lunedì 16 dicembre 2013

Emanuele Severino: la socialdemocrazia come ultimo baluardo del capitalismo postmoderno



L’intervista Emanuele Severino

Ecco perché la giovane Italia sta andando in malora
Gianni Cuperlo mi ha mandato il suo programma Gli ho scritto che mi sembrava interessante e poi ho aggiunto che era il modo migliore per preservare il sistema capitalistico Non mi ha risposto ma vorrei dirgli che non ero per nulla ironico
di Silvia Truzzi il Fatto 15.12.13


EMANUELE SEVERINO è nato a Brescia il 26 febbraio 1929. Alunno del Collegio Borromeo, si laurea a Pavia nel 1950, discutendo una tesi su Heidegger e la metafisica con il suo maestro, Gustavo Bontadini. L’anno successivo, a 22 anni, ottiene la libera docenza in Filosofia teoretica. Dal 1954 al 1970 insegna Filosofia all’Università Cattolica di Milano (diventando ordinario nel ‘62). Le pubblicazioni di quegli anni entrano in forte conflitto con la dottrina ufficiale della Chiesa, suscitando discussioni nel mondo cattolico e nell'ex Sant'Uffizio. Nel 1970 la Chiesa proclama – negli Acta apostolica – l’insanabile opposizione tra il pensiero di Severino e il Cristianesimo. Viene chiamato all’Università Ca’ Foscari di Venezia dove è tra i fondatori della Facoltà di Lettere e Filosofia e dove ha diretto l’Istituto di Filosofia fino al 1989. Ha insegnato anche Logica, Storia della filosofia moderna e contemporanea e Sociologia. Nel 2005 l’ateneo veneziano l’ha proclamato Professore emerito. Insegna Ontologia fondamentale presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È accademico dei Lincei e Cavaliere di Gran Croce. Da oltre trent’anni collabora con il Corriere della Sera.
L’umanità è molto vecchia, l’eredità, gli incroci hanno dato una forza insuperabile alle cattive abitudini, ai riflessi viziosi”, ammonisce Proust ne La prigioniera. Il taxi attraversa Brescia, gelida. L'indicazione stradale è precisa e, nel finale, perfino letteraria: “La via è lunga, io abito in quel tratto di strada dove amava passeggiare Foscolo”. Giunti nei pressi dei luoghi cari al poeta – che a Brescia, oltre ad amare appassionatamente una gentildonna, diede alle stampe i Sepolcri- si apre la porta di casa di Emanuele Severino. Entriamo non senza timori (ben riposti: il primo scivolone arriva al minuto tre, su un frammento de La gaia scienza di Nietzsche), in un soggiorno che ospita mille libri, un pianoforte a coda e un'imponente scultura del figlio Federico. È un Orfeo che ha perduto Euridice: “È così, testa a terra e piedi in aria”, spiega il professore, “e getta in faccia lo sconvolgimento del cuore”. Per capire qual è lo sguardo di un filosofo sull’Italia (e se Proust – di cui il professore si occupa ne La filosofia futura – aveva ragione), partiamo da Leopardi, perché al piano di sotto c’è uno studio “riservato” dove il professore ha scritto i due libri dedicati al poeta di Recanati.
Professore, quel “Piangi, che ben hai donde, Italia mia” è un grido di dolore sempre valido?
Sì, ma dobbiamo dire che le spiegazioni della crisi del nostro tempo rimangono molto in superficie anche quando vogliono andare in profondità. Il fenomeno di fondo, che non viene adeguatamente affrontato, è l’abbandono, nel mondo, dei valori della tradizione occidentale; e questo mentre le forme della modernità dell’Occidente si sono affermate dovunque. Un abbandono che si porta via ogni forma di assoluto – e innanzitutto Dio. Dio è morto...
... come la canzone...
