Il poker nel Pacifico e i rischi di scontro
sabato 7 dicembre 2013
"Ancora per i prossimi dieci anni Pechino resterà relativamente più debole della superpotenza americana, dal punto di vista economico e militare"
Il poker nel Pacifico e i rischi di scontro
L’America in declino fronteggia la Cina in ascesa
di Guido Santevecchi Corriere 5.12.13
Se c’è un americano che conosce bene Xi Jinping è Joe Biden. Il vice di
Obama ha incontrato il leader cinese diverse volte, quando Xi non era
ancora salito al vertice del Partito comunista e dello Stato. Due
personalità diverse: Biden figlio di un piccolo venditore di auto usate
della Middle America; Xi un «principe rosso», figlio di un alto
dignitario della rivoluzione maoista, allevato per il potere. Eppure i
due si capiscono, possono parlare di affari insieme. E gli affari questa
volta sono complicati e rischiosi.
La Cina a fine ottobre ha improvvisamente annunciato l’istituzione di
una «zona di difesa e identificazione aerea» che si allarga a Est fino
alle isole Senkaku, amministrate dal Giappone ma rivendicate da Pechino
sotto il nome di Diaoyu. Si sono levati in volo B-52 americani, aerei da
caccia giapponesi e sudcoreani, intercettori cinesi, in un pericoloso
gioco di guerra. Ora Biden vede Xi a Pechino, con l’obiettivo di aprire
un canale di comunicazione che eviti un incidente capace come minimo di
far precipitare le Borse mondiali. Qualche schermaglia in avvio: Biden
ha invitato gli studenti cinesi a «pensare liberamente»; la stampa
cinese lo ha ammonito a «non fare osservazioni errate».
Ma da parte cinese c’è attesa per i colloqui. «Ci è sembrato che nella
gestione della recente crisi interna del budget, Biden non sia stato in
prima linea, lo abbiamo visto solo una volta mentre mangiava un panino
con Obama, ma era una photo opportunity. Quindi ci aspettiamo che cerchi
di giocare un ruolo da protagonista in campo internazionale. Pensiamo
che voglia preparare un viaggio di Obama l’anno prossimo», ci spiega il
professor Diao Daming, direttore dell’Institute of American Studies
dell’Accademia delle scienze, think tank del governo cinese.
Ma quanto è critica ora la situazione? Secondo Kurt Campbell, ex
sottosegretario agli Esteri di Obama e architetto della politica «Pivot
to Asia» che prevedeva il ridispiegamento delle forze Usa nel Pacifico, è
il momento che la Casa Bianca «tracci una linea» con i cinesi. Una
linea? L’amministrazione Usa sembra disegnare curve, più che linee:
prima ha risposto alla «zona difensiva di identificazione aerea»
lanciata da Pechino il 28 novembre facendola attraversare dai suoi B-52;
subito dopo ha consigliato alle compagnie aeree Usa di piegarsi alle
regole cinesi, deludendo gli alleati giapponesi; poi Biden è andato a
Tokyo a proclamare che «noi, gli Stati Uniti, siamo profondamente
preoccupati dal tentativo cinese di cambiare lo status quo nella
regione». Campbell, intervistato dalla Cnn , replica dicendo che un
conto è la risposta militare, un altro la necessità di evitare pericoli
per il traffico civile. La memoria torna sempre al volo Kal 007, il
Boeing sudcoreano abbattuto da un caccia sovietico nel 1983 «per
errore»: 269 civili uccisi per un errore. Campbell peraltro è convinto
che «una scaramuccia» militare nel cielo delle Senkaku a questo punto
sia inevitabile.
Stephen Hadley, che è stato consigliere alla sicurezza nazionale di
Bush, dice al Corriere che il primo sbaglio è stato proprio il «Pivot to
Asia» di Obama: «Gli Stati Uniti non hanno mai lasciato l’Asia, sono
una potenza residente nel Pacifico, per questo non avevano bisogno di
proclamare che sarebbero tornati. C’erano contrasti nell’amministrazione
sul “Pivot to Asia”. E anche chi era a favore, pensava soprattutto alla
necessità di reimpiegare le forze liberate dalle crisi mediorientali.
Ora, dalla Siria alla Libia, vediamo che spostare il centro della nostra
azione dal Medio Oriente non è più possibile». Quindi un doppio danno:
si sono allarmati i cinesi e non ci sono forse neanche le risorse per
far fronte alla promessa maldestra.
Hadley resta fiducioso, ci ha detto di credere nella serietà di Xi
Jinping che a giugno nel vertice in California con Obama ha parlato di
un nuovo modello di relazione con l’America. Però, in autunno, al
culmine della crisi per il bilancio che ha tenuto in scacco Washington
per settimane, l’agenzia di notizie statale Xinhua ha invocato una
«de-americanizzazione» del mondo, almeno da un punto di vista di
dipendenza finanziaria (Pechino è il maggior detentore di titoli del
debito pubblico Usa ed era frustrata dal balletto dello shutdown e dallo
spettro default).
In questa selva di segnali contrastanti, di sicuro, ancora per i
prossimi dieci anni Pechino resterà relativamente più debole della
superpotenza americana, dal punto di vista economico e militare. E
proprio questa distanza accresce il rischio di scontro tra i due attori
principali della scena globalizzata, gli Usa forse declinanti e la Cina
in ascesa. C’è un ultimo rischio: per descriverlo gli analisti
dell’European Council on Foreign Relations fanno ricorso alla teoria di
Freud sul «narcisismo delle piccole differenze», la tendenza di popoli e
leader essenzialmente simili per obiettivi a fissarsi su differenze
minori per giustificare i loro sentimenti ostili. Questo narcisismo,
oltre che per le relazioni Usa-Cina, vale anche per quelle
Cina-Giappone.
Scoppierà l’incidente militare temuto da Washington? Gli strateghi di
Pechino sono convinti che americani e giapponesi non abbiano altre
risposte oltre a volare, quindi avrebbero finito le carte. Però, la Cina
non è riuscita a vincere la mano di poker. E nel mazzo non ci sono più
assi, per nessuno.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento