mercoledì 13 novembre 2013
Il Terzo Mondo entra nella modernità e la cambia
Il colore del gatto di Deng e l’arte comunista di progettare
Le sfide non mancano: ma il leader non rinuncia a una visione Da Mao a Deng, le parole chiave
di Sergio Romano Corriere 13.11.13
Qualche
parola anzitutto per ricordare quali motivi rendano il Terzo plenum del
Partito comunista cinese, dopo l’ascesa al potere di una nuova
dirigenza, più importante di quello che lo ha preceduto e di quello che
lo seguirà. La storia comincia nel 1978 quando Deng Xiaoping, riemerso
dall’esilio politico in cui era stato confinato, ritrovò l’autorità
perduta negli anni della Rivoluzione culturale e si servì della terza
convocazione del Comitato centrale per annunciare al Paese il programma
delle «quattro modernizzazioni».
Arrivai in Cina qualche settimana
dopo, lessi il lungo comunicato reso pubblico alla fine del plenum e
credetti che quello fosse soltanto uno dei molti documenti con cui i
partiti comunisti programmavano un futuro irrealizzabile. Era un errore.
Le quattro modernizzazioni annunciate da Deng divennero la piattaforma
politica di una riforma che avrebbe cambiato la Cina, trasformato l’Asia
e dato uno straordinario colpo di acceleratore al processo di
globalizzazione. Viviamo in un mondo diverso anche perché un piccolo
uomo, sfuggito alle dissennate purghe della Rivoluzione culturale, aveva
deciso, con una metafora indimenticabile, che il colore di un gatto non
ha alcuna importanza e che la sua virtù si giudica dall’abilità con cui
riesce a catturare i topi.
Da allora il Terzo plenum, convocato
spesso un anno dopo l’avvio di una nuova fase, è quello apparentemente
più favorevole alla formulazione della linea politico-economica che il
Paese adotterà nel corso del decennio successivo. Come tutti coloro che
hanno governato la Cina dopo la rivoluzione economica di Deng, anche i
nuovi leader sembrano essere convinti che il pragmatismo e il mercato
non possano fare a meno di un «piano». Non si va al potere, nella
Repubblica popolare, per governare alla giornata. Occorre avere una
visione organica del futuro. In una lunga conversazione con un
corrispondente asiatico del Financial Times , apparsa il 9 novembre, il
Dalai Lama ha ricordato che quasi tutti i leader cinesi, dal 1949 ai
nostri giorni, si sono identificati con un progetto. Mao è stato l’uomo
dell’ideologia nella sua versione più astratta e radicale; Deng quello
che ha introdotto il capitalismo in un Paese socialista; Jang Zemin
quello della trasformazione del Pcc in partito interclassista, aperto ai
nuovi capitalisti; Hu Jintao quella della «società armoniosa» dove
tutti, all’ombra del partito, possano realizzare se stessi. Non sempre i
leader hanno vissuto all’altezza delle loro ambizioni e mantenuto le
loro promesse. Ma il documento conclusivo del Terzo plenum è diventato
ormai il discorso della corona in un regno dove il monarca può contare,
grosso modo, su un potere decennale.
Come sempre, anche in questa
occasione il discorso è redatto nel linguaggio retorico della tradizione
comunista cinese con passaggi che si presteranno a diverse
interpretazioni. Ma qualche indicazione emerge sin d’ora con una certa
chiarezza. La Cina continuerà a credere nel mercato e gli riconoscerà
una maggiore autonomia. Ma vuole evitare bolle speculative, eccessivi
aumenti del mercato immobiliare e del debito, pubblico e privato. La
crescita, nel 2014, dovrebbe aggirarsi intorno al 7% del prodotto
interno lordo e i cinesi saranno incoraggiati a spendere più di quanto
abbiano fatto nell’ultimo decennio. Ma l’incoraggiamento, a giudicare
dallo strepitoso aumento del commercio elettronico negli ultimi giorni, è
probabilmente inutile. Sembra che il Comitato centrale del partito sia
consapevole dei fattori d’instabilità sociale emersi negli ultimi anni:
piccole ma numerose insurrezioni di villaggio, frequenti sfide al potere
delle sezioni locali del partito, rabbiose proteste contro il degrado
ambientale. Vi saranno maggiori garanzie per gli agricoltori, spesso
privati bruscamente delle loro terre. Verrà creato un nuovo comitato per
la sicurezza interna, con una implicita allusione al recente attentato
di piazza Tienanmen nel quale avrebbero perso la vita cinque militanti
uiguri, giunti da una provincia musulmana ai confini con il Kazakistan,
il Xinyiang, che chiede una maggiore autonomia
Come tutti i buoni
propositi, anche questi verranno messi alla prova sul terreno. Non è mai
stato facile governare la Cina, ma le difficoltà, d’ora in poi non
possono che aumentare. Il capitalismo di Deng ha creato una moltitudine
di topi che si muovono sul mercato con grande aggressività e
spregiudicatezza. Il mercato ha prodotto imprenditori intelligenti e
dinamici, ma anche una corruzione che ha fortemente inquinato il
partito. I personaggi ingombranti, come Bo Xilai, vengono messi in
prigione, ma i seguaci sembrano decisi a costituirsi in partito. Le
restrizioni demografiche (un figlio per famiglia) hanno rallentato la
crescita della popolazione, ma la società cinese è oggi molto più
vecchia di quanto fosse all’epoca della Rivoluzione culturale e dovrà
affrontare i due grandi grattacapi dell’Occidente negli ultima decenni:
il sistema previdenziale e quello sanitario.
Esistono infine
problemi che sfuggono alla logica della programmazione. Che cosa accadrà
del debito americano depositato nelle casseforti delle banche cinesi?
Che cosa farà dei suoi missili il monello nord-coreano, un figlioccio
imprevedibile e disobbediente? Quale sarà nei prossimi anni la politica
estera del Giappone, dove il governo Abe parla un linguaggio più
nazionalista di quello dei suoi predecessori? I cinesi sanno che non
tutto può essere previsto e preparato, ma preferiscono avere nel
cassetto un piano di lavoro a cui fare riferimento. Si adatteranno agli
avvenimenti, ma credono nell’utilità di un progetto concordato al
vertice e spiegato al Paese. E’ un retaggio del loro passato comunista,
forse il migliore.
Più mercato, più partito L’incerta svolta cinese
Il plenum del Partito comunista cinese disattende le aspettative di grandi cambiamenti
Nessun riferimento ad aperture sul pluralismo politico Il documento conclusivo cita Deng: «Attraversare il fiume sentendo le pietre sotto i piedi» La prudenza: i dirigenti comunisti cinesi temono che il sistema salti come accadde a quello sovietico
di Gabriel Bertinetto l’Unità 13.11.13
C’è
un passaggio chiave nel comunicato emesso dal Comitato centrale
comunista cinese dopo quattro giorni di blindatissimo conclave, ed è la
citazione di una frase pronunciata 35 anni fa da Deng Xiaoping. In quel
lontano 1978, quando gli chiesero come intendesse introdurre meccanismi
di mercato all’interno di un’economia centralmente pianificata, Deng
rispose che il segreto stava nell’«attraversare il fiume sentendo le
pietre sotto i piedi». Cioè passo passo, con pragmatica gradualità.
Ma
indicando l’obiettivo di «profonde riforme onnicomprensive» il
documento fa capire che l’obiettivo rimane comunque ambizioso, ed è
quello di andare avanti con le liberalizzazioni economiche. «La
questione principale è gestire in modo appropriato la relazione fra lo
Stato e il mercato, così da permettere al mercato di giocare un ruolo
decisivo nell’allocazione delle risorse e consentire al governo di
svolgere al meglio il suo compito».
Il testo divulgato ieri sera è
stringato, e accenna, in maniera tra l’altro piuttosto vaga, più ai
traguardi da raggiungere che non alle vie da percorrere per arrivarvi.
Tanto che sui siti Internet cinesi prevalgono sentimenti di scetticismo,
come se le attese di grandi innovazioni alimentate nei giorni scorsi
dalle autorità stesse, siano andate deluse.
Sicuramente mancano
riferimenti a una liberalizzazione del sistema politico. La citazione
denghiana è significativa, perché Deng è l’uomo che avviò le prime
sostanziali aperture al mercato, agli investimenti esteri, alla
concorrenza. Ma è anche l’uomo che nel 1989 soffocò il nascente
movimento per la democrazia mandando i carri armati sulla Tian An Men.