Il professor Severino scoppia a ridere: Veramente come Nietzsche! Poi lui aggiunge: “E noi l’abbiamo ucciso”. Muore, dicevo, ogni forma di assolutezza e di assolutismo, dunque anche quella forma di assoluto che è lo Stato moderno, che detiene – dice Weber – “il monopolio legittimo della violenza”. Questo grande turbine che si porta via tutte le forme della tradizione è guidato dalla tecnica moderna – ed è irresistibile nella misura in cui ascolta la voce che proviene dal sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo. Il turbine travolge anche le strutture statuali. Investe innanzitutto le forme più deboli di Stato.
Cosa pensa dei movimenti di piazza di queste settimane?
La trasformazione epocale di cui parlo non è indolore: il vecchio ordine non intende morire, ma è sempre più incapace di funzionare, soprattutto in Paesi come l’Italia. E il nuovo ordine non ha ancora preso le redini. È la fase più pericolosa (non solo per l’Italia).
La disperazione sociale è evidente e molto preoccupante.
Per quel che prima ho detto, la vita sociale, anche in Italia, non è più adeguatamente garantita. La protesta è inevitabile e la situazione potrebbe peggiorare. La “politica” autentica del nostro tempo consiste nel capire la radicalità della trasformazione in atto sul Pianeta, cioè deve lasciare la guida alla razionalità scientifico-tecnologica, destinata a imporsi con la morte del vecchio mondo.
Tra le forme più deboli di Stato c’è l’Italia?
L’Italia è uno Stato acerbo. Ha 150 anni su per giù. Ma soprattutto ha alle proprie spalle una storia di frazionamento politico-economico-sociale, dove si sono imposte forze che hanno avuto nel mondo un peso ben maggiore di quello dell’Italia unita. Pensi, ad esempio, allo Stato pontificio. La sua storia attraversa l’intera storia europea: qualcosa di molto più consistente e visibile che non l’Italia. Non mi sembra un caso che Putin venendo in Italia vada prima dal Papa, nel centro mondiale della cattolicità, e solo dopo da tutti gli altri… Un secondo esempio? La Repubblica di Venezia. A suo tempo era l’equivalente dell’Inghilterra del XIX secolo. Potenze, dunque che non solo sono state al centro della vita mondiale, ma hanno organizzato la società in modo che lo Stato italiano sarebbe poi stato avvertito come un corpo estraneo da gran parte della popolazione della Penisola. Di qui il marcato individualismo degli Italiani.
È questo il motivo per cui non abbiamo un senso dello Stato consolidato come in altri Paesi?
Sì, la “novità” del nostro Stato è tra i principali. Ma un secondo motivo – ce ne sono molti: parlo di quelli che qui mi vengono in mente – è che durante la Guerra fredda l’Italia ha avuto il più forte partito comunista dell’Occidente: il Pci è arrivato quasi al potere e in un modo democratico. Si verificarono due processi, diciamo concorrenti: il Pci andava progressivamente social-democratizzandosi e il consenso aumentava. Il problema era fare in modo che il primo processo fosse più veloce del secondo. Altrimenti sarebbero stati guai, nel senso di una reazione violenta del mondo occidentale che non avrebbe consentito all'Italia di entrare nella sfera di influenza sovietica. La marcia del comunismo verso la socialdemocrazia è uno degli esempi rilevanti di quello che chiamo “il tramonto degli immutabili” (cioè degli “dèi”). Il Pci era radicato nel marxismo, cioè, innanzitutto, in una filosofia. La cui crisi è iniziata quando la sinistra europea – si pensi ad esempio a Rudolf Hilferding – ha incominciato a spingere il comunismo da una gestione filosofica a una scientifica del movimento rivoluzionario, trasformandolo, appunto, in socialdemocrazia.
Però lei ha scritto un libro intitolato Capitalismo senza futuro.
