Quale rapporto intercorre tra le migliori elaborazioni teoriche dell'Occidente e le teorie razziste che ne costituiscono, in buona parte, l'elemento fondante? Che relazione intercorre tra l'epistemologia secolarmente codificata e la dominazione coloniale? Il presente lavoro parte e si sviluppa cercando di rispondere a queste domande fondamentali. Attraverso l'analisi genealogica e semantica di concetti quali razza, civilizzazione, indio/indigeno ecc., l'autore intende mostrare come il sapere disciplinato in Occidente - dalla filosofia all'antropologia, dalla teologia alla greografia, dalla storia alla biologia - abbia costituito un'arma implacabile nelle mani della civiltà bianca e cristiana, con la quale del resto si continua a governare e a soggiogare gran parte del pianeta. Ma analizzando le forme di resistenza alla disumanizzazione e alla schiavitù, al monismo teologico-morale e alla razializzazione del pensiero, il libro intende anche smascherare le menzogne e le pratiche egemoniche che hanno costituito il nucleo stesso della storia occidentale, allo scopo di riabilitare un sapere altro, fondato su rapporti interumani orizzontali, di reciprocità, gli unici in grado di dar voce e restituire dignità e consapevolezza all'uomo totale.
domenica 6 ottobre 2013
"Decolonizzare la cultura"
Ho sentito l'autore alla radio, questa estate; sembra proprio un bel libro [SGA].
Risvolto
Quale rapporto intercorre tra le migliori elaborazioni teoriche dell'Occidente e le teorie razziste che ne costituiscono, in buona parte, l'elemento fondante? Che relazione intercorre tra l'epistemologia secolarmente codificata e la dominazione coloniale? Il presente lavoro parte e si sviluppa cercando di rispondere a queste domande fondamentali. Attraverso l'analisi genealogica e semantica di concetti quali razza, civilizzazione, indio/indigeno ecc., l'autore intende mostrare come il sapere disciplinato in Occidente - dalla filosofia all'antropologia, dalla teologia alla greografia, dalla storia alla biologia - abbia costituito un'arma implacabile nelle mani della civiltà bianca e cristiana, con la quale del resto si continua a governare e a soggiogare gran parte del pianeta. Ma analizzando le forme di resistenza alla disumanizzazione e alla schiavitù, al monismo teologico-morale e alla razializzazione del pensiero, il libro intende anche smascherare le menzogne e le pratiche egemoniche che hanno costituito il nucleo stesso della storia occidentale, allo scopo di riabilitare un sapere altro, fondato su rapporti interumani orizzontali, di reciprocità, gli unici in grado di dar voce e restituire dignità e consapevolezza all'uomo totale.
Quale rapporto intercorre tra le migliori elaborazioni teoriche dell'Occidente e le teorie razziste che ne costituiscono, in buona parte, l'elemento fondante? Che relazione intercorre tra l'epistemologia secolarmente codificata e la dominazione coloniale? Il presente lavoro parte e si sviluppa cercando di rispondere a queste domande fondamentali. Attraverso l'analisi genealogica e semantica di concetti quali razza, civilizzazione, indio/indigeno ecc., l'autore intende mostrare come il sapere disciplinato in Occidente - dalla filosofia all'antropologia, dalla teologia alla greografia, dalla storia alla biologia - abbia costituito un'arma implacabile nelle mani della civiltà bianca e cristiana, con la quale del resto si continua a governare e a soggiogare gran parte del pianeta. Ma analizzando le forme di resistenza alla disumanizzazione e alla schiavitù, al monismo teologico-morale e alla razializzazione del pensiero, il libro intende anche smascherare le menzogne e le pratiche egemoniche che hanno costituito il nucleo stesso della storia occidentale, allo scopo di riabilitare un sapere altro, fondato su rapporti interumani orizzontali, di reciprocità, gli unici in grado di dar voce e restituire dignità e consapevolezza all'uomo totale.