Quasi
a sfidare il potere centrale a venire allo scoperto sui temi del
pluralismo, pochi giorni fa alcuni critici del nuovo corso economico
hanno creato un nuovo partito che nel nome stesso si richiama al
«Primato della Costituzione». Come se i valori fondanti della Repubblica
popolare siano contraddetti dalle massicce dosi di capitalismo
introdotte negli ultimi decenni nella società cinese. Non a caso la
carica onoraria di presidente della nuova formazione è stata offerta a
Bo Xilai, leader della corrente neomaoista, che si trova in carcere
condannato per corruzione in un processo che a molti osservatori è parso
in parte viziato da motivazioni politiche.
Dal terzo plenum del
Comitato centrale sembra arrivare un implicito no sia ai neomaoisti e al
loro progetto di far leva sull’insoddisfazione diffusa negli strati
sociali ignorati o addirittura danneggiati dalle riforme economiche, sia
ai gruppi che, dentro e fuori il partito, non dicono no al mercato ma
vogliono che il pluralismo degli interessi e delle attività
imprenditoriali avanzi assieme al pluralismo delle idee, dei programmi, e
dell’organizzazione politica.
Nel fumo che avvolge i concreti
provvedimenti che verrebbero presi per avanzare verso «il ruolo
decisivo» del mercato, spicca qualche riferimento di più facile lettura.
In particolare la Cina «porterà avanti la riforma sull’utilizzo del
suolo e darà ai contadini maggiori diritti di proprietà». La terra
continua ad appartenere allo Stato, ma da anni è possibile rilevarne una
sorta di proprietà a tempo, la cui durata dipende dalle finalità
indicate nel contratto: 40, 50 o 70 anni a seconda che la concessione
abbia finalità commerciali, industriali, residenziali.
Le condizioni
giuridiche relative alla compravendita di quei diritti di superifice
dovrebbero diventare più chiare di quanto non siano attualmente, e a
beneficiare delle novità saranno soprattutto gli abitanti delle aree
rurali. Altri campi in cui vengono prospettati interventi ulteriori sono
la lotta alla corruzione e la protezione delle fasce più deboli
attraverso miglioramenti del welfare.
Nella dichiarazione conclusiva
non si fa alcun riferimento ai recenti episodi di violenza di evidente
marca antigovernativa, in particolare l’attentato suicida sulla piazza
Tiananmen, perpetrato a pochi giorni dalla riunione del Comitato
centrale e a poche centinaia di metri dal luogo in cui doveva svolgersi.
Ma la chiusura ad ogni apertura democratica è probabilmente figlia
anche della paura che certi fenomeni estremi siano solo la punta di un
iceberg più spesso e profondo, che racchiude un malcontento dalle molte
facce e motivazioni. Più volte inoltre in questi ultimi anni è affiorato
nei commenti e nei giudizi di capi politici e intellettuali vicini al
potere l’incubo di essere travolti in una deriva di tipo gorbacioviano. I
dirigenti comunisti cinesi temono che il sistema salti come accadde a
quello sovietico. E allora cambiamenti economici sì, ma nel quadro di un
controllo politico saldamente in mano al partito comunista, senza
alcuna glasnost o perestrojka in salsa pechinese.
La Stampa 13.11.13
La ricetta di Xi per la crescita cinese
di Ilaria Maria Sala
«Il mercato è decisivo per la Cina» Dal conclave segreto arriva la svolta
La nuova dottrina rossa «Più mercato meno Stato La Cina vara una stagione di riforme economiche
di Guido Santevecchi Corriere 13.11.13
Nuova
stagione di riforme in Cina: «Deciderà il mercato». È questa la
promessa del Partito comunista per permettere alla seconda economia del
mondo di continuare a crescere. Il documento è stato votato dal Terzo
plenum del 18° Comitato centrale dopo quattro giorni di conclave segreto
a Pechino.
«Deciderà il mercato». È questa la promessa del
Partito comunista per permettere alla Cina di continuare a crescere.
Dopo quattro giorni di conclave segreto, in un luogo non rivelato di
Pechino, il Terzo Plenum del 18° Comitato centrale ha affidato
all’agenzia Xinhua una sintesi del documento votato dai circa 200 uomini
che dettano la linea alla seconda economia del mondo. «Bisogna lasciare
che sia il mercato a giocare il ruolo decisivo nella distribuzione
delle risorse», è la frase messa in risalto, c’è da credere su ordine
preciso del partito. Ancora poche settimane fa Xi Jinping, il segretario
generale, nonché capo dello Stato, parlava di «ruolo di base» del
mercato e quindi il nuovo aggettivo «decisivo» sembra promuovere un
diverso equilibrio.
Difficile decifrare quanto ci sia di concreto,
di rituale e di sottinteso nel linguaggio della leadership comunista. Il
titolo del comunicato è ponderoso: «Decisione del Comitato centrale del
partito comunista cinese su diverse importanti questioni
dell’approfondimento omnicomprensivo delle riforme». E in un altro
passaggio, subito dopo la promozione del mercato, si legge che
«l’economia di proprietà pubblica e quella non pubblica sono entrambe
parti importanti del sistema socialista». E ancora: «Bisogna mantenere
l’autorità del partito». Detto così, sembrerebbe che il partito (e lo
Stato, che in Cina è la stessa cosa) non si ritiri di un palmo dal
controllo delle sue mastodontiche industrie.
Tra gli altri punti
chiave suggeriti alla stampa e alla tv cinese c’è «la promozione della
riforma delle terre agricole, per dare ai contadini diritti sulla
proprietà». Citata una riforma del sistema fiscale e della distribuzione
del reddito. Senza ulteriori specificazioni. Obiettivo per il
completamento del progetto l’anno 2020.
Vengono costituiti due nuovi
organismi: un «gruppo leader centrale» dovrà guidare l’attuazione delle
riforme. E poi nascerà un «comitato di sicurezza nazionale». I
caratteri cinesi usati per questa agenzia sono gli stessi che
identificano il Consiglio per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti,
che partecipa alle scelte di politica estera del presidente.
Il
Terzo Plenum, nella storia della Repubblica popolare, significa grandi
svolte: nel 1978 e nel 1993 fu in quelle riunioni del Comitato centrale
che la Cina si mise a perseguire industrializzazione e crescita. Prima
di questo Terzo Plenum erano state fatte grandi dichiarazioni di
fiducia: «Svolta senza precedenti»; indicati cambiamenti nel sistema
bancario, nella tassazione, nel controllo e vendita della terra
agricola, nel welfare, nell’innovazione, nella convertibilità dello
yuan, nell’abbandono del sistema del figlio unico.
Troppo presto per sapere se il «gruppo leader centrale» abbia un mandato chiaro per tutti questi settori.
Zhu
Lijia, professore alla facoltà di pubblica amministrazione della
Accademia di governance, dice al Corriere : «Le parole chiave sono
“omnicomprensivo” e “approfondimento”. Nel passato eravamo sempre e solo
concentrati sugli aspetti economici, ma stavolta è un piano di riforme
complessive che riguardano tutti settori, compresi quelli sociale e
ambientale. Vedo una riforma strutturale». Dieci anni per realizzarla,
dice il Plenum. «No, troppo. Bisogna raggiungere risultati entro uno,
due anni al massimo».
La Xinhua assicura che «il piano di riforme
farà bene al mondo», evidentemente ancora su ispirazione dall’alto. E
celebra i trionfi di questi 35 anni di crescita. Nel 1978, il Pil valeva
60 miliardi di dollari. Nel 2012 i miliardi sono stati 9 mila. Il
prossimo obiettivo è raddoppiare il reddito medio dei cinesi entro il
2020 e tenere una crescita del Pil al 7 per cento (quest’anno si
chiuderà intorno al 7,6).
Certo, ora tutti ricordano il 1978, quando
al suo Terzo Plenum Deng Xiaoping lanciò la grande apertura della Cina
al mercato, superando il maoismo puro e duro. La promessa di questo
Plenum sembra meno forte. Ma rileggendo il comunicato con le decisioni
di quel vertice tanto celebrato di 35 anni fa, ci si accorge che la
parola «mercato» non c’era e le «riforme» erano citate appena due volte.
Solo sei anni dopo l’espressione «riforma e apertura» si conquistò un
posto nella storia.
Quanto ci vorrà perché i progetti di grande
riforma siano applicati? Il Quotidiano del popolo ha ricordato il
proverbio cinese secondo il quale il fiume si attraversa dopo aver messo
un piede dopo l’altro su tutte le pietre del suo letto. Piaceva molto a
Deng quel modo di dire che invitava alla cautela. Ma il giornale del
partito spiega che non è più il tempo di seguire il vecchio adagio: «Ora
serve determinazione, audacia». Qualcuno, dal conclave, deve aver
ispirato anche questo appello.
«Temono l’instabilità interna E si attrezzano per la sicurezza»
di Paolo Salom Corriere 13.11.13
«Ho
letto con attenzione il rapporto uscito dal plenum del Partito. Certo,
in apparenza le novità sono molte. L’accento sul “ruolo decisivo” del
mercato nell’allocare risorse fa riflettere. Perché si tratterebbe di
una libertà che vedo ancora molto difficile, vista la situazione della
Cina oggi».
Gao Wenqian, 60 anni, risponde al telefono da New York,
la sua nuova casa. Consigliere politico dell’ong Human Rights in China, è
stato per anni storico all’archivio del Partito comunista,
organizzazione che conosce molto bene. Ha dovuto lasciare il suo Paese
dopo Tienanmen, perché simpatizzante del movimento per la democrazia. È
autore del saggio «Zhou Enlai: The Last Perfect Revolutionary». Per il
Corriere analizza i cambiamenti, anche semantici, usciti dal Plenum del
Pcc che si è chiuso ieri a Pechino.
Nel documento che riporta le
conclusioni dopo quattro giorni di discussioni si pone l’accento sul
ruolo «decisivo» del mercato, quando fino ad ora la parola usata è
sempre stata «basilare». Che cosa significa?
«Il Partito cambia le
parole, ma il tono, io credo, non è variato molto rispetto al passato.
Il senso è che non dovrebbe più essere lo Stato ad allocare risorse,
bensì queste dovrebbero essere libere di fluttuare nel mercato. Ma mi
viene difficile pensare come questo possa avvenire in un sistema nel
quale le grandi imprese di Stato sono la spina dorsale dell’economia».
Nel
1978, sempre a un plenum, Deng Xiaoping annunciò una grande stagione di
cambiamenti. Che differenze ci sono tra questa e quell’assise?
«Prima
di tutto, nel 1978 ci fu un cambiamento drammatico nella leadership:
Hua Guofeng fu messo da parte, Deng prese il controllo del Paese. E poi,
in quel plenum si decise di cambiare radicalmente politica,
abbandonando il maoismo e la lotta di classe. Deng disse: dobbiamo
spostare la nostra attenzione sulle riforme. E la Cina cominciò una
stagione di grande crescita economica. Una vera rivoluzione. Oggi non si
vedono cambiamenti così netti. Xi Jinping era e resta al vertice; non
c’è una nuova politica, nessuna variazione concreta nei contenuti».
Però, nel ‘78, Deng usò la parola «riforme» solo due volte. Oggi è forse il termine più usato...
«È
vero: allora comparve due volte soltanto nel testo uscito dal plenum e
la Cina mutò decisamente rotta. Oggi non riusciamo a contarle però
facciamo fatica a capire quali siano i cambiamenti fondamentali».
A suo avviso quali sono i veri elementi di novità usciti dalla riunione dei leader del Partito?
«L’economia
della Cina sta rallentando, quindi è evidente che le riforme sono
necessarie. Soprattutto perché sono molti i cittadini cinesi che restano
indietro, che non hanno garanzie e coperture sociali. Tuttavia, resto
scettico sulla reale volontà del governo di varare riforme efficaci, in
senso più liberista. Non è un caso che il documento resti vago su questi
aspetti».
Perché dice questo?
«Siamo chiari: la novità che più
mi ha colpito nel documento è la creazione di una “commissione per la
sicurezza dello Stato” che dipende dal ministero degli Interni. Se ne
parla da dieci anni. Ma in origine doveva occuparsi di eventuali minacce
esterne. Ora mi pare che gli obiettivi siano domestici. Questo perché,
io credo, riforme vere e incisive danneggerebbero prima di tutto gli
interessi della leadership. Con rischi di instabilità che vanno
prevenuti. Questo è il punto da considerare».
La ricetta di Xi per la crescita cinese
di Ilaria Maria Sala La Stampa 13.11.13 da Spogli
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