Anche il capitalismo, infatti, ha alle spalle una visione filosofica prevalentemente assolutistica, del mondo (individuo e proprietà come valori assoluti). Gli si fa torto quando lo si tratta come un semplice mezzo per aumentare il profitto. In Italia è più debole; ma la presenza dell’assolutismo cattolico e, fino a ieri, di quello comunista fa si che l’abbandono della tradizione abbia da noi un maggiore effetto traumatico rispetto ad altri Paesi. Ma poi – ritornando al tema della mancanza di senso dello Stato – essa porta con sé individualismo esasperato e corruzione. E, in proposito, sembra che la Guerra fredda sia stata già dimenticata. È finita da pochissimo. In Occidente il comunismo è finito, ma è come se avessimo davanti un gigante morto. È in putrefazione, ma dà luogo a forme biologiche diverse e ingombranti. La contrapposizione tra il blocco sovietico e quello occidentale è stata una situazione di mors tua, vita mea. Ognuno ha adottato qualsiasi mezzo per contrastare l’avversario...
Per esempio?
Penso alla sostanziale “alleanza” tra Stati Uniti e mafia: meglio stare con i delinquenti non comunisti che con i comunisti. Ora, il denaro americano arrivava soprattutto per aiutare i partiti anticomunisti; ma la gestione politica di questo denaro non poteva essere un fatto pubblico; inevitabile, allora, la collusione tra Stato e illegalità. Che è sopravvissuta anche dopo la fine dell’Urss. D’altra parte la magistratura è stata ingenua nel voler assumere un atteggiamento all’insegna del fiat iustitia et pereat mundo.
Qual è stata l’ingenuità?
Pensare di poter spingere fino in fondo le indagini sulle responsabilità e illegalità prodottesi dalla inevitabile collusione tra Stato e criminalità .
Sta parlando di Tangentopoli?
Un esempio potrebbe essere questo. Ma vado anche più in là: mi riferisco al mondo capitalistico. La magistratura ha voluto fare qualcosa che non era accaduto nemmeno con la fine del fascismo. Togliatti non ha incriminato
correità. E nel nostro sistema l’azione penale è obbligatoria.
E questo produce un dramma! Non sto dicendo che si sarebbe potuto evitare. Il giudice è ovviamente obbligato a indagare e a dare sanzioni, ma è anche ovvio che il vincitore – il capitalismo – non accetta di essere punito per aver usato mezzi che gli hanno consentito di vincere il nemico mortale.
La lunga gestazione della decadenza di Berlusconi è la prova che non esiste una sanzione sociale per alcuni comportamenti. E questo determina che alla fine i giudici selezionano la classe politica, nel senso che se uno non è stato condannato può fare tutto quello che vuole. Se il presidente degli Stati Uniti dice una bugia si deve dimettere.
Ma certo! Aggiungo che 25 anni fa scrivevo, nel libro da lei richiamato, che era meglio che la Fininvest scendesse in campo politicamente, piuttosto che trattenere del tutto nell’ombra il proprio operare.
Lo sottoscrive?
Sì, meglio questo di una destra che agisce con lo stile della P2. Meglio, per l’Italia, che esprima pubblicamente i propri progetti, almeno in parte.
Anche se si fanno le leggi ad personam? Non è pericoloso dire certe cose in un Paese dove i magistrati vengono tacciati di essere un cancro?
Condivido il senso della domanda. Ma proprio perché ho scritto libri come Il declino del capitalismo e Capitalismo senza futuro, quanto le sto dicendo non può passare per un’apologia del capitalismo e delle sue degenerazioni. (Non è nemmeno un’apologia del marxismo). È la constatazione di alcuni dei fattori per i quali la destinazione della tecnica al dominio del mondo produce in Italia una crisi più grave che altrove. E non dimentichiamo le tragedie e gli scompensi determinati dalla dittatura fascista.
Che ricordi ha dell’Italia fascista?
