sabato 16 novembre 2013

Una critica populista della globalizzazione capitalistica

François Lenglet: La fin de la mondialisation, Fayard, pp. 262, euro 15

Risvolto
Les signaux sont chaque jour plus clairs : la phase actuelle de mondialisation touche à sa fin. Née dans les années 1980 avec le système boursier mondial et la chute du mur de Berlin, elle a reposé sur une utopie : une planète unifiée par le libre-échange, régie par le marché et la démocratie. Mais aujourd’hui, le courant protectionniste remonte. Des entreprises, notamment américaines, relocalisent leurs industries dans leur pays. L’OMC tremble. Partout, le nationalisme déborde. François Lenglet dévoile ici que nous sommes à la fin d’un cycle. Désormais, plus personne n’a honte de protéger son économie et de jouer sur sa monnaie. Il ne faut pas regretter la mondialisation. Malgré son indéniable effet de rattrapage pour des pays pauvres, bien peu en ont profité. Avec clarté et humour, ce livre décrit le monde qui vient. Un univers où les classes moyennes tiendront leur revanche et où le parasitisme des mafias volera en éclats.

Vade retro, globalizzazione Nel mondo torna l’autarchia 
Gli Usa conquistano l’autonomia energetica, Francia e Germania rilocalizzano: il libro «La fin de la mondialisation» racconta perché si richiudono le frontiere
14 nov 2013 Libero SIMONE PALIAGA

Apple decide di rilocalizzare dalla Corea una fabbrica di computer in Texas. Certo si tratta di un’azienda da 100 milioni di dollari e 200 dipendenti, un po’ poco per ravvisarvi una tendenza. Ma il gigante informatico di Cupertino non è da solo. General Electric dalla Cina rimpatria le aziende nel Kentucky. E lo stesso fanno Caterpillar, Ford e ET Water Systems. Come se non bastasse gli Usa hanno raggiunto l’autonomia energetica per non sovvenzionare le petro-monarchie arabe. Nella stessa direzione si muove la Renault in Francia. La Germania, dal canto suo, abbatte il costo del lavoro per evitare che i suoi imprenditori rincorrano i sogni della delocalizzazione e mettano a dieta l’industria domestica... Insomma, meglio produrre in casa! Secondo uno studio del Boston Consulting Group, il 37% delle imprese, il cui giro d’affari supera il miliardo di dollari, si accinge a rimpatriare una parte della produzione. [web] Christine Lagarde, presidente del Fmi, con il giornalista francese François Lenglet 

Segno dei tempi che bussano alla porta: gli Stati Uniti, dal 2010, tramite queste politiche di rimpatrio della filiera hanno creato 300mila nuovi posti di lavoro e il New York Times non ha esitato a tuonare che «la rinazionalizzazione è un fenomeno mondiale». 

Scenari futuri 

A indagare questo fenomeno arriva nelle librerie francesi, e si spera a breve in quelle italiane, La fin de la mondialisation ( Fayard, pp. 262, euro 15) del giornalista economico François Lenglet. Insomma, mentre in Italia si inseguono le sirene della globalizzazione e ci si prostra ai diktat del Fondo monetario internazionale, al di là delle Alpi si pensa già agli scenari futuri. E non solo con i libri, visto che alcune aziende francesi hanno avviato una riterritorializzazione della propria filiera produttiva. Ma non basta. A optare per un ritorno entro i propri confini non è l’industria pesante. Anche la finanza, un tempo cosmopolita, si piega a questa tendenza. 

Secondo Lenglet, «il flusso di capitali internazionali che irriga il pianeta conosce una caduta spettacolare». Dal 2007 sono diminuiti del 60%, un tonfo senza precedenti dalla Seconda guerra mondiale. Le banche della zona euro avrebbero ridotto di quasi 3mila miliardi di dollari i prestiti internazionali. La Banca dei Regolamenti Internazionali registra una contrazione dei trasferimenti internazionali dell’8% ogni anno nei Paesi ricchi e addirittura del 20% in Europa. 


Sulla stessa linea si muovono gli attori privati. «In tempi di crisi», scrive Lenglet, «anche la finanza più audace ritrova il riflesso primitivo di mettersi al riparo delle frontiere del loro Paese». 

Non è un caso che all’indomani della crisi dei subprime e dei debiti sovrani dell’eurozona le banche hanno venduto la gran parte dei loro impegni finanziari esteri per concentrarsi sul proprio territorio: a metà del 2013 il livello di integrazione finanziaria dell’eurozona era tornato ai tassi del 1999. Quanto agli investimenti diretti, realizzati dalle imprese per creare o sviluppare la produzione internazionale, sono precipitati del 15% nel 2012, almeno secondo le stime della McKinsey, multinazionale regina delle consulenze di direzione. 

Come se non bastassero questi rilevamenti a rendere perspicua l’analisi di François Lenglet, arrivano in soccorso anche i dati sulle fusioni e acquisizioni, operazioni che tendevano ad accorpare aziende di nazionalità diverse. Il Crédit Suisse ricorda come queste pratiche finanziarie, nel primo semestre del 2013, si siano ridotte del 20% rispetto all’anno precedente. 

Commercio a zero 

Il commercio mondiale ha visto una crescita zero nel 2012, «e ci sono tutti i segnali perché succeda lo stesso nel 2013», ammonisce Lenglet. In Europa gli scambi intracomunitari sono diminuiti del 5%, mentre a livello planetario hanno conosciuto un tonfo pari al 17%. L’attuale crisi economica spiega solo in parte questa débâcle. Quando gli strumenti della politica economica (l’elasticità del bilancio) e della politica monetaria (la manovra dei tassi di interesse) sfugge al controllo degli Stati, essi si rituffano nel protezionismo e pigiano il freno della globalizzazione. 

Come uscire da questa crisi indotta dalla mondializzazione? Per Lenglet si tratta di riequilibrare la bilancia commerciale che, negli ultimi vent’anni, pendeva troppo verso l’estero e riaffacciarsi sul territorio nazionale. Traumatizzati dalla dipendenza verso il capitale straniero, gli Stati hanno cominciato a realizzare degli scambi più equilibrati e a potenziare il mercato interno. Con ogni probabilità, a fronte del canto della globalizzazione e dei suoi profeti, lo spazio nazionale nei prossimi anni ritroverà il suo primato a spese del mercato unico europeo e dell’internazionalizzazione degli scambi. «La fine della mondializzazione non è necessariamente una cattiva notizia», ammonisce il giornalista francese, «forse è il contrario». Eppure le banche centrali, emancipate dal potere politico, non l’accettano. Mirano piuttosto a imbrigliare l’inflazione per «proteggere l’investitore straniero», continua Lenglet, «anche a danno dell’imprenditore nazionale».

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