domenica 6 ottobre 2013
Dal brand Wu Ming un nuovo romanzo storico postmoderno
Risvolto
E dunque, che razza di libro è questo?
È un racconto di tanti racconti. Parla dell’Africa (di tante Afriche) e delle Alpi Giulie, parla di Italia e «italianità», di esploratori e squadristi, di poeti e diplomatici, di guide alpine e guerriglieri. Attraversa i territori e la storia di quattro imperi.
È un racconto di racconti di uomini che vagarono sui monti. Uomini che in pianura e in città indossavano elmi, cotte di maglia, armature da ufficio, e solo in montagna si sentivano finalmente leggeri, finalmente sé stessi. La montagna era tempo liberato, rubato al dover vivere, conquistato con unghie, denti e piccozza. Quando scendevano – perché prima o poi tocca farlo – la vita li riafferrava, la gravità li tirava giú e tornavano a essere, come scrisse uno di loro che poi si tolse la vita, «i falliti». Lo furono anche nella buona sorte: qualcuno ebbe successo nella professione, girò il mondo, fece piú di una bella figura in società, poté contare su una famiglia che lo amava… Eppure, nulla di tutto ciò rimpiazzava una salita in montagna, una notte in bivacco, uscire dal rifugio e assistere in marcia al sorgere del sole.
Tutti i giorni sognavano. Sognavano il cameratismo della cordata o la pace concentrata e acuta dell’ascesa in solitaria. Tutti, senza eccezioni, sognavano il vento che sferza naso e guance mentre lo sguardo si perde dalla vetta, rivivevano l’istante prima della discesa, l’ultimo languore che precede la tristezza, la mancanza, il congedo dal mondo che non conosce il dover vivere.
Qualcuno ha detto: la vita è quel che che ti accade mentre cerchi di fare altro. Quei «falliti» siamo noi, noi che mal sopportiamo le interruzioni. «Fallito» è chi scrive queste righe: che siamo alpinisti o scrittori (e a volte siamo entrambe le cose), artisti o viaggiatori, noi non riusciamo a farci comprendere, abbiamo la testa scoperchiata e il cielo dentro, vorremmo disertare il dover vivere, chiedere asilo nel mondo alternativo che ogni tanto visitiamo, ma non si può, perché la vita è altro, la vita è quel che irrompe e spezza il filo dei pensieri, dei sogni a occhi aperti.
Per riafferrare quel filo la prossima volta, o illuderci di poterlo fare, noi scriviamo. Scriviamo appunti, resoconti, lettere, a volte romanzi.
Tra i «falliti» di cui racconteremo, la montagna fu male divenuto cura: bacillo inoculato in tenera età, tornò utile per lenire i traumi dell’educazione rigida, della corazza da «veri uomini» (quelli che non piangono e non si perdono in mollezze!), del lungo viaggio attraverso il fascismo e la guerra e, per alcuni, di una lunga prigionia, un difficile ritorno, un impossibile riadattarsi.
Quei traumi li accompagnarono per tutta la vita. Non si liberarono mai dell’armatura, ma sui monti vissero momenti di intensa gioia, sincera autocoscienza, incorazzata lucidità.
Noi lo sappiamo perché ne scrissero.
Nella scrittura e solo in essa, quegli uomini furono senza difese, e anche dove cercarono di difendersi con piccole reticenze e intenzionali lacune, affidarono ai lapsus calami le loro verità. Ci hanno raccontato il mondo alternativo e dunque, per contrasto, il mondo del dover vivere.
Da qui ripartiamo. Per far tesoro della spinta che supera la «bestiale acquiescenza all’immediato», e trovare noi stessi in quelle pagine.
SCAFFALI · «Point Lenana» di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara per Einaudi
ARTICOLO - Alberto Prunetti il manifesto 2013.10.05 - 11
Il collettivo di narratori Wu Ming ci ha
abituati a salti improvvisi di paradigma. Spiazzano tutti anche
stavolta, a parte forse i lettori più attenti che sul blog-comunità Giap
li accompagnano nell'evoluzione delle loro scelte narrative.
Nell'ultima fatica, Point Lenana (Einaudi, euro 20), frutto della
collaborazione di Wu Ming 1 con Roberto Santachiara, ci sono almeno due
elementi di discontinuità con il passato. Innanzitutto, la scelta della
prima persona, a tratti autobiografica (una soluzione adottata di rado
dal collettivo); in secondo luogo, il fatto di aver scelto come
principale attore di questa nuova storia non un'icona della sinistra o
un eroe - magari dimenticato - della memoria popolare ma un personaggio
sfaccettato e a prima vista tutt'altro che attraente. Il protagonista di
Point Lenana è infatti Felice Benuzzi, prigioniero di guerra italiano
che evade nel gennaio 1943 da un campo di prigionia inglese in Kenia e
compie con due sodali un'impresa memorabile: scalare una punta del Monte
Kenia (che dà il nome al libro) per poi ritornare, con un gesto di fair
play , al campo di detenzione. Una scalata che rappresenta un
superamento del fascismo e il recupero della propria dignità, costretta
in un contesto carcerario. Ma Point Lenana non è solo la storia di
un'evasione né la biografia di un alpinista. Il libro, come ha
dichiarato in un'intervista Wu Ming 1, diventa l'occasione «di una
scorribanda nel Novecento italiano». Gli autori di Point Lenana
camminano sulla pista di Benuzzi («scrivendo con i piedi») e attivano
varianti su quel cammino che li conducono a Trieste, con la persecuzione
fascista delle minoranze slovene, poi nei Balcani, in Libia e in
Etiopia, riportando alla luce le vergogne e i crimini del ventennio
fascista e del colonialismo italiano, come l'uso di armi chimiche quali
l'iprite per lo sterminio delle popolazioni civili praticato, prima che
in Siria, dagli italiani in Libia: un crimine di guerra negato per anni
da tanti storici e giornalisti, a cominciare da Indro Montanelli.
Itinerari così poco lineari che si possono cartografare solo con un
mezzo molto più duttile e versatile del saggio accademico o del romanzo
di finzione. Stiamo parlando di un «meta-genere narrativo», un ibrido
letterario tra fiction e no fiction, tra saggio, memoria di viaggio,
inchiesta storica o giornalistica, che i Wu Ming chiamano «oggetto
narrativo non identificato». Difficile da collocare nelle collane e
negli scaffali delle librerie, Point Lenana vive infatti in un regno di
mezzo tra saggio e narrativa, con l'esposizione nel racconto delle fonti
della ricerca documentale, la citazione di materiali iconografici, il
dialogo con le scritture testimoniali e la bibliografia che espande
l'opera e compie connessioni e agganci. La scelta di Wu Ming 1 e
Santachiara non è comoda. Ci vuole coraggio per prendere come «eroe» un
personaggio difficile, con un piede nello scetticismo verso il regime -
che non è ancora antifascismo ma che gli basta a sposare un'ebrea
berlinese a pochi giorni dall'approvazione delle leggi razziali - e un
altro in una carriera diplomatica. Qualcosa di diverso da quel
«disseppellire le asce di guerra» che già il collettivo di storyteller
avevano messo in cantiere con la storia di Vitaliano Ravagli. Il nuovo
progetto solista ha forse più debiti con un'altra scrittura «meticcia»,
Timira di Wu Ming 2 e Antar Mohamed, che ricostruisce magistralmente la
vita di Isabella Marincola. Una scelta che all'inizio risulta spiazzante
e che poi, per i miracoli delle macchine narrative dei Wu Ming,
funziona alla perfeziona e rischia di aprire falle devastanti nelle
trincee storiografiche degli «italiani brava gente».
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