domenica 6 ottobre 2013
La leggenda delle "moltitudini" come soggetto antagonista e persino rivoluzionario
Risvolto
Che cosè il Quinto Stato? La condizione di parecchi milioni di lavoratori precari, autonomi e free lance, di origine italiana e straniera, che non godono di nessuna protezione in caso di maternità, paternità, disoccupazione o malattia, che non percepiscono un reddito decente e in pratica non avranno una pensione, ma si sobbarcano i doveri imposti da un fisco implacabile. Questi stessi soggetti cominciano tuttavia a gestire in maniera indipendente il proprio lavoro e propongono per sé e allintera società un welfare alternativo.
Rifiutando ogni retorica vittimista, in questo libro affilato dal punto di vista teorico e ricco di dati e testimonianze, Allegri e Ciccarelli mostrano in quali modi il Quinto Stato sta già promuovendo lautotutela, la cooperazione tra lavoratori indipendenti e cittadini, leconomia della condivisione.
Il Quinto Stato sopravvivrà alla crisi, questa la convinzione degli autori: e lo farà in un modo capace di mutare per sempre la nostra concezione di lavoro, di accesso ai diritti, di partecipazione politica.
Il Quinto Stato è dunque il «romanzo di formazione» di una nuova e ancora inesplorata composizione sociale. A chi desidera creare unalternativa allantico regime delle politiche di austerità spetta la responsabilità di scriverne la storia: perché, affermano gli autori, «il Quinto Stato sarà tutto o non sarà».
Il welfare alternativo di immigrati e precari nell’Italia della crisi
Il saggio di Allegri e Ciccarelli “Il quinto stato”
di Roberto Esposito Repubblica 5 ottobre 2013
Se
il primo problema che affligge la sinistra italiana, impedendole di
vincere i confronti elettorali anche nelle circostanze più favorevoli, è
la mancanza di coraggio, il secondo è una forte carenza culturale.
L’incapacità di abbandonare vecchie categorie interpretative, di
rinnovare il proprio linguaggio concettuale, di cogliere le mutazioni
sociali che connotano il nostro tempo. Una di queste è sicuramente
l’emergenza di quello che Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli
denominano Il quinto statoin un libro omonimo appena edito da Ponte alle
Grazie. In verità non si tratta di un termine nuovo. Già usato negli
anni Sessanta come titolo di un volume da Wolfgang Kraus, nel 1970 lo
scrittore Ferdinando Camon aveva così intitolato un romanzo, comparso
con la prefazione di Pasolini.
Ma cosa è, propriamente, il quinto
stato e come oggi si configura? Naturalmente l’espressione si riferisce a
un soggetto collettivo che ha fatto seguito sia al terzo stato,
borghese, già protagonista della rivoluzione francese, sia al quarto
stato, proletario, rappresentato nella sua fiera avanzata nel celebre
quadro di Pellizza da Volpedo. Ma esso non corrisponde più agli
stereotipi precedenti. Né a quello, intellettuale e tecnocratico, di
Kraus, né, tantomeno, all’universo contadino e precapitalistico di Camon
e Pasolini. Il quinto stato cui rimandano Allegri e Ciccarelli,
saldamente piantato nel capitalismo postfordista, è costituito da tutti
coloro che a diverso titolo svolgono un lavoro saltuario ed autonomo.
Irriducibili alle categorie generiche di “ceto medio” o di “precariato”,
ne fanno parte piccoli imprenditori, a volte anche immigrati, titolari
di partite Iva, operatori dei servizi e dell’informazione. Si tratta di
lavori, spesso generati dalla crisi, stretti tra una situazione di pura
sopravvivenza e una nuova opportunità di autonomia rispetto
all’amministrazione dello Stato e alle logichedel mercato. Il rilievo
non soltanto sociale, ma politico, di questa nuova figura sta intanto
nelle sue dimensioni. Si parla di un mondo che rappresenta il ventitré
per cento dell’occupazione complessiva in Italia contro una media
europea del quattordici. Tale eccezione è dovuta in parte alla debolezza
strutturale dell’economia industriale italiana, in parte allo
straordinario sviluppo delle attività in proprio avvenuto a partire
dagli anni Settanta del Novecento. Naturalmente di un fenomeno così
ambivalente possono darsi interpretazioni diverse. Esso è segno di crisi
profonda, ma insieme anche della singolare vitalità e fantasia creativa
del nostro Paese. Senza perdere di vista i tratti di precarietà
esistenziale cui appaiono condannati i lavoratori del quinto stato, il
libro ne mette soprattutto in luce gli elementi di emancipazione,
costituiti appunto dall’autonomia rispetto ai vincoli imposti dalle
istituzioni nazionali ed internazionali.
È proprio questa
potenzialità, mista a sofferenza, che la sinistra italiana, legata a una
concezione corporativa del partito e del sindacato, non riesce ad
afferrare, facendone un punto di forza della propria proposta.
Oscillante tra un atteggiamento di malcelato sospetto nei confronti del
“popolo delle partite Iva” e il rimprovero paternalistico ai giovani
“schizzinosi” –choosey, secondo l’incauto epiteto di Elsa Fornero – essa
appare impreparata a rapportarsi a quella che sarà la dimensione più
diffusa del lavoro nel prossimo futuro.
Come spesso avviene, la
limitatezza della visuale sul futuro nasce da una scarsa consapevolezza
del passato, coincidente solo in parte, e non senza forti tensioni, con
quella, ben più canonica, del movimento operaio. Che questa attitudine
alla condivisione solidale di ferite sociali, ma anche di opzioni di
libertà, torni oggi ad affiorare la dice lunga sull’entità dei
mutamenti, sociali ed antropologici, che la crisi ha prodotto nei
confronti di un universo ancora tenuto insieme dall’asse moderno tra
Stato e mercato.
Se il racconto di questa genealogia sociale, narrata
in prima persona dagli autori, risulta convincente, l’orizzonte a
venire delineato nella parte finale del libro appare più problematico.
Al centro di esso si stagliano le tensioni e i conflitti che
attraversano le grandi metropoli, prefigurando forme di resistenza e
strumenti di contrasto rispetto ai vincoli di austerità ed allo
smantellamento del welfare imposti dagli organismi economici
internazionali. Che la rete protettiva, e anche produttiva, del quinto
stato costituisca una opportunità da cogliere e sviluppare è evidente.
Come è condivisibile l’idea che un’Europa delle città sia preferibile a
quella delle macroregioni. Convince di meno la tesi che tra spazio
municipale e spazio continentale, gli Stati siano destinati a perdere
ogni funzione rilevante. Per dubitarne, basti pensare al peso
esercitato, nei processi socio-culturali, dalle lingue nazionali. Ma
l’importante è aver aperto un primo osservatorio su un fenomeno di
simileportata.
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