Rispetto ai nostri temi sono irrilevanti. Il più terribile, per me, è un ricordo personale, legato alla morte di mio fratello Giuseppe nel 1942, ventunenne. Un giovane straordinario. Aveva otto anni più di me. Studente alla Normale di Pisa, era stato obbligato, per legge, a diventare volontario del Regio Esercito Italiano, nel Corpo degli Alpini, sul fronte francese: la sua morte mi ha segnato. Non posso dire di aver respirato, da ragazzino, l’esecrazione per quanto, in seguito, ho saputo e capito essere il fascismo. Ho studiato dai Gesuiti: ricordo il saluto fascista all’uscita della scuola. Lì ho incontrato padre Auer, che aveva conosciuto Hitler da vicino. Andavo a lezione da lui perché volevo imparare il tedesco. Era stato intimo del giovane Hitler e mi raccontava di un uomo assolutamente disturbato, che se le cose non andavano come lui voleva, aveva incredibili accessi d’ira, si rotolava per terra. Un matto. Nelle mie conversazioni con padre Auer, ripensandoci ora, davo per scontato che i nazisti fossero dei matti.
Si evoca, con una certa frequenza, un’incapacità dell’Italia di fare i conti con il passato. Cosa ne pensa?
Le rispondo parlando di un filosofo, Giovanni Gentile, che mio fratello ascoltava a Pisa, perché è stato la figura più profonda del fascismo. Amo dire che non era Gentile a essere fascista, ma il fascismo a tentar di essere gentiliano. Gentile è stato uno dei grandi gestori del “grande turbine” di cui parlavamo all’inizio: il suo pensiero è profondamente antiassolutista e antitotalitario, Mussolini non lo capiva. Da vecchio liberale aveva visto nel fascismo l’occasione per realizzare la sua riforma della scuola. Un’ottima riforma, per quell’Italia. Oggi – anche qui, per la debolezza delle nostre strutture statali – si fanno tra l’altro concorsi universitari dove si applicano retroattivamente disposizioni pateticamente dipendenti dalla cultura inglese e americana. Anche l’idea di studiare la filosofia da un punto di vista storico è sua: un’idea purtroppo rovinata dai manuali che non hanno capito che cosa sia un storia filosofica della filosofia. Comunque, gli scritti politici di Gentile considerano il fascismo come un “esperimento”, non certo come un assetto assoluto e immodificabile.
Evasione fiscale e corruzione: sono una nostra “tara genetica”?
Una tara storica, come prima le dicevo. L’evasione fiscale è un furto ai danni di tutti. Se c’è da costruire una strada io devo metterci anche la parte degli evasori. Certo, molti artigiani e piccoli imprenditori, se non evadessero, fallirebbero. Tutti sanno queste cose. Però conosco anche tanti cattolici ai quali molti uomini di Chiesa facevano capire che se non avessero ritenuto “giusto” pagare le tasse dello Stato, avrebbero fatto bene a non pagarle. Questo Papa, da buon pastore, sta cercando di cambiare le cose. Ma non vorrei che si perdesse di vista che la “corruzione” di fondo è l’“evasione” del mondo dal passato dell’Occidente. Vorrei dire che il processo in cui le strutture del passato stanno andando in malora è come la febbre: se non la si avesse non si potrebbe guarire. Stiamo andando verso un mondo gestito dalla razionalità tecnologica; ed è probabile che l’Italia, proprio perché ha avuto gli inconvenienti di cui abbiamo parlato, anticipi i tempi rispetto agli altri popoli meno febbricitanti. (Mi lasci dire anche, molto sottovoce, che nonostante la sua destinazione al dominio del mondo, la civiltà della tecnica è ciò che chiamo “la forma più rigorosa della Follia estrema”. Ancora più sottovoce: la Follia estrema è credere nel carattere effimero, temporale, contingente, casuale, dell’uomo e della realtà: è la convinzione che ogni cosa venga dal nulla e vi ritorni. Però la difesa suprema dall'angoscia suscitata da questa convinzione – la difesa che nella tradizione è costituita, in ultimo, da Dio – è diventata la tecnica. Ovunque, la tecnica sta diventando la forma più radicale di salvezza, che oggi ha soppiantato qualsiasi altra forma di rimedio contro la morte. Mi affretto a lasciare questo tema, tanto più importante quanto più a sottovoce ne parliamo).
