lunedì 6 gennaio 2014
La collezione Kandinsky del Centre Pompidou al Palazzo Reale di Milano
Kandinsky
Dal folklore russo alla libertà totale delle linee: il pioniere dell’astrattismo rappresentò il suo universo privato e reagì alla tragedia della guerra
di Francesca Montorfano Corriere 17.12.13
Un
viaggio «spirituale» in Europa La danza del colore La suggestione è
fortissima. Ad accogliere i visitatori, nelle sale di Palazzo Reale, è
un’esplosione inaspettata di forme e colori, di invenzioni, di motivi
lirici e geometrici insieme che paiono muoversi liberamente, quasi
fluttuare sul fondo nero dello spazio dipinto, trasmettendo il loro
fluido energetico agli e spettatori, coinvolgendoli in un’esperienza
unica, sorprendente. La stessa fascinazione che il giovane Kandinsky
dovette provare entrando in quelle «case delle meraviglie», in quelle
izbe contadine russe dove ogni parete, ogni arredo era decorato con
immagini multicolori, facendolo sentire completamente avvolto dalla
pittura.
Ha inizio proprio dai grandi pannelli ricostruiti in
occasione dell’apertura, nel 1977, del Centre Pompidou, sulla base dei
guazzi ideati da Kandinsky per la decorazione del salone della Juryfreie
Kunstausstellung (una mostra che si tenne a Berlino dal 1911 al 1930)
questa importante monografica milanese curata da Angela Lampe con la
collaborazione per l’Italia di Ada Masoero, ricca di oltre ottanta
opere, dipinti a olio, acquerelli, litografie, disegni, provenienti dal
prestigioso museo francese, a cui furono donati dalla moglie del
pittore, Nina Kandinsky. «Una rassegna di straordinario interesse, che
consentirà di seguire l’intera parabola artistica di Kandinsky, nato in
Russia, diventato tedesco, morto cittadino francese. Che ripercorrerà
quel suo viaggio durato una vita tra le grandi capitali culturali
europee, evidenziando quegli stimoli, quegli incontri ed esperienze che
in ogni paese hanno contribuito a plasmarne il linguaggio, completandosi
e fecondandosi a vicenda, formando “l’accordo di base” della sua
poetica — ha sottolineato Angela Lampe —. Sarà l’occasione per
rileggerlo in modo nuovo, più organico e completo, dagli inizi della sua
attività alle ultime opere, anche quelle meno conosciute, cogliendo la
sua straordinaria capacità di rinnovarsi in ogni contesto».
Ha già
trent’anni Vassily quando decide di studiare pittura in Germania, dando
inizio a quell’avventura che ne farà una figura di primissimo piano
sulla scena dell’astrattismo. Ma anche a Monaco di Baviera come a
Berlino o nel piccolo paese di Murnau mantiene i contatti con la madre
patria, portando nelle sue opere l’eco delle fiabe medievali e del
folklore russo, avvicinandosi alle esperienze simboliste nella ricerca
di uno spiritualismo nuovo, di una dimensione più elevata dell’arte,
intrecciando musica e pittura, suoni e colori. In un primo tempo
affascinato da impostazioni ancora tardo impressioniste e dal
decorativismo Jugendstil, Kandinsky inizia ora a dipingere paesaggi a
campiture piatte, dai colori vivaci, antinaturalistici, vicini a quelli
dei fauves e degli espressionisti. È’ l’inizio di quel percorso che lo
porterà alla conquista della libertà più assoluta della linea e del
colore, in un progressivo allontanamento dal reale, dalla
rappresentazione del dato oggettivo, come in Improvvisazione III del
1907 o in Quadro con macchia rossa, che vede la forma ormai sciogliersi
nel colore. Sono questi gli anni in cui insieme a Franz Marc e a Paul
Klee dà vita all’avventura del «Cavaliere Azzurro» e scrive «Dello
spirituale nell’arte», anni densi di sperimentazioni e di capolavori che
traducono in immagini astratte il suo mondo interiore.
Una fase
della sua vita si sta tuttavia concludendo. Russo in terra tedesca, allo
scoppiare della guerra Kandinsky deve ritornare in patria, da cui si
allontanerà solo nel 1922, invitato da Walter Gropius a insegnare al
Bauhaus. La sua pittura si fa adesso più intellettuale, più controllata e
rigorosa, mentre la tematica dei colori fondamentali, da sempre al
centro della sua indagine, viene studiata in relazione alle forme
geometriche del triangolo, del quadrato e del cerchio, diventando
l’elemento fondante delle sue opere, di «Giallo-Rosso-Blu» con il suo
straordinario dinamismo grafico e i colori primari integrati dal verde,
dall’arancione e dal viola, di «Accordo in rosa» o del celeberrimo
«Sviluppo in bruno», dove fragili forme triangolari si muovono verso
l’alto in uno spazio luminoso tra due masse scure. Ma, con l’arrivo dei
nazisti, l’artista è costretto a emigrare di nuovo, a Parigi, ultima
tappa del suo viaggio. E nella capitale francese, a contatto con le
ricerche dei surrealisti il suo linguaggio si trasforma ancora mentre le
sue composizioni si fanno più sciolte, più gaie e animate, lasciando
entrare nuove forme biomorfe, schiarendo la tavolozza alla limpida luce
parigina. E sarà il poetico «Azzurro cielo» del 1940, con la magia di
quel caleidoscopio di forme e animaletti che galleggiano in un mondo
sereno, la risposta del pittore alla tragedia di una nuova guerra.
Con la poesia ha dato voce ai misteri più intimi delle tele
di Roberta Scorranese Corriere 17.12.13
Tutta
l’opera di Vassily Kandinsky è attraversata da un sentimento vivo,
riconoscibile, palpabile: l’insoddisfazione. Mai sazio, prese i colori
delle sue terre d’origine e ne fece astrazione: punti, linee,
superficie. Ma non era ancora abbastanza: l’arte non riesce a
riprodurre, diceva, «l’ora più bella delle giornate di Mosca». Non era
solo una questione di stile o genere: la pittura, da sola, non era
sufficiente a raccontare quel mondo che giocava a dadi con la guerra,
con le rivolte sociali.
E così, quando (esattamente cent’anni fa)
Kandinsky scrisse la sua prima raccolta di poesie, la intitolò Suoni
perché in lui la sinestesia non era soltanto una forma retorica: era una
poetica precisa. Dipingere e scrivere versi, comporre musica o
imbastire riflessioni teoriche, erano semplicemente la stessa cosa.
Siamo
nel 1913, l’anno in cui Luigi Russolo firmò il Manifesto Futurista dei
Rumori ; l’anno in cui, per la prima volta, Marcel Duchamp utilizzò il
termine «ready made» indicando la sua celebre ruota di bicicletta e
lasciando sottintendere: questo oggetto non è solo un oggetto, è un
oggetto .
«Una rosa è una rosa è una rosa», scriveva in quell’anno
Gertrude Stein nel poema Sacred Emily , traducendo in poesia (appunto)
lo spirito di quell’epoca, quando a Vienna soggiornavano sia Hitler che
Stalin e il mondo avvertiva di essere sull’orlo di «qualcosa».
Ecco
perché la poesia di Kandinsky non è solo poesia: è, insieme, suono,
colore, gesto, linea, punto, superficie. «Sinistra, in alto nell’angolo,
un puntolino/ destra, nell’angolo in basso, altro puntolino/ E al
centro niente di niente (...)» recita un poema breve. Tre capoversi in
cui troviamo un punto, un angolo, un centro e il nulla. Come nelle sue
composizioni astratte, dove la materia si decompone in un’inafferrabile
costellazione di segni, a volte opposti.
Ma non solo nelle poesie.
Anche nei suoi scritti più squisitamente teoretici (a cominciare dal
famoso Lo spirituale nell’arte , terminato in Baviera nel 1910)
Kandinsky si esprime in un linguaggio che di per sé è una dichiarazione
di intenti: evocativo, poetico. Non è un vezzo: tra i suoi ispiratori,
Kandinsky ha citato il pittore preraffaellita Dante Gabriel Rossetti e
ha stretto amicizia con i poeti simbolisti tedeschi Karl Wolfskehel e
Stefan George. Accostando suoni e segni grafici, rumori e figure
geometriche, non farà altro che ricreare quella stessa dinamica
spirituale che è così presente nel suo lungo lavoro sulla tela.
«Non
volevo altro che creare sonorità», dirà a proposito delle sue raccolte
di poesia. Che non si limiteranno alla parola scritta, ma che verranno
accompagnate da xilografie (incisioni). Dieci anni prima, nel 1903,
aveva realizzato una serie di «Poesie senza parole», piccoli poemi
visivi in cui l’artista recuperava la tecnica dell’acquaforte. Il suono è
fisico, le figure si ascoltano e i colori prendono forma.
Ecco il
«cuore» della scrittura di Kandinsky, alimentato da quelle stesse
«corrispondenze» che attraversavano i versi di Baudelaire e da quelle
visioni così precise di Rimbaud. Non è il mondo onirico dei Surrealisti,
nè quello «sovversivo» dei Dadaisti. Nonostante questo, in alcune delle
serate al Cabaret Voltaire di Zurigo, Hugo Ball scelse di leggere
alcuni versi dell’artista che «cercava il suono».
Gli amori inquieti di un borghese noioso
Che alla fine scelse la «brava moglie» Nina, più giovane di 34 anni, lo assecondava e si godeva la mondanità
di Francesca Bonazzoli Corriere 17.12.13
Più
sensibile alle nevrosi di un borghese esemplare che a quelle di un
artista d’avanguardia, Kandinsky teneva lo studio in ordine e pulito
come la sua persona sostenendo che «Sopportare la sporcizia nel proprio
atelier dimostra il cattivo gusto di un pittore. Io potrei dipingere in
smoking».
Non s’interessava di politica e si vantava di non leggere i
giornali; era religioso quanto basta per santificare le feste e fu
sempre molto superstizioso. Alle feste del Bauhaus non ballava mai, ma
si compiaceva dell’eleganza della giovane moglie. Era insomma un tipo
piuttosto noioso, tranne che, inaspettatamente per tale personalità,
nella vita sentimentale. Ebbe infatti due mogli e un’amante che visse
con lui more uxorio prima del divorzio. E dire che la vicenda della
scandalosa Anna Karenina era stata scritta solo dieci anni prima della
nascita di Kandinsky, venuto al mondo nella Russia ancora zarista.
La
prima moglie si chiamava Anja Cimiakin ed era la figlia della zia
presso cui Kandinsky andò ad abitare durante gli studi di scienze
economiche e diritto a Mosca. Anja era colta e intelligente e
frequentava l’Università come libera auditrice poiché le donne che
seguivano i corsi regolari erano rare e considerate eccentriche. Sposò
Kandinsky nel 1892 ed era pronta ad appoggiare la carriera del marito
cui, nel 1896, fu offerto un incarico di professore. Senonché i progetti
di Vassily erano nel frattempo cambiati: aveva deciso di trasferirsi a
Monaco con l’intenzione di dedicarsi all’arte.
A trent’anni, dopo
dieci di studio del diritto, ritornava sui banchi di una scuola di
pittura privata e poi si iscriveva all’Accademia nella classe di Franz
von Stuck. Nel 1901, dopo aver terminato gli studi, fondò l’associazione
Phalanx con lo scopo di offrire occasioni espositive ai giovani artisti
e corsi anche per le donne. È così che entra in scena Gabriele Münter.
La giovane allieva diventa la compagna dell’artista e pare che Anja
abbia reagito dicendo a Kandinsky: «Sono sicura che non sarai felice con
Gabriele. Comincia col vivere insieme a lei e se continui a credere che
questa donna sia fatta per te, ti darò il divorzio».
Anja lo
concesse solo nel 1911, ma aveva visto bene. Nel frattempo Wassily e
Gabriele, per salvare le apparenze della loro relazione more uxorio ,
viaggiarono molto e comprarono una casa nelle Alpi bavaresi, a Murnau
dove Kandinsky gettò le fondamenta dell’almanacco Blaue Reiter,
concepito come un veicolo di guarigione, esorcismo e salvezza,
intraprese la via dell’astrattismo e scrisse il manifesto Lo spirituale
nell’arte . La relazione con la volitiva Gabriele procurò però al
pittore molte tensioni al punto che dovette farsi ricoverare in una
clinica svizzera, ma lei si ostinava a non interrompere la relazione. Ci
penserà la guerra: nel 1914, Kandinsky fu obbligato a lasciare la
Germania entro 24 ore. La coppia partì portando con sé anche Anja, ma
Gabriele non li seguì fino a Mosca e solo l’anno dopo rivide Vassily a
Stoccolma, per l’ultima volta. Nella vita dell’artista stava per entrare
un’altra donna: Nina von Andreevskij, aristocratica, giovanissima (16
anni lei, lui 50), finalmente perfetta per il borghese Kandinsky. «Una
donna che ama davvero un uomo deve saper mandare avanti la casa e
cucinare bene: deve scomparire davanti a lui ed essere disposta a fare
molte concessioni per permettergli di sviluppare il suo lavoro senza
problemi. È quello che ho fatto: ecco perché abbiamo formato una coppia
felice», così Nina si descrisse nell’autobiografia.
Si comportò da
brava moglie, assecondando tutte le decisioni del marito, godendosi la
vita mondana che lui le offriva, ma senza tramare, come faceva invece
Alma Mahler. Si occupò di tutte le noie e le incombenze economiche e lui
la ricompensò con l’appellativo di «il mio ministro degli Interni».
Dopo
la morte del marito visse altri trentasei anni a Parigi e fu uccisa
nella tranquilla cittadina svizzera di Gstaad. Secondo Pontus Hulten,
l’allora direttore del Beaubourg, forse le fu fatale una debolezza del
suo animo russo: la passione per i gioielli, luccicanti e trasportabili
in caso di fuga. Eventualità, questa, ben conosciuta da Nina e Kandinsky
che, pur non essendo ebrei, avevano dovuto fuggire da un angolo
all’altro dell’Europa devastata da guerre e rivoluzioni nel secolo
appena trascorso.
Schönberg, le note e le parole: storia di un’amicizia bruciata
di Enrico Girardi Corriere 17.12.13
Finisce
male, perché non appena inizia a sentirsi guardato a vista, come ebreo,
Arnold Schönberg affila armi dialettiche che dire pungenti è poco. E
spara nel mucchio, spara all’impazzata, anche contro nemici che tali
sono solo nella sua immaginazione. E così compromette definitivamente,
se non una vera amicizia, un rapporto di collaborazione con Vassily
Kandinsky, che era iniziato nel migliore dei modi e che avrebbe potuto
produrre ulteriori e significativi esiti.
Si stenta a crederlo ma il
destinatario/bersaglio di due lettere dure, ostili, che il compositore
viennese scrive nel 1923 è proprio il pittore: «Se Lei accetta di
porgere i miei saluti al mio ex amico Kandinsky — gli dice congedandosi
—, Le affiderei molto volentieri l’espressione della più viva
cordialità». E in un altro passo: «Della [Sua] benevolenza nei miei
confronti non saprei che fare, neppure se volessi scriverla su una
lavagnetta come un mendicante cieco e agganciarmela sul petto in modo
che tutti possano leggerla. Un Kandinsky non dovrebbe rifletterci sopra?
Può un Kandinsky condividere le opinioni degli altri (dei tedeschi, ndr
) piuttosto che le mie?». D’altra parte non sarebbe corretto
interpretare la durezza di Schönberg senza tener conto che pochi mesi
prima era stato invitato a sloggiare, perché ebreo, dalla località di
villeggiatura dove si era ritirato a comporre. Da quel momento, chi non
si schierava a difesa degli ebrei, per lui diventava un nemico.
Kandinsky non meno degli altri. Che i due però fossero destinati ad
avere a che fare l’uno con l’altro, era nelle cose. Mentre il pittore
esponeva le sue rivoluzionare teorie pittoriche e l’estetica che vi
soggiaceva, il musicista andava elaborando il metodo di scrittura
atonale. Entrambi inoltre avevano subito il fascino del simbolismo e
dello spiritualismo. Entrambi conoscevano e avevano apprezzato il lavoro
e il pensiero di Aleksandr Skrjabin, il musicista che aveva associato
le note ai colori secondo un vocabolario emotivo tutto suo.
E mentre
Koussevitzky, ammiratore entusiastico di Skrjabin, ne dirigeva le
composizioni a Vienna, presente Schönberg, Kandinsky ne divulgava le
teorie a Monaco presso la sua cerchia di artisti. Tra questi, Thomas von
Hartmann che insieme al «maestro» tentò la fusione suono-colore nel
dramma «Der gelbe Klang» (Il suono giallo), da cui Schönberg rimase
affascinato. Così, nel 1912, quando uscì l’Almanacco del gruppo,
chiamatosi nel frattempo «Der blaue Reiter» (Il cavaliere azzurro),
Schönberg, più giovane di Kandinsky di 8 anni e pittore a sua volta, fu
invitato a collaborare. L’Almanacco conteneva pure un saggio di Hartmann
sull’anarchia in musica e un articolo sul Prometeo di Skrjabin.
Insomma, il tema del rapporto tra suono e colore era nell’aria. In più
di una occasione, Schönberg espose le proprie tele con i pittori della
cerchia, ricevendo da Kandinsky elogi e l’esortazione a continuare nella
pittura.
Di tutto ciò l’eco più tangibile è infine nel lavoro di
teatro musicale «Die glückliche Hand» («La mano felice»), un atto unico
che Schönberg compose negli anni 1910-13 su libretto proprio e che è
pervaso da una vena simbolista-espressionistica ancor più marcata che
nella precedente «Erwartung».
Qui, per la prima volta nella musica
occidentale, i colori sono scritti sulla partitura, sopra le note. La
partitura reca cioè indicazioni sui colori che, attraverso l’uso delle
luci, devono dominare ogni scena: il nero per la notte e la morte, il
giallo per la lotta e l’attività, il blu per la felicità, il verde per
la distruzione e l’annientamento.
Ma come era iniziata
quell’amicizia poi rinnegata? Con un scambio di libri: omaggiato di una
copia di Dello spirituale nell’arte , il musicista aveva ringraziando
inviandogli il suo rivoluzionario Trattato d’armonia .
Kandinsky che liberò il colore dalla realtà
di Fabrizio D’Amico Repubblica 17.12.13
MILANO
Ogni incontro con l’opera di Vassily Kandinsky – come quello della
mostra che apre oggi a Milano (al Palazzo Reale, a cura di Angela Lampe e
Ada Masoero, fino al 27 aprile 2014) con un centinaio di opere in
arrivo dal Centre Pompidou di Parigi – è denso di una sorta di
rassicurante emozione; e appaga, come pochissimi altri incontri con la
pittura moderna sanno fare, il nostro bisogno di possedere una certezza,
il nostro desiderio d’assoluto. Ed è del tutto comprensibile e quasi
ovvio che questo sentimento di pienezza discenda da uno degli uomini che
all’arte visiva hanno donato per primi quella dimensione astratta,
libera dal vincolo dell’imitazione, nella quale s’è per lo più
riconosciuta, nel XX secolo, la possibilità di toccare – appunto – un
termine assoluto.
È molto più singolare il fatto che a donarci quel
sentimento d’appagamento, di confidenza, di fiducia sia stato l’artista
che ha dubitato a lungo, e per tutta la sua stagione più alta, della
verità di quel termine che aveva saputo raggiungere. Fu lo stesso
Kandinsky, infatti, che, scovata per primo la gioia insita nella nuova
libertà, avrebbe scritto (con intuizione se possibile ancora più
profonda) che fra “grande astrazione” e“grande realismo” non poteva
correre una gerarchia, ma solo, a orientare infine la scelta, doveva
intervenire “il desiderio interiore dell’artista”.
Parole che ci
vengono proprio da colui che aveva indirizzato infine il suo “desiderio”
verso una totale indipendenza dal referente di natura: quando, dopo
aver a lungo cercato la sua immagine in unterritorio di confine tra una
forma interamente astratta e un’altra densa ancora di memorie figurali,
aveva scelto infine per sé la definitiva «possibilità di non vedere
negli oggetti soltanto la loro pura e dura materialità, ma anche ciò che
è meno corporeo». I suoi spazi, da allora in poi – almeno per tutti gli
anni Dieci, che sono i suoimaggiori – vorticanti, battuti da un vento
che travolge ogni sintassi conosciuta, folgorati da un colore acceso,
gioioso, imprudente (che fa adesso tesoro di Matisse assai più delle
conquiste del primo espressionismo tedesco, da cui pure proveniva), sono
un momento indimenticabile nella vicenda delle avanguardie d’inizio
secolo: per quella capacità che egli ebbe di dar figura a quel groppo
unito di sensi e di pensieri, di sogno e di urgenze esistenziali, che
chiamò “lo spirituale dell’arte”, e che è il modo in cui tutte le
ragioni della vita, e non solo le più nitidamente oggettivabili, si
danno compresenti nell’immagine.