LINEE DI FRONTIERA
Lo spettro vagante dell'occidentalismo
La figura del colono è dura a morire in Europa. Continua a pervadere anche la produzione del sapere nelle istituzioni culturali europee e occidentali. Dopo, gli «studi subalterni», prova a scardinarla un altro filone di pensiero critico. Viene dall'America Latina e invita a «decolonizzare la cultura»
ARTICOLO - Miguel Mellinoil manifesto 2013.10.05 - 10
Nella prefazione a I dannati della terra di
Frantz Fanon, Jean-Paul Sartre ammoniva che il processo di
decolonizzazione non doveva riguardare, e non avrebbe riguardato,
soltanto le colonie. La sua ingiunzione, espressa in un linguaggio
giustamente virulento e apocalittico, data la posta in gioco, divenne
famosa e prese la forma di una interpellazione tanto drammatica quanto
epocale. Nel bel mezzo della guerra di liberazione algerina, e nel
tipico stile dell'intellettuale engagè , Sartre puntava diritto alla
(falsa) coscienza degli europei: «anche noi, gente d'Europa ci si
decolonizza. Ciò vuol dire che si estirpa, con un'operazione sanguinosa,
il colono che è in ciascuno di noi». Se guardiamo al razzismo dilagante
oggi nell'Europa della crisi, alle politiche migratorie sempre più
criminali promosse tanto dalla Ue quanto dai singoli stati-nazione, così
come all'eurocentrismo che continuano a diffondere la cultura e i
saperi prodotti nelle scuole e nelle università, la decolonizzazione
dell'Europa invocata da Sartre resta ancora un miraggio. L'uscita di
scena dell'Europa economica e politica dal centro del mondo non si è
accompagnata a quello che il teorico postcoloniale Dipesh Chakrabarty ha
chiamato la sua «provincializzazione». In Europa il colono è duro a
morire. Con una metafora cinematografica, si può dire che esso
rappresenta una delle traduzioni dell' Alien di Ridley Scott; un mostro
informe, incrostato nelle stesse viscere del corpo che abita e sempre
pronto ad uscirne fuori in modo aggressivo, letale e resistente.
Narrazioni eurocentriche È proprio di questo mostro che continua ad
abitare le rovine dell'Europa che ci parla il libro di Leonardo
Franceschini Decolonizzare la cultura. Razza, sapere, e potere:
genealogie e resistenze (ombre corte). Il testo prende atto della
necessità di portare a compimento una decolonizzazione dell'Europa
nell'ambito del sapere e della cultura: un obiettivo che trova un ampio
consenso discorsivo - specie nell'intellighentsia della sinistra europea
- ma che stenta a prendere corpo come reale pratica teorica, nemmeno a
dirsi politica. Buona parte della sinistra europea non finisce di
rendersi conto che decolonizzare l'Europa significa non soltanto fare i
conti con il colonialismo, l'eurocentrismo e il paternalismo dei suoi
sistemi di pensiero più conservatori, liberal-borghesi e reazionari, ma
soprattutto con quelli del marxismo e del femminismo europei. Come ben
mette in evidenza l'autore del testo, decolonizzare la cultura significa
decolonizzare la teoria, i dicorsi, i concetti e le categorie
attraverso cui pensiamo il reale. Il libro parte da domande piuttosto
semplici: quali categorie abbiamo per parlare degli «altri»? Che tipo di
pensiero le ha prodotte? Dove e come sono sorte? Siamo sicuri che gli
altri si riconoscerebbero in tali categorie o narrazioni? Si tratta
ovviamente di un tema piuttosto frequentato nell'ambito degli studi
postcoloniali, prima di tutto da parte dei Subaltern Studies indiani, in
quello che forse resta il tentativo più serio e sistematico a livello
teorico. Ricordiamo che l'intellettuale indiano Ranajit Guha e gli altri
esponenti dei Subaltern Studies , in una lettura atipica del pensiero
gramsciano, e anche discutibile da un punto di vista strettamente
filologico, scelsero la parola subalterno perchè erano insoddisfatti di
altri termini - come «indiani», «indigeni» o «proletari» - che venivano
mobilitati per parlare dei soggetti delle rivolte contadine
anticoloniali. Agli occhi di Guha, questi termini non facevano che
immettere tali soggetti in una grande narrazione - storicistica e
eurocentrica - che non li apparteneva. La storiografia coloniale,
