martedì 8 ottobre 2013

Luciano Canfora sulla Monarchia di Dante



Risvolto
La Monarchia è lo scritto in cui Dante intende dimostrare la necessità di un impero universale a governo del mondo, un impero che nella sua visione si identificava con quello germanico erede di Roma antica e doveva agire senza il condizionamento dall’autorità papale. Fin dal prologo Dante dichiara che questa è l’opera attraverso la quale soprattutto egli ritiene di recare un proprio contributo al bene dell’umanità, portando alla luce conoscenze fino a quel momento trascurate, e si propone in questo modo ad un tempo come scienziato della politica e come profeta di verità nascoste: un profilo molto alto, dunque, che mostra la centralità del trattato e del suo tema nella storia biografica e poetica dell’autore. Il volume comprende il testo dell’opera dantesca, una nuova traduzione italiana e un commento che insiste parallelamente sul piano filosofico e su quello letterario, per renderli correttamente decifrabili dal lettore d’oggi. In appendice sono pubblicati il volgarizzamento italiano quattrocentesco della Monarchia eseguito da Marsilio Ficino; le glosse al testo composte da Cola di Rienzo; e tre opere che illustrano il contesto ideologico in cui nacque ed ebbe prima diffusione il trattato dantesco.

E Dante immaginò il potere globale

Nella Monarchia, la più compiuta e moderna delle sue opere dottrinali, Dante si schierava contro l'ingerenza della Chiesa nei confronti del potere laico e proclamava l'uguaglianza delle due autorità. Il suo cuore batteva per l'impero

di Luciano Canfora Corriere 7.10.13


La Monarchia, che non è solo la più compiuta delle opere dottrinali di Dante, ma anche la più moderna, fu messa dalla Chiesa all'Indice dei libri proibiti, nel primo «indice» elaborato dal Sant'Uffizio nel 1559. La ragione di ciò è molto semplice: ad una lettura disincantata appare evidente che il grande poeta cristiano del Medioevo, che aveva messo la teologia in poesia allo stesso modo in cui Lucrezio aveva messo in poesia la fisica epicurea, si schierava — col suo trattato politico — contro l'ingerenza della Chiesa nei confronti del potere laico e proclamava la totale uguaglianza e parità delle due autorità. Pur consapevoli del rischio di frettolosi cortocircuiti, possiamo ben collocare quel trattato al vertice di una nobile, ma non folta tradizione rappresentata emblematicamente dalla formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato». Quel celebre e davvero memorabile discorso parlamentare di Cavour, malvisto dal sanfedismo del tempo suo, era in realtà sommamente rispettoso della dignità e della libertà della Chiesa. È storia nota come la Chiesa abbia impiegato moltissimo tempo a comprendere questo e a prenderne atto e ad agire di conseguenza: agevolata in ciò dalla definitiva perdita del potere temporale, ma rallentata in tale processo dal diverso e spesso altalenante orientamento dei pontefici volta a volta regnanti. I quali — in quanto sovrani assoluti e depositari perciò di poteri vastissimi — possono imprimere rapide e radicali inversioni di rotta. Come vediamo ancora oggi.

Resta il fatto che il cuore di Dante batte per l'impero (si passi l'espressione metaforica). Nel primo libro di questo trattato sulla monarchia, Dante dimostra che la monarchia universale è necessaria al benessere terreno in quanto permette, tramite la pace universale che ne è il portato, il fine supremo: l'attuazione e il pieno dispiegamento dell'intelletto in ambito speculativo e in ambito pratico. Nel secondo libro rivendica, come già nel Convivio, al popolo romano il diritto all'impero. Nel terzo affronta il tema più delicato: la monarchia universale trae il suo diritto e la sua legittimità direttamente da Dio, non attraverso la mediazione papale, non ha cioè bisogno del «Vicario». E la nota ancora più audace, che dà il tono e il senso all'intero trattato, consiste nel proclamare che il fine naturale dell'uomo — cioè la perfetta moralità sorretta dalla filosofia — è autonomo rispetto al fine soprannaturale che a sua volta consiste nella felicità eterna, verso cui l'uomo è guidato dalla «rivelazione». Come l'impero è autonomo dalla Chiesa, così la ragione lo è rispetto alla fede.

Questo impianto teorico spiega bene perché a Giustiniano, cioè all'imperatore cesaropapista per eccellenza, venga riservato un posto di così grande spicco nel Paradiso di Dante e a lui tocchi di tessere l'esaltante elogio di Giulio Cesare. Elogio che stride con il privilegiato trattamento ammirativo riservato al nemico implacato di Cesare, cioè Catone Uticense, quale guardiano del Purgatorio.
Ma soprattutto non sfuggirà la forte carica utopica che è racchiusa in tutto il trattato: l'idea di una pace universale conseguente all'unico governo universale. Tale governo però viene concepito non già come sostitutivo dei molteplici poteri statali e comunali già esistenti, ma è sovraordinato ad essi. Non si tratta di «un governo di tutti i popoli fusi in un solo Stato, ma di una suprema giurisdizione, fatti salvi gli Stati particolari con proprie leggi e propri governi» (Luigi Russo). Non è chi non veda in tale concezione l'utopia anticipatrice di una istanza che sempre fu viva, e che al tempo nostro è antidoto indispensabile all'arroganza di singole potenze inclini ad attribuirsi unilateralmente il ruolo di gendarmi del mondo.

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