Arrivò con singolare ritardo a quel
suo modo perfetto: nato nel 1866, era stato allievo e poi docente nella
facoltà di Legge dell’università di Mosca prima d’essere folgorato, nel
1896, ad una mostra impressionista, da un quadro di Covoni di Monet, in
cui – dirà – gli sembrò di scorgere la scomparsa dell’oggetto
raffigurato, annegato nella luce. È il primo incontro determinante con
la pittura, e Kandinsky ha allora già trent’anni. Il decennio che segue è
ancora un laboratorio, nel quale egli cerca anziché trovare: si
trasferisce a Monaco, dove studia pittura con Franz von Stuck, espone
nell’ambito di un’associazione da lui stesso fondata, incontra e si lega
a Gabriele Münter, che gli sarà a lungo compagna e con la quale si reca
infine a Parigi nel 1906, trattenendovisi un anno e conoscendovi tra
gli altri Picasso e Matisse. Sono questi il luogo e l’anno decisivi: a
far gemelle le due strade di Monaco e Parigi sta allora un concetto,
quello di “sintesi”, che, d’eredità simbolista, è il pensiero cruciale
che traversa e assilla l’arte deltempo: “sintesi” che dalla Brücke(prima
formazione espressionista tedesca), a Jawlensky (già compagno di
Kandinsky) e Marc, a lui stesso, si identificherà di fatto con una
“semplificazione” della realtà da riprodurre sulla tela. Ridurre la
realtà «a una sensazione dell’essenza delle cose», secondo quanto
scriverà nel 1911 Gabriele Münter, diviene allora il suo obiettivo;
toglierle la sua scorza di casuali accidenti, i suoi orpelli di canonica
bellezza, e renderla, insieme, più nuda e più ricca di verità profonde,
che lo sguardo non riesce a riconoscere nel mondo delle cose, e cerca
altrove. Vive adesso fra Monaco e Murnau, una campagna dove Gabriele ha
acquistato una casa, e lì dipinge piccoli quadri dove il paesaggio
s’incanta di cento, accesi colori: «prati di azzurro stoviglia, giallo
limone, rosa caramella; casette di zolfo con le finestre turchine; laghi
blu di Prussia; montagne violette picchiettate di nero; cieli verdi e
gialli come banane; boschi azzurri e staccionate arancioni», ha scritto
su queste stesse pagine, tanti anni fa, Giuliano Briganti. La mostra
d’oggi a Milano muove di qui: da questa eccitazione felice che, se non
era proprio accademia – dopo Gauguin, i Fauves e gli espressionisti
della Brücke – non era certo avanguardia. Ma Kandinsky, che aveva allora
compiuto i quarant’anni, incubava altro: e subito dopo fece il passo
che sarebbe stato decisivo per sé e per la pittura occidentale. Oggi
esposto, Improvvisazione IIIè un gran quadro del 1909 in cui tutto
sembra arrestarsi per miracolo in un bilico slittante fra racconto,
lontane memorie di favole russe e autonomia del colore, che è infine il
vero demone dell’immagine. Poco dopo la composizione “dimentica” del
tutto la realtà di natura, e si fa integralmente astratta: è il 1911,
l’anno in cui Kandinsky fonda con Marc il “Cavaliere azzurro” («entrambi
amavamo l’azzurro, Marc i cavalli, io i cavalieri. Così il nome venne
da sé»), conosce Paul Klee, e ascolta a Monaco la musica di Schönberg,
con il quale inizia un lungo e profittevole rapporto d’amicizia. Nel ’14
rientra in Russia, e prosegue la sua stagione ove domina lo
“spirituale”, fintanto che nel ’17, sorprendentemente, torna ad
affacciarsi per breve tempo una figuratività fauve.
Poi l’incontro
con il costruttivismo, benché foriero di dissapori con i suoi
protagonisti, orienta Kandinsky a una maggiore geometrizzazione delle
sue forme, nelle quali dai primi anni Venti (quando è chiamato da
Gropius ad insegnare al Bauhaus) predominano la linea diritta, il
cerchio, il triangolo, con influenze talvolta marcate di Klee. Con il
pittore svizzero i rapporti rimangono intensi, almeno fin quando Klee
non lascia il Bauhaus, mentre Kandinsky vi rimane sino alla chiusura
della scuola imposta dal nazismo nel ’33. Kandinsky si trasferisce
allora Parigi, dove vive circondato da un solido prestigio ma di fatto
sempre più isolato. Muore nel ’42, quando la guerra è ancora in corso.
L’attende una fama universale.