nazionalista e marxista - incentrate sulla costruzione dello Stato
indiano in quanto traduzione locale della «Storia Universale» - non
consentivano di pensare l'agire dei subalterni indiani nella sua vera
dimensione: quella dell'autonomia politica. Dipesh Chakrabarty elaborò
ulteriormente il progetto ridefinendolo attraverso un'espressione che è
rimasta celebre: «provincializzare l'Europa». È questo il principale
compito dello storico subalterno (postcoloniale), il che non significa
affatto aprire a una sorta di ingenuo «relativismo culturale». La
modernità coloniale Il dibattito aperto dai Subaltern Studies in India
va tuttora avanti, come attesta la vivace polemica sull'argomento
svoltasi all'ultimo convegno di Historical Materialism a New York tra
Vivek Chibber (in difesa di un marxismo-leninismo di stampo
tradizionale) e Partha Chatterjee (il video della polemica è disponibile
su YouTube). Tuttavia, Franceschini propone il suo percorso non tanto a
partire dagli studi subalterni/postcoloniali quanto dal lavoro di un
altro gruppo di studiosi, impegnati in obiettivi politico-epistemologici
simili, ma appartenenti a diverse tradizioni intellettuali, attivi in
un'altra parte del globo e ancora poco noti in Italia: quello della
prospettiva «decoloniale». La categoria di «decoloniale» è associata a
nomi come quelli di Anibal Quijano, Walter Mignolo, Ramon Grossfoguel,
Nelson Maldonado Torres, Arturo Escobar e soprattutto Enrique Dussel.
Come narrato nel testo, ll movimento decoloniale nacque da un convegno
svoltosi all'Università di Caracas nel 1998 a cui parteciparono molti
degli intellettuali prima citati e che mise a capo all'oramai noto
progetto multidisciplinare di ricerca «modernidad/colonialidad».
Franceschini costruisce la sua prospettiva non solo a partire da alcune
delle principali categorie analitiche dei «decoloniali», ma adottando
anche lo stesso schema genealogico della filosofia de la liberaciòn di
Dussel. La prima parte del testo è dedicata alla messa in luce della
colonialità (termine di Quijano) di quello che Fransceschini chiama,
sulla traccia di Dussel, il «macro soggetto storico metafisico» Europa:
un' ego-teo-logia (nella definizione di Dussel) nata nella Grecia antica
e che si è arrogata sin dall'inizio il diritto di autorappresentarsi
come vero «universale». Un diritto divenuto sempre di più non solo
violenza materiale, ma anche epistemica, nel senso che la storia della
filosofia mostra una quasi totale complicità con il dominio coloniale
occidentale. È in questo senso, ricorda Franceschini, che gli autori
decoloniali ci chiedono di parlare di «geopolitica della conoscenza» e
non di conoscenza di per sè. Resistenze indigene Si tratta di uno schema
di tipo metafisico o culturalista che ricorda la struttura di
Orientalismo di Edward Said. In entrambi i casi - benchè a partire da
punti di riferimento diversi (Auerbach, Foucault e il
post-strutturalismo per Said, una lettura particolare di Levinas, Fanon e
della pedagogia dell'oppresso di Paulo Freire per Dussel) l'Europa
viene abbordata come un soggetto-macchina metafisico emerso nell'antica
Grecia, perfezionatosi nella modernità grazie allo sviluppo del cogito
cartesiano e del colonialismo e tuttora capace di sussumere e
assoggettare ogni differenza/alterità culturale. È in questo senso che i
decoloniali parlano di una colonialità costitutiva dell'essere, del
sapere e del potere occidentali. Ma a differenza di Said, i
«decoloniali» non solo si concentrano su una diversa regione geografica
(l'America latina), ma cercano di tenere più in considerazione
l'emergere del moderno sistema-mondo economico nella costituzione del
dispositivo coloniale del soggetto occidentale moderno e, soprattutto,
prendono come proprio punto di partenza le prinicipali voci della
resistenza indigena alla colonizzazione: è nel recupero delle loro
visioni silenziate dalla violenza culturale dell'Europa che risiede
l'alternativa dialogica al monologo occidentale, la costituzione di una
vera «pluriversalità» (riprendendo il termine stesso di Dussel).
