sabato 2 novembre 2013

Il lato interno della Guerra Fredda

L’Atlantide rossa. La fine del comunismo in EuropaLuigi Geninazzi: L’Atlantide rossa. La fine del comunismo in Europa, Lindau, pp. 286, euro 19

Risvolto
C’era una volta l’Europa dell’Est, un mondo che nell’immaginario collettivo è scomparso in una notte con la caduta del Muro il 9 novembre 1989. Sparito, come la mitica Atlantide. In realtà la fine del comunismo è maturata nel corso di lunghi anni di sofferenze e di lotte non violente condotte da migliaia di cittadini, in forme più o meno organizzate, al prezzo di grandi privazioni e sacrifici.
Quel cammino verso la libertà Luigi Geninazzi l’ha vissuto da testimone diretto, come inviato speciale sul campo, da Danzica e Varsavia a Mosca, da Praga a Vilnius, da Berlino a Bucarest. In questo libro l’autore rievoca quell’esperienza facendo scorrere sotto i nostri occhi grandi eventi e piccoli aneddoti di vita quotidiana, personaggi storici visti da vicino – come Giovanni Paolo II, Lech Walesa, Vaclav Havel – e anonimi coraggiosi e intrepidi. Il risultato è la cronaca appassionata di un decennio fondamentale del XX secolo, che segnò il passaggio – quanto mai complesso, problematico e pieno di ombre e mezze verità – dall’epoca dei blocchi contrapposti all’Europa dei nostri giorni.

Così finì il comunismo tra fame, spioni e golpe 
L’inviato Luigi Geninazzi ripercorre il crollo dei regimi marxisti in Europa, travolti dagli stessi proletari che volevano esaltare

2 nov 2013 Libero ANDREA COLOMBO 

Il saggio L’Atlantide rossa ( Lindau, pp. 286, euro 19) potrebbe anche essere intitolato «Storia di un naufragio». È il racconto, infatti, fatto da un testimone d’eccezione, della fine del comunismo in Europa, di quell’anno cruciale, il 1989, che ha segnato la fine di una guerra fredda durata 45 anni. A scriverlo è Luigi Geninazzi, all’epoca inviato de Il Sabato e Avvenire, che ha la qualità rara disapereascoltare iprotagonisti, ma anche i cittadini comuni chehanno assistito con gioia al crollo di quel mostro ideologico e repressivo che è stato il mondo cupo del socialismo reale. A introdurlo il fondatore di Solidarnosc, Lech Walesa, un uomo la cui immagine si era un po’ offuscata negli ultimi anni, ma che è stata rilanciata grazie alla presentazione, all’ultimo Festival di Venezia, di un film fuori concorso sulla sua vita.
La pellicola Walesa. Uomo della speranza, firmata dal decano e maestro del cinema polacco Andrzej Wajda, lo presenta in tutte le sue sfaccettature, nei suoi trionfi e nelle sue cadute e nelle mille contraddizioni, a ben vedere lo specchio di quei Paesi dell’Est che sono riusciti a liberarsi del giogo sovietico, ma che rischiano costantemente di perdere le loro identità culturali inseguendo le sirene dell’omologazione consumistica. Nella pellicola il leader del sindacato che, ironia della sorte, fece cadere la dittatura del proletariato polacca, appare irruento, pragmatico, decisionista, caparbio, devoto, scontroso, legatissimo alla famiglia. Nell’introduzione al libro di Geninazzi, il premio Nobel che traghettò il suo Paese verso la democrazia guarda con un certo timore al futuro europeo, gravido di incertezze: «Sulle rovine del comunismo è nato un capitalismo di tipo nuovo, totalizzante e aggressivo. Ci sono domande che non hanno ancora trovato risposte: è possibile un’economia di libero mercato che non sia sinonimo di egoismo e ingiustizia sociale? Che senso dare alla parola democrazia in un mondo dove i singoli Stati perdono progressivamente competenze e sovranità?».
Tuttavia la libertà, che è il bene più grande, è stata conquistata anche grazie alla lotta pacifica di Walesa, degli operai, dei tanti che hanno osato ribellarsi alla bestia rossa. Il libro di Geninazzi si legge come il copione di un film, dell’orrore prima e della liberazione poi. Angoscianti, ma rivelatrici, le descrizioni delle condizioni di vita nella Romania di Ceausescu. Nella Bucarest del 1987, mentre i Paesi occidentali stringono rapporti commerciali con il Conducator che ha fatto lo strappo con l’Unione Sovietica, il popolo muore di fame. «L’ultima volta che ho messo in tavola qualcosa che somigliava alla carne è stato tre settimanefa», sospira un’insegnante all’inviato incredulo, «ma erano zampe di gallina talmente rinsecchite che i miei due bambini non sono riusciti a mangiarle». Intanto Ceausescu faceva edificare il suo gigantesco palazzo presidenziale, che voleva assomigliare alle dimore dei sovrani settecenteschi, con marmi scolpiti, colonne doriche e sculture neoclassiche. Miliardi buttati al vento per costruire un orrore inimmaginabile (oggi paradossalmente sede del Parlamento, quasi a evocare una certa continuità con il potere di allora), maestranze schiavizzate come nell’Egitto dei faraoni: la tragica realtà del nazionalcomunismo rumeno. «Il Titano dei Balcani», come si faceva chiamare il dittatore, che aveva imposto ai suoi concittadini un regime criminale, si credeva un novello Re Sole. Ma nella quotidianità tetra del suo paradiso socialista erano consentite lampadine al massimo di 40 watt che diffondevano nelle case una luce spettrale. Come fantasmi i cittadini si aggiravanocinti in cappottini lisi e sporchi, persi nelle eterne code davanti a negozi sprovvisti anche di patate e latte. Del Paese orgoglioso che con il conte Vlad l’Impalatore (detto Dracula) riuscì a fermare l’avanzata degli infedeli ottomani non è rimasto nulla, neanche la dignità. Nel comunismo reale tutti spiano tutti e la Securitate si è sostituita a Dio: onnipresente, onnisciente, spietata. Anche la fine del satrapo rumeno e del suo mafioso clan familiare ha il sapore amaro della farsa: Geninazzi descrive con dovizia di particolari quello che alla fine dell’89 è apparso più come un golpe interno alla cricca comunista che non una vera lotta di liberazione dalla dittatura.
Come in un film, come nel peggior incubo apocalittico di una società super controllata, l’autore passa poi al comunismo realizzato in quella che fu l’antica Prussia: la Ddr. Geninazzi tratteggia così il Paese dove Angela Merkel ha mosso i suoi primi passi, da leader della gioventù comunista: «Nonostante la retorica antinazista, la dittatura rossa del martello e del compasso non è molto differente da quella nera con la svastica. Davanti al monumento del milite ignoto i soldati della Volksarmee, l’esercito del popolo, marciano al passo dell’oca, esattamente come i loro padri nelle formazioni delle SS. Anche l’inno Roter Oktober, Ottobre Rosso, riprende le note dell’Horst Wessel Lied. I riti collettivi della gioventù comunista richiamano alla memoria i fasti della Hitler Jugend. E la Stasi sembra la copia della famigerata Gestapo».
Il muro di Berlino è crollato il 9 novembre 1989. Sono passati 24 anni da quella data e il mondo dell’Europa dell’Est è cambiato radicalmente. Nella capitale tedesca, trasformatasi nella New York del Vecchio continente, la Ddr è diventata fonte di innumerevoli gadget kitsch per i turisti alla ricerca di un tocco nostalgico dal gusto sovietico un po’ retrò. In Romania invece non si può neanche nominare il nome di Ceausescu: è diventato un tabù, nel tentativo di fare tabula rasa di un passato recente che appare lontano anni luce. Il comunismo reale ormai è relegato alla corte di Kim Jong-Un, nella remota penisola coreana: persino Paesi nominalmente marxisti, come la Cina e Cuba, si sono venduti al capitale. L’Atlantide rossa è veramente affondata e non risorgerà più.      

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