Senza titolo (1915); sopra,
Gelb-Rot-Blau (Giallo-Rosso-Blu)(1925) Per tutte le immagini © Centre
Pompidou, MNAM-CCI © Wassily Kandinsky by SIAE 2013
Quadri e teoria
Quando l’artista sapeva scrivere
I manifesti delle avanguardie che hanno segnato l’inizio del Novecento
di Giuseppe Dierna Repubblica 17.12.13
Con
l’inizio degli anni Dieci del Novecento si affaccia in pittura un nuovo
tipo di artista che denuncia ormai come limitativo il semplice agire
con tavolozza e pennelli. Serve la teoria. Si comincia col Manifesto dei
pittori futuristi(seguito, da lì a poco, dal loroManifesto tecnico), ma
è l’uscita nel 1911 dello Spirituale nell’artedi Vassily Kandinsky a
segnare il discrimine. Quello che vi si prospetta non sono infatti solo
notazioni tecniche o provocatorie, ma un più ampio discorso che vede le
arti tutte legate assieme: un’intera filosofia. E l’anno successivo
l’ulteriore mossa: due pittori, lo stesso Kandinsky e Franz Marc, danno
alle stampe a Monaco l’almanacco Der Blaue Reiter(Il cavaliere azzurro),
dove chiamano a collaborare ancora artisti figurativi: i russi Nikolaj
Kulbin e David Burljuk (futuro firmatario dei primi manifesti futuristi
russi), e August Macke, e Arnold Schönberg, all’epoca ancora pittore di
taglio espressionista.
Kandinsky spiegherà le ragioni di quel gesto:
«Marc e io c’eravamo buttati nella pittura, ma la pittura da sola non ci
bastava. Ebbi allora l’idea di un libro sintetico che […] dimostrasse
che il problema dell’arte non è un problema di forme ma di contenuto
spirituale». L’artista diventa critico e divulgatore, organizzatore
culturale (sono infatti i due redattori ad approntare le due mostre
delCavaliere azzurro). E a marcare l’affermarsi di una diversa
concezione, quando a Matisse fu chiesto di collaborare all’almanacco con
un breve articolo, egli rifiuta: «Per scrivere — afferma — bisogna
essere scrittori».
Altra visione.
Avviene così un fatto bizzarro.
Proprio
nel momento in cui si sostiene — col pennello — la più totale autonomia
del fatto pittorico, negando il soggetto e aspirando alla pura
astrazione, alcuni pittori sentono l’ineludibile bisogno di accompagnare
le loro pratiche con annotazioni teoriche esplicative che — come in
Kandinsky — arrivano fino all’elaborazione di complesse teorie.
Si
scrive con intenti diversi. Per sistematizzare gli spostamenti della
propria concezione artistica, come farà ancora Kandinsky col successivo
Punto e linea nel piano (pubblicato nel ‘26 nella collana dei «Libri del
Bauhaus», accanto ai volumi di Paul Klee), e come il raggista Michail
Larionov (presente, con Natalija Goncarova, alla Seconda mostra
delCavaliere azzurro)che — ormai in Russia — difende
nell’opuscoloRaggismo quella sua idea di una pittura che scaturisca
«dall’intersezione dei raggi riflessi da oggetti diversi».
Per
Malevic, altro reduce di quella Seconda mostra, è invece come se, giunto
colQuadrato neroal grado zero della pittura («mi sono trasformato nello
zero delle forme», scrive a Pietroburgo nel ‘15), lui dovesse in
qualche modo riempire di teoria quel vuoto, anche se la linearità
dell’esposizione non sembra affatto il fine a cui mira. Scriverà più
tardi: «sembra provato che col pennello non si riesce ad ottenere ciò
che invece si può con la penna».
E, accanto a quest’ansia di
precisazione teorica, c’è nei vari Kandinsky, Chagall e Malevic anche un
desiderio di immettere il loro sapere nei rinnovati canali della
didattica. Li ritroviamo così a insegnare nelle scuole d’arte
ristrutturate dopo il ‘18 all’ombra del Commissario alla cultura A.
Lunacarsky.
Kandinsky stilerà anche il Programma per l’Istituto di
Cultura Artistica di Mosca, che — benché non approvato per «eccesso di
spiritualismo» (l’Istituto sta entrando nel dominio costruttivistico di
Rodcenko) — giungerà nelle mani di Walter Gropius che sta mettendo su a
Weimar il suo Bauhaus, dove il pittore passerà subito a insegnare.
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