o meno a far coincidere le sue ambizioni con le realtà economiche, sociali e politiche del momento. E soprattutto se potrà mantenere la sua compattezza interna e il suo ruolo di Paese dominante tra Paesi vicini, in un ambiente regionale profondamente minacciato dal potenziale di destabilizzazione della crisi siriana.
Detto ciò la Turchia è uno degli elementi chiave dell’improbabile alleanza che sostiene la rivoluzione siriana e che è composta da attori diversissimi tra loro. Tra questi si contano infatti le petro-monarchie del Golfo (all’interno delle quali c’è l’enorme conflitto tra Qatar e Arabia Saudita per il dominio del mondo arabo), le democrazie occidentali ma anche Israele. A loro si oppone il fronte dell’alleanza pro-Assad, nel quale si tengono per mano la Russia, l’Iran, parte dell’Iraq e l’Hezbollah libanese. In questo complicato scenario geopolitico, la Turchia potrebbe interpretare il ruolo del gendarme con l’intento di garantire alla regione una pax turca. Sempre che piazza Taksim non si trasformi in piazza Tahrir.

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