Franceschini accoglie questo suggerimento e passa così in rassegna le
critiche anticoloniali storiche di molte di quelle figure «indigene» che
il pensiero decoloniale considera come i propri antesignani: Francisco
de Miranda, Francisco Bilbao, Guamàm Poma de Ayala fino a Césaire, Fanon
e al marxismo indigenista di Josè Carlos Mariategui. La categoria
rimossa Sta qui sicuramente uno degli aspetti più interessanti del
testo: la messa a fuoco di una genealogia «decoloniale» nell'analisi
della modernità europea. Ma non è l'unico. Importante anche è il
tentativo di ricollocare la categoria di «razza» al centro stesso della
costituzione della modernità capitalistica, ovvero nel momento chiave
dell'appropriazione occidentale del globo. Franceschini ci sollecita a
considerare «razza» come una delle categorie fondamentali per la
comprensione della modernità, alla pari di altre più correnti come
sovranità, capitale, stato, diritto, dio. Non si può negare che, al di
là di alcuni recenti tentativi che vanno nella direzione del «nominare
la razza» come elemento centrale della costituzione materiale
dell'Europa, si tratta di una questione assai poco dibattuta nello
scenario intellettuale italiano; nonostante la quotidiana recrudescenza
della violenza razzista entro i confini nazionali, razza continua a
essere un significante tabù per la pratica teorica e politica non solo
italiana, ma anche europea. Il lavoro di Franceschini dunque è un
interessante invito a «decolonizzare la cultura» dall'ottica
decoloniale. Il titolo del volume tuttavia non riesce a rendere in modo
efficace la prospettiva auspicata dal testo. Potrebbe indurre a pensare
la parola cultura proprio in quel senso «universalistico» ed
«eurocentrico» giustamente denunciato da Franceschini, ovvero a
confonderla con il significante Europa.
SCAFFALI
Da Said alla filosofia della liberazione
I «Subaltern Studies» nascono in parallelo
con un altro filone di pensiero critico, gli «Studi postcoloniali».
Figura seminale è stato sicuramente Frantz Fanon, che con i suoi
«Dannati della terra» ha posto le basi di un attitudine critica che solo
con l'importante «Orientalismo» di Edward Said ha cominciato a dare i
primi frutti. Entrati nell'accademia inglese e statunitense, gli Studi
postcoloniali hanno avuto un ulteriore impulso con gli scritti e le
ricerche di autori come Homi Bhabha, Kwame Nkrumah, Albert Memmi, Aimé
Césaire, Declan Kiberd, Gayatri Spivak. Ma se questi teorici hanno
puntato soprattutto a «decostruire» le pretese universalistiche del
pensiero occidentale, ci sono stati altri studiosi che hanno posto in
discussione la vocazione eurocentrica dello stesso marxismo (un buon
compendio di questa posizione è negli scritti di Robert J.C. Young). Per
quanto riguarda, invece, il filone «decoloniale» affrontato in questo
articoli, l'unico autore molto tradotto è Enrique Dussel. Le traduzione
hanno coinvolto prevalentemente la sua riflessione sull'opera di Karl
Marx («L'ultimo Marx» e «Marx sconosciuto», entrambi da manifestolibri),
sulla «Storia della chiesa in America latina» (Queriniana), ma anche
sull'interculturalità («Modernità e interculturalità») e sulla
«Filosofia della liberazione» (Queriniana).
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