Anche in politica ci si affida alla tecnica come extrema ratio. Si è trattato, nel caso del governo Monti, del disvelamento di una bugia?
Rispondo ad alta voce. Una quindicina d’anni fa avevo criticato sia Monti sia Abete quando promuovevano l’unione di “solidarietà” ed “efficienza” (capitalistica). Abete, allora presidente di Confindustria, declinava tale unione, mi sembra, sul piano di una solidarietà più laica che cattolica; Monti la intendeva come solidarietà cattolica. Ma l’“efficienza” capitalistica è incompatibile con la “solidarietà” in senso cristiano. Quando Monti divenne premier, scrissi un articolo sul Corriere della Sera in cui dicevo che l’affacciarsi del suo governo “tecnico” aveva ben poco a che vedere con la destinazione della tecnica al dominio, quale viene intesa nei miei scritti. Proprio perché Monti dichiarava di voler coniugare l’efficienza capitalistica con la solidarietà in senso cattolico, quel governo “tecnico” – era prettamente politico, un po’ mascherato. Ancora, l’economia comanda la politica e quindi un economista può essere più politicizzato (cioè “ideologizzato”) di un politico. Data la tendenza di fondo del corso storico ritengo tuttavia che ci si debbano aspettare governi che, sempre più, guidino le società sulla base dell'efficienza tecno-scientifica piuttosto che di quella capitalistica, e che a questa forma di efficienza resti sempre più subordinata l’istanza solidaristica.
Le ideologie sono morte ma forse sono scomparse anche le idee. Destra e sinistra esistono ancora?
In ogni gruppo sociale ci sono quelli soddisfatti del proprio tenore di vita e tendono alla conservazione – la “destra” – e quelli che invece soddisfatti non sono e tendono al cambiamento – la “sinistra”.
Qual è la visione del mondo dello schieramento “progressista”?
Guardi: l’onorevole Gianni Cuperlo mi ha mandato un’email con il suo programma, chiedendomi cosa ne pensassi. Gli ho risposto che era un programma interessante, anche per il suo intento di collegarsi alla sinistra europea. Poi ho aggiunto che il suo progetto era il modo migliore per salvaguardare il capitalismo. Non mi ha più risposto. Ma vorrei dirgli che in quella mia aggiunta non c’era ombra di ironia.
Perché il modo migliore per salvaguardare il capitalismo?
Ormai la sinistra, non solo italiana, non è più nemmeno socialdemocrazia, che mirava all’abolizione delle classi e del capitalismo per via democratica. Ormai anche il Pd è lontanissimo da queste aspirazioni, immerso com’è nella fede, peraltro diffusissima, della validità dell’organizzazione capitalista della società.
Curiosità mondana: guarda la televisione?
Quando c’è un buon film e, quasi sempre, il telegiornale.
E i talk show?
All’inizio i litigi dei politici erano abbastanza divertenti; adesso annoiano. Ma se vogliamo parlare di televisione non possiamo lasciar da parte Internet. C’è contesa per la “conquista dello spazio”; nemmeno il “cyberspazio” ha un unico padrone e i grandi gruppi economici se lo contendono. Chi vuole imporsi sul mercato, deve utilizzare televisione e Internet e tutti i mezzi telematici. Lo strumento (il mezzo) però è destinato a prevalere sugli scopi economico-ideologici. Anche perché ciò che più colpisce lo spettatore non è tanto il messaggio quanto piuttosto la capacità di Internet e televisione di comunicare qualsiasi messaggio. (Un esempio, questo – e torno a parlare sottovoce – del processo, inevitabile, nel quale la tecnica è destinata al dominio, cioè a servirsi, essa, delle grandi forze che ancora s’illudono di poter continuare, loro, a servirsi di essa. Ma nemmeno la tecnica ha l’ultima parola).