sabato 21 settembre 2013
La crisi del capitalismo "molecolare" italiano
Risvolto
Ciò che resta e ciò che sarà del
capitalismo (finito o in-finito che
sia) nel'Italia della crisi: dalla
Torino postfordista ai porti della
Liguria, da Milano al Veneto
del modello del Nordest, dall'Italia
di mezzo fino al Sud, un'indagine
sul declino e sulle risorse del nostro
Paese.
Che cosa è cambiato rispetto agli anni
del trionfo del modello della piccola
e media azienda italiana rampante?
E che cosa da quando migliaia di imprenditori
(molti nel Nordest) investivano
nel Made in Italy e si lanciavano
in nuove sfide, mossi dalla voglia di affermarsi
sul mercato e di guadagnarsi
il proprio posto al sole? Erano gli anni
di quel che Bonomi definì il «capitalismo
molecolare». È cambiato tutto.
Dal Nordovest alla Pedemontana
lombarda e veneta e poi dall'Emilia,
la Toscana fino al Sud, il nuovo saggio
di Bonomi - straordinario per la mole
di dati e di preziose interviste raccolti
su tutto il territorio - mette insieme le
storie di artigiani, imprenditori, piccoli
e meno. E lo fa nel contesto non
agevole di un declino dei ceti medi di
mercato (professionisti, lavoratori autonomi,
piccoli imprenditori) e della
middle class cresciuta con lo sviluppo
dei sistemi di welfare. Eppure, nonostante
le difficoltà, l'indagine di Bonomi
ci dice che piccoli imprenditori
e lavoratori della conoscenza non subiscono
passivamente la crisi; aggiornano
le competenze, si muovono sul
mercato, cooperano. Forse, in alternativa
al «finanzcapitalismo» la traccia
da seguire sta nella eventualità di
far sì che la parola chiave, Economia,
sappia tenere assieme le 3 T della new
economy (Tecnologia-Talento-Tolleranza)
con le 3 T della Terra come
risorsa, del Territorio da ripensare e
della Tenuta dell'ecosistema.
Il motore nascosto della ricchezza
APERTURA - Giuseppe Allegri, Roberto Ciccarelli il manifesto 2013.09.17 - 11 CULTURA
Evoluzione, vicoli ciechi e momenti di crisi del milieu composto da precari e lavoratori «indipendenti»
In Capitalismo in-finito (Einaudi, pp.198,
euro 17), Aldo Bonomi racconta l'ascesa e la caduta della borghesia
diffusa del capitalismo molecolare e dei distretti industriali. Dagli
anni Ottanta, le sue quattromila imprese sono cresciute grazie al
decentramento produttivo e alla riduzione della società italiana al
«ceto medio». La crisi ha lasciato sul terreno una moltitudine di
disoccupati e partite Iva che formano una sterminata massa di
contoterzisti impoveriti. Diversi per status e per culture professionali
dai precari maggioritari, ma come loro ridotti a un neo-proletariato
definito anche da Bonomi «Quinto Stato».
Categoria altamente
composita, cresciuta sull'onda della «terziarizzazione» dell'economia,
il Quinto Stato raccoglie tre habitus diversi: quello del capitalismo
personale; il lavoro della conoscenza, culturale e creativo; quello dei
servizi alla persona e della logistica. Più che rappresentare un
soggetto unico, e omogeneo, il Quinto Stato è il nome del processo che
ha progressivamente precarizzato i rapporti di lavoro, svuotato i
territori e i rapporti produttivi. Questo processo ha investito tanto i
precari tradizionali, quanto il lavoro autonomo professionale che Sergio
Bologna ha definito di «seconda generazione».
Bonomi non trascura
la contraddizione interna al Quinto Stato, tra la lower middle class e
il proletariato dei precari che non hanno nulla da spartire con i ricchi
professionisti o gli attori della speculazione finanziaria. Tra di loro
i legami sono tenui e, quando ci sono, il conflitto è aspro. In questo
caso, parlare di «Quinto Stato» significa descrivere un orizzonte che
contiene scandalose differenze di classe, ma anche una vita sociale
aperta al conflitto.
La plasticità di una categoria che indica una
condizione, e non solo un soggetto produttivo o contrattuale, impedisce
di identificare il Quinto Stato solo con una classe creativa, un ceto
professionale o imprenditoriale. Per chi scrive il problema è emerso
scrivendo La furia dei cervelli, un libro lungamente analizzato in
Capitalismo in-finito. Oggi sappiamo che il «Quinto Stato» non allude
solo allo status di una categoria professionale, ma incarna il futuro di
un lavoro che sarà sempre più indipendente, intermittente e autonomo e
già oggi indica la condizione di una vastissima porzione della
forza-lavoro attiva, al di là delle nazionalità di riferimento.
Questa
è la realtà che sta emergendo in una crisi che ha già distrutto oltre
un milione di posti di fissi in Italia, ma non ha certamente cancellato
la capacità di vivere in maniera operosa. Il Quinto Stato si definisce
in base ad una capacità comune agli esseri umani e alle possibilità di
affermarla sui territori e nelle città, indicati da Bonomi come i luoghi
dove elaborare un progetto di green society alternativo all'Europa
dell'austerità.
Rispetto alla (falsa) linearità attribuita al
movimento operaio, soggetto omogeneo capace di dotarsi di una
rappresentanza univoca nel sindacato e nel partito, il Quinto Stato oggi
è un processo discontinuo la cui finalità resta ancora da comprendere.
Ciò non toglie che esso abbia caratterizzato i processi produttivi e
sociali degli ultimi trent'anni. Politicamente si è espresso nel
sindacalismo territoriale della Lega Nord o nel blocco sociale
berlusconiano. Il Movimento 5 Stelle, anch'esso può essere considerato
un'espressione del Quinto Stato, si limita a sostituire
l'identificazione con il Capo Beppe Grillo al legame ancestrale con un
territorio o all'ambizione di governare il paese come una rete Mediaset.
Questi limiti non dovrebbero tuttavia distogliere l'attenzione dal
fatto che il «Quinto Stato» è il soggetto di riferimento della politica.
Bonomi sostiene che il suo futuro resta legato alla possibilità di
costruire coalizioni tra le vittime e gli attori di un processo che ha
cambiato radicalmente la società italiana. Oggi è chiaro che per
realizzarle è necessaria una forza politica (e non solo un partito o un
movimento personale) che abbiamo visto risvegliarsi nel lavoro culturale
o nella difesa dei beni comuni, con la difficoltà di produrre risultati
tangibili.
Lo strumento per attivare una simile forza potrebbe
essere il mutualismo. La lunga storia di questo concetto ha portato la
sinistra a intenderlo come una forma di solidarietà tra i poveri. Il
mutualismo è invece lo strumento utile per creare coalizioni
democratiche che abbiano lo scopo di garantire il mutuo soccorso e
l'istituzione di nuovi regimi di auto-governo. Sono queste le basi,
solidali e non individualistiche, per una riforma universale del Welfare
che tuteli le potenzialità della persona e non la sua appartenenza a
corporazioni, sindacati o classi sociali.
Questa prospettiva resta
purtroppo una prerogativa di minoranze attive e viene ignorata dalla
maggioranza del Quinto Stato, sempre più passivo e rancoroso, oltre che
impoverito. Ciò non toglie che, per chi fosse interessato a «fare
politica», il mutualismo rappresenti un'opzione concreta, oltre che una
radicale alternativa all'austero liberalismo europeo, sia esso di destra
o di sinistra. E non può essere altrimenti perché il mutualismo esprime
l'esigenza di costruire una società dove milioni di persone
continueranno a vivere e a lavorare in maniera indipendente e dovranno
difendere la propria autonomia contro tutte le forme di sfruttamento e
ricatto. Proprio come fece il «Quarto Stato», di cui il «Quinto Stato»
rappresenta l'eretico erede.
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